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Di tutti i colori Studi linguistici per Maria GrossmannRoberta d’ Alessandro, Gabriele Iannàccaro, Diana Passino, Anna Thornton

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Di tutti i colori

Studi linguistici per Maria Grossmann

A cura di

Roberta D’Alessandro, Gabriele Iannàccaro, Diana Passino, Anna M. Thornton

Utrecht University Repository

2017

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ISBN 978-90-9030133-4

June 2017

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Di tutti i colori. Studi linguistici per Maria Grossmann

Indice Roberta D’Alessandro, Gabriele Iannàccaro, Diana Passino, Anna M. Thornton Introduzione iv Giovanna Alfonzetti “Adunque piacevol costume è il favellare e lo star cheto ciascuno, quando la volta viene allui”: principi di conversazione cortese

1

Emanuele Banfi Il continuum ‘Nome – Verbo – Nome’ e la sua evoluzione dal proto-indeuropeo al greco e al latino 19 Lorenzo Coveri La mia canzone per Maria. Il nome Maria nell’onomastica della canzone italiana 27 Paolo D’Achille • Anna M. Thornton 33 Un cappuccino bello schiumoso: l’uso di BELLO come intensificatore di aggettivi in italiano Roberta D’Alessandro • Laura Migliori 55 Sui possessivi (encl*tici) nelle varietà italo-romanze meridionali non estreme Adolfo Elizaincín 73 La segunda gran expansión de la lengua española

Elisabetta Fava cl*tics or affixes? On the relevance of illocutionary level in the controversial categorization of a series of interrogative morphemes in Central Veneto and other north-eastern varieties

83

Livio Gaeta Morphologische Differenzierung: Schubkraft oder Mitnahmeeffekt? 103 Giorgio Graffi What are ‘Pseudo-relatives’? 115 Claudio Iacobini Gli aggettivi denominali come basi di derivazione prefissale nel corpus MIDIA 133 Gabriele Iannàccaro Migranti e giustizia linguistica: una proposta interpretativa 147 Maria Iliescu Les yeux bruns (en français et en roumain) 161 Brenda Laca A note on repetition in Spanish: volver a + VInf, re-prefixation, and adverbs of repetition 167

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iii

Romano Lazzeroni I causativi vedici fra semantica e morfologia 185 Michele Loporcaro Composti V+N e genere grammaticale in romeno 197 Francesca Masini Polirematiche ‘di colore’ in italiano: uno studio quantitativo 203 Piera Molinelli Marcatori pragmatici richiestivi in Plauto: una sfida per la traduzione in francese, italiano, rumeno e spagnolo

217

Diana Passino La composizione in abruzzese 231 Franz Rainer On the origin of Italian adjectival colour compounds of the type grigioverde ‘grey-green’ 247 Davide Ricca Morfomi, allomorfie, partizioni: uno sguardo ai paradigmi verbali del torinese 257 Leonardo M. Savoia • M. Rita Manzini • Ludovico Franco • Benedetta Baldi Nominal evaluative suffixes in Italian 283 Christoph Schwarze A proposito delle restrizioni sulla conversione di participi in aggettivi 301 Virginia Sciutto Fraseología numérica en el lenguaje de los argentinos: De ‘no valer un cinco’ a ‘ser el namber uan’ 319 Raffaele Simone Word as stratification of formats 335 Francesco Alessio Ursini On the polysemy of Italian spatial prepositions 349 Ugo Vignuzzi • Patrizia Bertini Malgarini Bagnomaria nel Vocabolario storico della cucina italiana postunitaria (VoSCIP) 369 Miriam Voghera Quando vaghezza e focus entrano in contatto: il caso di un attimo, anzi un attimino 385

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iv

Introduzione

Questo volume raccoglie 27 saggi originali di allievi, amici e colleghi di Maria Grossmann. Quasi 400

pagine di taglio e argomenti diversi di linguistica, che approfondiscono molti temi importanti, dalla

morfologia alla sintassi e al lessico, dalla sociolinguistica alla semantica formale e alla linguistica storica;

e che, cosa ormai purtroppo piuttosto rara, sono scritti in lingue diverse – italiano, inglese, spagnolo,

francese, tedesco – da linguiste e linguisti di molti Paesi e continenti differenti.

Crediamo che questo catturi almeno in parte lo spirito e l’insegnamento di Maria, che ha

esercitato impeccabilmente il suo magistero in numerose branche della nostra multiforme materia e ha

gettato semi e lanciato proposte i cui frutti sono maturati vicino a lei e anche lontano, nel tempo e nello

spazio. La grande ricchezza di argomenti e spunti del volume – che un tempo era la norma, ma ora

sembra passata di moda – ha dunque come fil rouge la vastità di competenze e interessi di coloro che la

conoscono e la amano, in una testimonianza di linguistica globale ormai rara da raccogliere, e che

permette a chi vi si accosta di concentrarsi, forse, all’inizio, sugli argomenti da lei o da lui meglio

conosciuti e frequentati, ma che sprona in seguito ad avvicinarsi anche agli altri (magari anche solo per

curiosità intellettuale) entrando così in contatto con branche della linguistica diverse e stimolanti.

Questa ricchezza di argomenti è accompagnata dal formato particolare in cui l’opera esce, una raccolta

on line di articoli open access.

Ringraziamo di cuore coloro che con il loro lavoro e la loro pazienza nel sopportare i nostri

richiami hanno così validamente contribuito alla realizzazione di questa Festschrift; e sono,

significativamente, quasi tutti coloro ai quali era stato chiesto di farlo. Solo pochi amici ed amiche, per

motivi non dipendenti dalla loro volontà, hanno dovuto rinunciare ad essere presenti nella raccolta. E,

senza falsa modestia, ci ringraziamo anche a vicenda: la collaborazione di tutti e quattro, che lavoriamo

e viviamo in quattro Paesi diversi, è stata totale, in qualche caso ai limiti del (piacevole) sacrificio.

Infine – e crediamo di interpretare anche il sentimento di autori ed autrici – ringraziamo Maria

Grossmann per quello che ha dato alla linguistica e a noi personalmente, e per averci permesso di

annoverarci fra gli amici di una persona eccezionale.

Utrecht / Stockholm / Nice / L’Aquila, giugno 2017

Roberta D’Alessandro, Gabriele Iannàccaro, Diana Passino, Anna M. Thornton

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“Adunque piacevol costume è il favellare e lo star cheto ciascuno, quando la volta viene allui”: principi di conversazione cortese

Giovanna Alfonzetti

Abstract Within the studies on historical (im)politeness, books of manners are precious sources because their meta-discourse allows us to illustrate communicative patterns considered polite in different historical times, otherwise not easy to access. Here I will try to pinpoint some of the principles that regulate conversation in a corpus of Italian books of manners – from the architext by Giovanni Della Casa (1558) until the first postwar time. The aim is that of finding out possible persistences and/or differences among texts from different times. Further-more, the normative rules of books of manners will be compared with the descriptive principles of the classical theoretical models on politeness (Lakoff 1978, Leech 1983, Brown & Levinson 1987, etc.). KEYWORDS: politeness • conversation • cooperation • books of manners • non-verbal communication 1. Introduzione: oggetto e corpus All’interno della ricerca sulla pragmatica storica e in particolare sulla (s)cortesia storica (Bax e Kádár 2012), i galatei sono un prezioso oggetto di studio perché, attraverso il loro metadiscorso, contribuisco-no a ricostruire (anche se con le dovute cautele e gli inevitabili limiti) il quadro, pur se idealizzato, dei modelli di comunicazione interpersonale considerati ‘appropriati’ o ‘cortesi’ in determinati periodi del passato, non altrimenti accessibili. Qui si cercherà, in particolare, di:

(i) individuare alcuni dei principi che regolano la conversazione in un corpus di galatei di epoca diversa; (ii) rintracciare eventuali elementi di continuità e/o discontinuità tra di essi; (iii) confrontare i risultati che emergono dall’analisi dei galatei con alcuni dei principi formulati all’interno delle principali teorie classiche sulla cortesia (Lakoff 1978; Leech 1983; Brown & Le-vinson 1987, ecc.). Il corpus preso in esame è costituito dai sei galatei giù elencati, selezionati sulla base di un crite-

rio omogeneo, l’essere cioè tutti rivolti a un pubblico di giovani lettori/lettrici: (a) l’archetipo, cioè il Galateo ovvero de’ costumi di Giovanni Della Casa; (b) tre ‘galatei morali’ post-unitari (cfr. Botteri 1999, Tasca 2004, Turnaturi 2011): Enrichetto ossia Il gala-teo del fanciullo (1871), Marina, ossia Il galateo della fanciulla (1873), entrambi di Costantino Rodella; il Gala-teo moderno ad uso dei giovinetti di Matteo Gatta (1877); (c) due galatei del primo dopo-guerra di Francesca Castellino: Le belle maniere. Nuovo galateo per le giovinette (1918) e Il libro della cortesia. Nuovo galateo pei giovinetti (1920). 2. La conversazione In tutti i galatei del corpus la lingua svolge un ruolo centrale nella caratterizzazione della cortesia, che va ben al di là dell’uso di alcune formule stereotipate e convenzionali o di singoli elementi isolati. L’attenzione è, infatti, rivolta non tanto alla lingua in senso stretto ma a quella che oggi in sociolingui-stica si definisce competenza comunicativa, cioè la “competenza riguardo a quando parlare e quando tacere, e riguardo a che cosa dire, a chi, quando, dove, in quale modo” (Hymes 1979: 223); riguardo agli

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“schemi dell’uso sequenziale del linguaggio nella conversazione, nei modi di rivolgersi, nelle formule di routine, e così via” (Hymes 1980: 64). Molteplici sono infatti le questioni affrontate nei galatei del corpus: la gestione della conversa-zione, la scelta della lingua da usare (quando, dove, con chi), fenomeni di convergen-za/accomodamento verso l’interlocutore; questioni riconducili alla testualità; scelte stilistico-lessicali (compresi i forestierismi); l’esecuzione di atti illocutori intrinsecamente cortesi (saluti, presentazioni, au-guri, ringraziamenti, condoglianze, ecc.) e scortesi (critiche, insulti, maldicenza, prese in giro, ecc.); l’uso di titoli e pronomi allocutivi, ecc. Qui si tratterà in particolare della conversazione, tema a cui tutti i galatei (non solo quelli del corpus) dedicano una parte più o meno ampia e approfondita, in perfetta consonanza con un principio base della ricerca odierna sulla cortesia: “Politeness is prototypically exibited in conversation and other kinds of face-to-face interchange” (Brown & Levinson 1987: 41) All’interno della conversazione la cortesia si manifesta oltre che negli argomenti trattati, in vari altri modi, tra i quali qui ci si soffermerà soltanto: (i) sulla gestione della conversazione – e cioè alter-nanza dei turni, interruzioni, sovrapposizioni, pause e silenzi; (ii) sulla comunicazione non verbale – aspetti prosodici, cinesici e prossemici; (iii) sul comportamento dell’interlocutore; aspetti in parte tra-scurati nei modelli teorici della cortesia, specie in quelli di prima generazione, alcuni dei quali vengono trattati all’interno dell’Analisi della conversazione e del Principio di cooperazione di Grice. 2.1 Gestione della conversazione Nella gestione di una conversazione un ruolo fondamentale è svolto dai meccanismi di intersincroniz-zazione tra parlanti, che stanno alla base del sistema comportamentale degli esseri umani quale si mani-festa sin dalla nascita, essendo tali meccanismi in gran parte regole universali dalle quali dipende il buon funzionamento dell’interazione. Da questo punto di vista l’uso del linguaggio è una pratica collettiva re-sa possibile dall’attuazione di una serie di regole e procedimenti per mezzo dei quali gli interlocutori cooperano nella gestione dell’interazione (Banfi 1999: 19).

Nel Galateo di Della Casa, da cui inizia l’analisi, si trovano alcune delle norme fondamentali che servono a regolare la gestione della conversazione, che saranno poi riprese più o meno puntualmente nei galatei successivi. Anzitutto, in Della Casa troviamo il principio dell’alternanza dei turni di parola, vero e proprio codice che sta alla base di ogni conversazione prototipica:

Adunque piacevol costume è il favellare e lo star cheto ciascuno, quando la volta viene allui (Della Casa 2000: 69).

Un corollario di questo principio, volto ad assicurare un certo equilibrio tra gli interventi dei di-versi locutori, è quello secondo cui ciascun parlante dovrebbe evitare di parlare troppo, senza lasciar spazio agli altri, comportamento che viene decisamente stigmatizzato:

Sono ancor molti che non sanno restar di dire e, come nave spinta dalla prima fuga per calar vela non s’arresta, così costor trapportati da un certo impeto scorrono e, mancata la materia del loro ragionamen-to, non finiscono per ciò, anzi o ridicono le cose già dette o favellano a vòto (Della Casa 2000: 66).

Questo principio verrà ripreso identico nel Galateo moderno di Gatta, che adopera la stessa imma-gine, paragonando il parlante logorroico a una nave inarrestabile sospinta dal vento:

Abbiamo già toccato altrove della noia che recano i parlatori eterni, quei malcreati che non vorrebbero mai concedere agli altri di avviare un discorso e di continuarlo, e tirano avanti imperterriti come nave col vento in poppa, mentre il più delle volte colla loro fastidiosa loquacità non sanno che abborracciare vec-chie e insipide cicalate (Gatta 1877: 113).

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Altra regola fondamentale della gestione della conversazione è quella di evitare le interruzioni, che segnalano vere e proprie disfunzioni nella sincronizzazione dei turni di parola, decisamente pro-scritte dal Galateo:

il rompere altrui le parole in bocca è noioso costume e spiace non altrimenti che quando l’uomo è mosso a correre et altri lo ritiene (Della Casa 2000: 67).

E qui, come altrove, Della Casa descrive il comportamento stigmatizzato con una efficace simi-litudine tratta dal mondo animale, dal quale invece le buone e belle maniere avrebbero lo scopo di al-lontanare gli esseri umani:

Et alcuni altri tanta ingordigia hanno di favellare che non lasciano dire altrui; e come noi veggiamo tal volta su per l’aie de’ contadini l’un pollo tòrre la spica di becco all’altro, così cavano costoro i ragiona-menti di bocca a colui che gli cominciò e dicono essi (Della Casa 2000: 66).

Anche in questo caso, il principio di Della Casa ritorna identico nei galatei successivi. Per esem-pio in Castellino (1918), dove il comportamento di chi interrompe continuamente è impersonato da Ci-caletta (una delle tante figure femminili che popolano questo galateo per le giovinette), la quale si com-porta alla stessa maniera dei polli in Della Casa:

Non v’è possibile incominciare un discorso e condurlo alla fine: lei [Cicaletta] ve ne spezza il filo ogni istante; se appena interrompete per ingoiar la saliva, vi finisce lei a suo modo la frase, v’imboccona le pa-role, v’ingozza, vi soffoca (Castellino 1918: 173).

Un altro comportamento proscritto, connesso alle interruzioni, è, in particolare nel galateo di Gatta, la sovrapposizione tra più parlanti, specie se protratta a lungo, nel qual caso costituisce una chia-ra violazione di due delle regole base della organizzazione della conversazione: “Overwhelmingly, one party talks at a time” e “Occurrences of more than one speaker at a time are common, but brief” (Sacks, Schegloff, & Jefferson 1974: 700):

Altro gravissimo incomodo di una conversazione è il favellare, o, dirò meglio, il gridare di molti insieme. Si assordano le persone, non s’intende nulla, o si afferrano malamente le idee (Gatta 1877: 113).

La motivazione specifica di tutti questi suggerimenti e divieti è riconducibile a un principio ge-nerale che sta alla base della concezione della cortesia in Della Casa, secondo il quale “sono spiacevoli e debbonsi fuggire” tutti gli atti che “tendono ad impedir la voglia e l’appetito altrui”, mentre “nel favel-lare si dèe più tosto agevolare il disiderio altrui che impedirlo” (Della Casa 2000: 67). Come nota Culpeper (in stampa) al riguardo, la raccomandazione di evitare atti che sono contrari all’appetito altrui riecheggia la cortesia negativa del modello di Brown e Levinson, centrata sul rispetto della libertà di azione del destinatario, sulla non interferenza e sul non ostacolare in alcun modo le sue iniziative (Brown & Levinson 1987: 70). Consigliare di non parlare troppo non vuol dire però che si debba cadere nell’errore opposto. Su questo punto tutti i galatei del corpus esprimono una posizione unanime: durante una conversazione non bisogna restare troppo a lungo in silenzio, comportamento che viene valutato più negativamente che non l’eccesso di loquacità, poiché mentre questo infastidisce soltanto, il silenzio può addirittura su-scitare un sentimento fortemente negativo come l’odio, perché implica il rifiuto di entrare in relazione con l’altro:

Ma come il soverchio dire reca fastidio; così reca il soverchio tacere odio, perciòche il tacersi colà dove gli altri parlano a vicenda, pare un non voler metter su la sua parte dello scotto; e perchè il favellare è uno aprir l’animo tuo a chi t’ode; il tacere per lo contrario pare un volersi dimorare sconosciuto (Della Casa 2000: 68).

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Puntualmente questa norma ritorna anche nei galatei successivi, nei quali si sottolinea l’effetto raggelante che i taciturni – paragonati a materie inanimate quali il marmo e il gesso – hanno sulla convi-vialità e il calore della conversazione:

Ché se dà noia chi ha sempre la lingua in moto, riesce pure uggioso chi non parla mai. Que’ pezzi di marmo, chè stan lì, perché v’è posto, che con una faccia di gesso, con un muso scipito, non ridono mai, non ammirano, non prendono parte nessuna alla conversazione, e non fan che scaldar la seggiola, sono di peso alla società, e agghiacciano il calore di un festevole convegno (Rodella 1873: 125).

Identica la posizione di Gatta, che come Della Casa, privilegia la ‘giusta misura’, evitando sem-pre gli eccessi, principio questo che come un fil rouge lega i galatei di tutti i periodi storici:

Gli estremi sono sempre viziosi; è sentenza che non fallisce: e quindi spiacciono in società quei sornioni che non dicono mai una parola; perchè, oltre al commettere la mancanza di frodare del loro contributo la conversazione, la quale è come un desinare, una merenda, dove ciascuno paga il suo scotto, danno ma-teria al sospetto ch’essi, con occhi di lince e non certo benevole intenzioni, stieno spiando ogni parola, ogni atto, la più lieve scappatella per farne soggetto d’ingiuste o troppo severe critiche (Gatta 1877: 114).1

Nei galatei post-unitari e in quelli del primo dopoguerra si hanno osservazioni più articolate sul silenzio, nel senso che si infittiscono le indicazioni relative al silenzio “locazionale”, quello cioè imposto da luoghi precisi (chiese, teatri, ecc.), al silenzio “rituale”, proprio dei servizi religiosi, funerali, confe-renze, lezioni ed esibizioni canore e musicali; e relative al silenzio “gerarchico strutturale”2, correlato cioè a parlanti di scarso potere: in linea generale secondo i galatei del corpus sono maggiormente tenuti al rispetto del silenzio i parlanti di status basso, i più giovani, e di genere femminile. Se infatti i fanciulli (tutti) hanno meno diritto a parlare, o persino l’obbligo di tacere tranne che non venga rivolta loro la parola, le fanciulle dovrebbero comunque parlare ancor meno dei loro coetanei maschi:

Finché la vostra età nol consenta, sarebbe disdicevole per voi l’entrare nelle conversazioni e nei dialoghi delle persone adulte, a meno che non vi sia indirizzata la parola (Gatta 1877: 97). Si diportassero col massimo rispetto verso tutti i convenuti; si guardassero bene dal dar noia ad alcuno; non menassero troppo la lingua, in ispecie le ragazze: dover i giovani parlar poco, e pensato: aspettar a parlare d’essere richiesti (Rodella 1971: 47).

Nei galatei di Castellino si intravedono alcuni importanti segnali di cambiamento nei modelli e nelle norme socio-culturali riguardanti il ruolo della donna, conseguenza della profonda ristrutturazione dei rapporti tra classi sociali e fra i sessi verificatasi in seguito alla Grande Guerra. In un’epoca “straziata da desolazione e da lutti”, in cui la vita si è fatta “più complessa, più varia, più difficile” non è più pos-sibile soltanto “una bontà passiva” come quella delle “nostre semplici nonne”, scrive Castellino, espri-mendo l’auspicio che “la maggior parte” delle giovinette sue lettrici aspiri “a raccogliere qualche frutto dagli studi fatti”, riacquistando così anche e soprattutto il pieno diritto alla parola:

La ragazza d’oggi studia, senza che le si gridi la croce addosso; mette la sua voce in capitolo, senza che nessuno più le imponga silenzio; fa valer le sue idee (né v’è alcun male se queste sono sagge), e può farsi veder sola per la strada senz’esser presa per una bestia rara (Castellino 1918: 127). V’accadrà, intanto, più raramente di dover tacere, quand’altri parlano, per ignoranza dell’argomento, […] o di non poter difendere un’opinione retta che sentiate abbattere o disprezzare (Castellino 1918: 86).

1 Qui e in tutte le altre citazioni si è deciso di mantenere l’accentazione e i segni di interpunzione usati dagli autori. 2 Ci si riferisce allo schema interpretativo dei fenomeni del silenzio proposto da Saville Troike (1985).

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2.1.1 Confronto con le teorie sulla cortesia Il confronto tra le prescrizioni dettate dai galatei relative alla gestione della conversazione e i principi corrispondenti formulati nell’ambito della ricerca sulla cortesia privilegerà i modelli di prima generazio-ne, e cioè, soprattutto, la Logica della cortesia di Lakoff (1978), il Face-saving view di Brown & Levinson (1987) e il Principio di cortesia di Leech (1983), concepiti come complementari al Principio di Cooperazione di Grice (1978: 206), il quale riconosce en passant l’esistenza di “massime di tanti altri tipi (estetiche, sociali, o morali) come “Sii cortese”, le quali di norma sono anch’esse osservate dai partecipanti agli scambi linguistici”. Spunto che verrà ripreso e porterà alla elaborazione dei primi modelli teorici sulla cortesia. Questa scelta dipende dal fatto che si ritiene più legittimo confrontare testi regolativi, quali sono per definizione i galatei, con modelli che, al di là delle diversità specifiche, sono in gran parte accomu-nati dalla condivisione del postulato riguardante l’esistenza di comportamenti, forme e atti intrinsecamente (s)cortesi, oltre che in gran parte universali. Questo postulato verrà invece messo in discussione a parti-re da quella che nella letteratura viene definita discursive turn – dovuta in larga parte alle critiche mosse a questi modelli soprattutto da Eelen (2001), ma anche da Watt (2003) e Mills (2003) – e quindi larga-mente rivisto in favore del principio dell’interpretazione radicalmente contestuale, e spesso controversa, di ciò che è possibile considerare (s)cortese: la cortesia, cioè, non deriverebbe ipso facto dall’uso di de-terminati elementi o strategie, ma verrebbe negoziata al micro-livello congiuntamente da parlante e de-stinatario. Non sarebbe pertanto possibile nessuna generalizzazione o tanto meno predizione su ciò che all’interno di ciascuno scambio possa essere interpretato e valutato come (s)cortese. È evidente che una posizione siffatta sarebbe inconciliabile con l’assunto su cui si fondano tutti i galatei che, in quanto co-dici normativi di comportamento, postulano che sia possibile stabilire norme e forme di cortesia ogget-tive, pur ammettendo la rilevanza di fattori storici e contestuali. Un primo dato che emerge dal confronto è che le prescrizioni contenute nei galatei del corpus trovano una qualche corrispondenza nei modelli teorici di prima generazione, e anche in alcuni studi sulla scortesia (Culpeper 1996). Secondo Leech (1983), per esempio, la cortesia oltre che manifestarsi nel contenuto della con-versazione, ha degli aspetti metalinguistici che consistono nel modo in cui la conversazione è gestita e strutturata dai partecipanti: quindi parlare nel momento sbagliato o interrompere ha sicuramente impli-cazioni scortesi. Le interruzioni figurano inoltre tra gli atti che secondo Brown & Levinson (1987: 67) minaccia-no la faccia3 sia positiva che negativa dell’interlocutore, in quanto segno di palese assenza di cooperazio-ne e invasione, metaforicamente parlando, del territorio altrui. I due autori inoltre riconoscono che l’organizzazione della conversazione, così come è stata ricostruita dagli studi pionieristici degli etnome-todologi “is extremely sensitive to violation”: le violazioni al sistema di presa dei turni – quali interrom-pere o ignorare la selezione del parlante successivo – sono di per sé atti che minacciano la faccia degli altri interlocutori. Punto di vista pienamente condiviso da Culpeper (1996: 358), nella sua anatomia del-la scortesia. L’interruzione deliberata in assenza di segnali di fine-turno da parte del parlante che ha la parola costituisce “un piccolo/grande ‘colpo di forza’, una sorta di ‘violazione territoriale’” da parte di chi in-terrompe, e se la sovrapposizione che ne deriva si prolunga oltre un certo limite senza che nessuno dei locutori si ritiri, è evidente che ci si trova di fronte a un “segnale di interazione agonale” (Banfi 1999: 28-29). Anche Kerbrat-Orecchioni (2005: 214) è del parere che non sia possibile ridurre la cortesia alla formulazione di determinati atti linguistici e che le nozioni di FACE THREATENING ACT (FTA) e FACE FLATTERING ACT (FFA) si possono applicare anche a fenomeni quali le interruzioni, che in linea gene-rale sono FTA perché ‘the floor’ è una componente del territorio. Che in alcuni casi le interruzioni possano rappresentare una violazione del sistema ideale dei turni, e quindi una sorta di ‘offesa conversazionale’ in quanto trasgressione alle regole di una conversa-zione cortese e, quindi, una vera e propria ‘forma di maleducazione’, sembra trovare del resto conferma

3 Com’è noto, Brown & Levinson riprendono il concetto di faccia da Goffman (1967: 5), secondo il quale la faccia è concepi-ta come “the positive social value a person effectively claims for himself […] an image of self delineated in terms of appro-ved social attributes”.

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nei seguenti fatti: (i) spesso chi interrompe sente il bisogno di scusarsi; (ii) all’interno degli scambi asimmetrici interrompe di solito il parlante dotato di maggiore potere e (iii) le interruzioni sono molto più frequenti e accettate in situazioni informali nelle quali le regole della cortesia si allentano (Banfi 1999: 30-31). All’interno dei modelli teorici sulla cortesia, il tema del silenzio viene affrontato esplicitamente soltanto da Leech (1983: 141), secondo il quale il silenzio può avere implicazioni sia cortesi che scortesi. Da una parte, molto opportunamente, Leech ricorda che il detto rivolto ai bambini in epoche passate – ‘Don’t speak unless you are spoken to’ – implica che il silenzio fosse considerata l’unica forma di com-portamento cortese per persone di status basso: principio questo che, come si è visto, viene chiaramen-te ribadito soprattutto nei galatei post-unitari, ma anche in quelli del primo dopoguerra. Dall’altro lato, se qualcuno viene coinvolto nella conversazione, il silenzio sarebbe un modo di sottrarsi all’impegno sociale di cooperazione e quindi, in molte circostanze, una forma di scortesia. Leech, inoltre, stabilisce una connessione tra la cortesia e l’attività del parlare allo scopo di preservare la socievolezza, rifacendo-si espressamente al concetto di comunione fatica – elaborato dapprima dall’antropologo Bronisław Mali-nowski (1930), e poi ripreso, com’è noto, da Jakobson (1966 [1960]: 188) per denominare una delle sei funzioni del linguaggio, la funzione fatica, appunto, tipica dei messaggi volti principalmente a “stabilire, prolungare o interrompere la comunicazione, a verificare se il canale funziona […], ad attirare l’attenzione dell’interlocutore o ad assicurarsi la sua continuità”. La funzione fatica, tuttavia, può essere intesa anche in una accezione più rilevante dal punto di vista interazionale, come cioè l’uso del linguag-gio allo scopo di rafforzare l’accordo, la solidarietà e la condivisione dell’esperienza. Leech (1983) si chiede, proprio per questo, se non sia il caso di inserire nel Principio di cortesia anche una Massima Fati-ca con le due relative sub-massime: a) Evita il silenzio; b) Continua a parlare; ma decide infine di conside-rarla un caso particolare della Massima dell’Accordo e della Massima della Partecipazione, che insieme a quelle del Tatto, della Generosità, dell’Approvazione e dell’Accordo, costituiscono il suo Principio di cortesia. Anche Culpeper (1996: 358) ritiene che non evitare il silenzio, oltre a mostrare di essere disinte-ressati, non coinvolti, non empatici nei confronti dell’interlocutore, sia anche un modo per far sentire l’altro a disagio, comportamento che rientra tra le strategie volte a danneggiare i bisogni della faccia po-sitiva del destinatario, e quindi etichettate come scortesia positiva, categoria speculare alla cortesia positiva di Brown & Levinson, sul cui modello Culpeper costruisce dichiaratamente la sua “anatomy of impoli-teness”. Si noti en passant, che mettere a disagio l’interlocutore contravviene alla terza delle tre regole costitutive della Logica della cortesia di Lakoff (1978: 229): “Metti D[estinatario] a suo agio – sii amichevo-le”, regola che crea cameratismo e “una sensazione di eguaglianza” tra interlocutori, e che quindi, di conseguenza, se applicata dal basso verso l’alto all’interno di rapporti asimmetrici rischia di essere con-siderata come un “prendersi delle libertà”. Il silenzio in effetti è un fenomeno con funzioni ambivalenti dal punto di vista interazionale: può essere segno di rapporti caratterizzati da forte intimità affettiva tra interlocutori o, al contrario, ma-nifestare disagio (Banfi 1999: 40). Alcuni manuali francesi di retorica del XVII secolo distinguevano, in-fatti, diversi tipi di silenzio: silenzio prudente, stupido, compiacente di approvazione, silenzio sprezzan-te e silenzio artificioso, proprio degli individui meschini e diffidenti4, ed è proprio a questi due ultimi tipi di silenzio che sembrano riferirsi sia Della Casa che gli altri autori nel proscrivere l’eccessivo silen-zio all’interno di una conversazione: un silenzio non interattivo, di chi, chiudendosi, in se stesso, pone una barriera tra sé e gli altri (Banfi 1999: 43). Il principio di non parlare troppo non è invece espressamente previsto da nessuna teoria sulla cortesia; potrebbe semmai considerarsi una violazione di una delle Massime del Principio di Cooperazione di Grice, che, come si ricorderà, così recita:

il tuo contributo alla conversazione sia tale quale richiesto, allo stadio in cui avviene, dallo scopo o orien-tamento accettato dello scambio linguistico in cui sei impegnato (Grice 1976: 203-204).

4 Cfr. Strosetzki (1984) citato in Banfi (1999: 41).

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Com’è noto, secondo Grice gli scambi linguistici non consistono, solitamente, in una sequenza di osservazioni prive di connessioni reciproche, ma sono, almeno in una certa misura, “lavori in colla-borazione”, al quale ciascun partecipante riconosce, in certa misura, uno o più scopi comuni, o almeno “un orientamento mutuamente accettato”. Ovviamente questo scopo può essere fissato fin dall’inizio, proponendo un argomento di discussione, o può modificarsi durante lo scambio; può essere ben defini-to, o per nulla come succede nelle conversazioni occasionali. In ogni caso, a ciascuno stadio della con-versazione, certe mosse sarebbero escluse perché conversazionalmente improprie. Parlare troppo potrebbe dunque essere visto come una palese violazione della Massima della Quantità, che rispecchia la comune aspettativa che i parlanti cooperino con l’essere ragionevolmente in-formativi, quindi né troppo laconici né prolissi, come prevedono le due sub-massime: “1. Dai un con-tributo tanto informativo quanto è richiesto (per gli scopi accettati dello scambio linguistico in corso). 2. Non dare un contributo più informativo di quanto richiesto” (Grice 1976: 204). Ma si potrebbe anche considerare il parlare in eccesso una violazione della Massima della Modestia del Principio di Cortesia di Leech: monopolizzare la conversazione, non lasciando sufficiente spazio agli altri interlocutori, può implicare infatti che il parlante si ponga in una posizione di superiorità. Que-sta interpretazione sembra del resto legittimata dalle stesse parole di Della Casa, Rodella e Castellino, che nelle citazioni di seguito riportate parlano di atteggiamento tipico del maestro verso i discepoli, di sdot-torare e di modo di imporsi, tutti comportamenti tutt’altro che modesti:

dalla qual cosa (cioè dal troppo favellare) conviene che gli uomini costumati si guardino, […] perchè an-cora pare che colui che favella soprastia in un certo modo a coloro che odono, come maestro a’ discepoli (Della Casa 2000: 68) [corsivo mio]. Non c’è cosa che più urti i nervi, che il sentir sempre uno a sdottorare, impedendo che altri pure dica la sua (Rodella 1872: 124) [corsivo mio]. I desiderio di piacere è naturale, è umano, è doveroso, anzi! Ma non bisogna esagerare come la signorina “Eccomi qui” […] Quando arriva lei in una sala, o prende parte a una conversazione, ha un tal modo d’imporsi, che le sue coetanee, o per evitare ciance, o per una voglia impulsiva d’agire diversamente da lei, devono lasciarla passare, cederle la parola (Castellino 1918: 123).

2.2 Comunicazione non verbale Tutti i galatei del corpus considerano gli aspetti non verbali – paralinguistici, cinesici e prossemici – in-gredienti fondamentali della comunicazione cortese, con alcune differenze e molti elementi di continui-tà. Iniziando dagli aspetti paralinguistici, nel Galateo vengono date indicazioni riguardanti la qualità della voce, che secondo Della Casa

non vuole esser né roca né aspera, e non si dèe stridere, né per riso o per altro accidente cigolare come le carucole fanno, né, mentre che l’uomo sbadiglia pur favellare (Della Casa 2000: 64).

Molta importanza viene inoltre accordata al volume, alla velocità di elocuzione e a una accurata articolazione dei suoni, a proposito dei quali Della Casa così prescrive:

Non istà bene alzar la voce a guisa di banditore, né anco si dèe favellare sì piano che chi ascolta non oda. E se tu non sarai stato udito la prima volta, non dèi dire la seconda ancora più piano; né anco dèi gridare, accioché tu non dimostri d’imbizzarrire perchioché ti sia convenuto replicare quello che tu avevi detto (Della Casa 2000: 64). Tu non parlerai sì lento, come svogliato, né sì ingordamente, come affamato, ma come temperato uomo dèe fare; e […] tu proferirai le lettere e le sillabe con una convenevole dolcezza, non a guisa di maestro che insegna a leggere e compitare a’ fanciulli, né anco le masticherai né inghiottiraile appiccate et impia-stricciate insieme l’una con l’altra (Della Casa 2000: 66).

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La motivazione di tali prescrizioni è anche in questo caso duplice: da una parte, il ‘non procurar noia’ (obiettivo primario del Galateo), parlando a voce troppo alta, bassa, stridula, ecc.; dall’altra, questi comportamenti servono, come del resto la cortesia in generale, anche da indicatori sociali (Kasper 1990), segnalando in questo caso lo status di gentiluomo:

se tu arai adunque a memoria questi et altri sì fatti ammaestramenti, il tuo favellare sarà volentieri e con piacere ascoltato dalle persone, e manterrai il grado e la degnità che si conviene a gentiluomo bene alle-vato e costumato (Della Casa 2000: 66).

La stessa duplice motivazione sta dietro ai precetti riguardanti gli aspetti cinesici, alla cui base vi è anche un criterio estetico. Della Casa, alla fine del trattato, proscrive, infatti, tutta una serie di “dif-formi maniere e spiacevoli” perché contrarie a leggiadria e avenentezza:

Vuolsi anco por mente come l’uomo muove il corpo, massimamente in favellando, perchioché egli avie-ne assai spesso che altri è sì attento a quello che egli ragiona che poco gli cale d’altro; e chi dimena il ca-po e chi straluna gli occhi e l’un ciglio lieva a mezzo la fronte e l’altro china fino al mento; e tale torce la bocca, et alcuni altri sputano addosso e nel viso a coloro co’ quli ragionano; trovansi anco di quelli che muovono siffattamente le mani come se essi ti volessero cacciar le mosche (Della Casa 2000: 86).

Quanto alla prossemica, Della Casa prescrive di tenere un portamento eretto, di non protender-si verso l’interlocutore e di mantenersi anzi a una certa distanza:

Quando si favella con alcuno, non se gli dèe l’uomo avicinare sì che se gli aliti nel viso, percioché molti troverai che non amano di sentire il fiato altrui, quantunque cattivo odore non ne venisse (Della Casa 2000: 15).

Il divieto di non avvicinarsi troppo all’interlocutore è motivato principalmente dal fastidio che può causare ai sensi; non a caso viene introdotto nella parte dove si tratta di comportamenti a tavola passibili di suscitare repulsione e “schifo”, come per es. stare chini “tutti abbandonati” sul cibo “a guisa di porci col grifo nella broda”, “ugnersi le dita”, “sputare”, “tossire”, “starnutire”, offrire ad altri il pro-prio “moccichino” pur se pulito, ecc. (Della Casa 2000: 14-15). La necessità di non avvicinarsi troppo all’interlocutore, che tornerà nei galatei successivi, non può non ricordarci le ricerche di Hall (1966) sulla distanza spaziale correlata con la distanza sociale e con il tipo di relazione (intima: 0-45 cm, personale: 45-120 cm, sociale: 120-350 cm, e pubblica oltre i 350 cm.), e soggetta a forte variazione culturale. A Hall si deve il concetto di personal space, la cui tra-sgressione creerebbe disagio e persino paura di essere minacciati. Non a caso, nell’ambito degli studi sulla (s)cortesia, Culpeper (1996: 358) considera invadere lo spazio personale dell’altro come una infrazione alle esigenze della faccia negativa, cioè al bisogno dell’individuo di preservare il suo territorio, sia in senso fisico (collocandosi più vicini all’interlocutore di quanto ammesso dalla relazione), che metaforico (chiedendo o dando informazioni troppo intime). I galatei successivi riecheggiano puntualmente le prescrizioni di Della Casa relative alla comuni-cazione non verbale, con alcune differenze così sintetizzabili: a) maggiore contestualizzazione: se è vero che, rispetto al Cortegiano, il Galateo “esce nel ‘viaggio’ della vita […] esce di reggia e di corte […] ed entra nel tempo […] nelle città e tra gli uomini” (Ossola 2000: VI), tuttavia non vi si menzionano molti luoghi specifici; mentre nei galatei successivi vi è una maggiore contestualizzazione dei comportamenti suggeriti e/o proscritti in relazione ai luoghi della so-cialità borghese: scuola, chiesa, teatro, negozi, e soprattutto famiglia, che acquista sempre più rilevanza dai galatei postunitari in poi; b) differenze di genere: Gatta, Rodella e Castellino sottolineano gli effetti positivi o negativi di alcuni fenomeni non verbali (volume, tono, gesti) sulla grazia e/o bellezza femminile. La donna, inoltre, per il suo ruolo nella società, è tenuta a curare maggiormente la dimensione interpersonale e affettiva dell’interazione, attraverso un uso sapiente e accorto dei segnali non verbali.

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Gatta (1877: 98) ascrive il parlare a voce troppo alta agli “atti molesti all’udito”, e raccomanda che “il tuono della voce non sia nè troppo alto nè troppo basso”, riportando poi letteralmente le parole di Della Casa (senza citarlo) riguardo al non alzare la voce a guisa di banditore. Anche qui troviamo una duplice motivazione: coloro che parlano a voce troppo alta, oltre a disturbare gli altri, danneggiano an-che la loro immagine in quanto compiono un atto incivile, “prova manifesta, sia nelle donne che negli uomini, di leggerezza di spirito, di nessuna coltura, di un totale difetto d’ogni senso gentile e delicato del bello” (Gatta 1877: 128). Pure per Rodella i fattori paralinguistici sono una componente fondamentale del modello posi-tivo incarnato dai due protagonisti, che seguono pedissequamente le prescrizioni del Galateo di Della Casa. Questo, d’altronde, è per entrambi, il mezzo attraverso cui si realizza il loro processo di acquisi-zione delle buone maniere: Enrichetto lo scopre nella biblioteca del padre e lo legge autonomamente, a Marina invece è la madre che ne legge un capitolo al giorno. Il risultato è che nelle conversazioni

quando il parlare toccava a lei, non usciva fuori con voce fievole e bassa da potersi a mala pena intende-re, come neppure l’alzava di troppo a intronare le orecchie, che è impulito e sconveniente; perchè, la-sciando stare il resto, la voce sforzata perde di armonia e di soavità, e vien fuori stridula e rotta; inoltre dovendosi perciò spalancare la bocca, le labbra si contorcono da perdere quella grazia, a cui deve sempre badare la fanciulla (Rodella 1873: 125).

Il cambiamento più rilevante nella concezione della cortesia tra l’archetipo e i galatei successivi del corpus si può rintracciare nel fatto che mentre il Galateo persegue “un accurato ridimensionamento della sfera dell’individualità” (Patrizi 1992: 40), negli altri galatei la cortesia include una componente ri-conducibile alla comunicazione emotiva, che va sviluppata e regolamentata sino a diventare una vera e pro-pria competenza emotiva: qualità della voce, espressioni del volto, sorrisi, sguardi, gesti, posture, ecc. comunicano stati d’animo, affetti, atteggiamenti positivi o negativi nei confronti dell’interlocutore, di grande valore all’interno di una cortesia intesa non come etichetta – cioè insieme di convenzioni di raffi-natezza e urbanità da esibire nelle occasioni sociali – ma soprattutto come il riflesso esterno di qualità interiori, di emozioni e affetti sinceri, delle virtù che scaturiscono dall’anima:

[Marina] Lontana da quel che si dice etichetta, sì che stava a bilanciare il non tocca a me, o il tocca a te, seguiva l’impulso del suo cuore, e andava da questa o da quella, abbracciando le amiche, salutando tutte con in-genua dimestichezza (Rodella 1872: 104).

E quando Marina recitava poesie

nella fronte di tutti s’improntavano gli stessi moti di lei, come la sua parola fosse una scintilla elettrica, che mettesse in comunicazione tutte quelle anime (Rodella 1872: 106).

Anche per Castellino (1918: 184) “i gesti del viso, delle mani, di tutto il corpo sono la più im-mediata espressione delle belle maniere, che dal cuore passano all’esterno”. 2.2.1 Confronto con le teorie sulla cortesia La rilevanza delle emozioni trova pieno riconoscimento nella rivisitazione della cortesia da parte di Arndt & Janney (1985: 286) in termini di “emotional support conveyed multimodally through verbal, vocal and kinesic cues”, che si pone in aperta contrapposizione agli approcci tradizionali accusati di trattare gli esseri umani come automi, senza prendere in considerazione emozioni e stati d’animo così profondamente connessi al comportamento cortese. Critica pienamente giustificata se si pensa che in effetti la maggior parte della ricerca sulla (s)cortesia ha prestato scarsa attenzione al ruolo della comunicazione non verbale, nonostante sia indi-scutibile che “utterances become ‘meaningful’ – by which we mean interpretable – only through the in-teraction of verbal, prosodic, and kinesic actions in context” (Arndt & Janney 1987: 248). Oggi questo principio viene condiviso soprattutto da Culpeper (2011a: 146-147) – che attribuisce a Arndt e Janney il

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merito di aver condotto una riflessione sistematica e dettagliata su come “words and structures, proso-dy and kinesic features interact and create meaning in communication” – e anche da Kádár & Haugh (2013: 130), che definiscono interaction multimodality “the way in which multiple modes can be drawn upon in forming understandings of politeness in interaction”. I galatei post-unitari e del primo dopoguerra mostrano una qualche consapevolezza di alcuni meccanismi che regolano il funzionamento multimodale della comunicazione cortese, il primo dei quali riguarda la prosodia, a lungo trascurata negli studi sulla cortesia5, nonostante la ricerca sulla comunica-zione abbia ripetutamene dimostrato che i fatti prosodici non solo svolgono un ruolo importante nel disambiguare i messaggi6, ma possono in certuni casi prevalere sui significati convenzionali associati alle forme linguistiche, come per es. negli enunciati ironici o sarcastici. Di conseguenza, nell’interazione fac-cia a faccia il come qualcosa è detto – cioè la complessa interazione di volume, accento, ritmo, qualità della voce – può influenzare enormemente le interpretazioni del destinatario (Culpeper 2011b, Kádár & Haugh 2013). Si legga al riguardo Castellino:

Provate a dire le cose più dolci nel tono più rude a un vostro cagnolino: lui vi guarderà con occhi suppli-chevoli, e s’accuccerà con la coda fra le gambe. Minacciatelo con voce piana, affettuosa, e lui scodinzole-rà, come se gli faceste complimenti (Castellino 1918: 184-185).

La qualità e il volume della voce influenzano non solo gli effetti perlocutori ma la stessa forza illocutoria del messaggio, tanto che un complimento rischia di essere percepito e decodificato come una ingiuria a seconda dei tratti prosodici:

È così importante, nella vita, il trovare quell’intonazione di voce che sappia calmare invece d’irritare, rimproverare invece d’offendere, esprimere le proprie opinioni senz’aver l’aria d’imporle e senz’attirarci rudi obbiezioni! (Castellino 1918: 185). Pepino ignora la buona creanza. Vuol fare un complimento? Te lo grida in faccia, come un’ingiuria (Ca-stellino 1920: 12-13).

La qualità della voce può avere il duplice effetto di rafforzare atti positivi – “una parola affabile accresce valore a un atto di bene” – o anche mitigare atti negativi: “un morbido tono di voce addolcisce un rimprovero” (Castellino 1920: 13); principio in qualche modo riconducibile alla distinzione introdot-ta da Arndt & Janney (1987: 369) tra redundant patterning, che ha l’effetto di amplificare il messaggio ver-bale, e contrastive patterning che invece lo modula o lo modifica. I segnali visivi sono stati trascurati nella ricerca sulla (s)cortesia, anche qui con la principale ec-cezione di Arndt e Janney (1987). Solo di recente si ammette che “non-verbal modes can also be critical in constituting understandings of politeness in interaction”, giungendo finalmente a riconoscere il ruolo cruciale di gesti e movimenti del corpo (testa, mani, spalle), espressioni facciali (movimenti della bocca, naso, sopracciglia), sguardo (soprattutto direzione e intensità), nonché delle reciproche distanze e delle posture dei vari partecipanti durante l’interazione (Kádár & Haugh 2013: 131). Come osserva, infatti, Culpeper (2011a: 15), lamentando la scarsa attenzione verso questa area negli studi di pragmatica, è un errore ritenere che i segnali non verbali siano separabili dagli altri aspetti della comunicazione: “Beha-viour is a multimodal stream, with one modality interacting with other modalities to create a whole. Moreoever […] there is a high degree of redundancy, in the technical sense of reducing ambiguities and equivocations of meaning”. Tornando all’analisi dei galatei del corpus, va notato come Castellino si mostri consapevole dell’importanza che questi fattori svolgono nella caratterizzazione delle belle maniere; nella galleria di personaggi che servono da modelli negativi, Cicaletta è l’esempio prototipico di tutto ciò che una fan-ciulla non dovrebbe mai fare:

5 Cenni sparsi sulla prosodia si trovano in Brown & Levinson (1987). 6 Cfr. Archer & Ackert (1977); De Paulo & Friedman (1998).

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Se guardate Cicaletta nella piena enfasi delle sue cicalate, la vedrete dondolarsi, dinoccolarsi, saltare, guizzare, far giravolte, spalancar le braccia, stringere i pugni, rispondere con strane contrazioni del viso al mimico delirio della persona, e finirete col sentirvi il capogiro o, addirittura, il mal di mare (Castellino 1918: 182).

Naturalmente qui come altrove i galatei optano per la ‘giusta misura’, proscrivendo anche la as-soluta fissità:

L'intimo commovimento deve apparire in una discreta animazione della fisionomia, in un morbido in-curvarsi delle braccia, in una delicata loquela delle mani. Né burattini, né manichini, insomma (Castellino 1918: 184).

Castellino accenna inoltre alla correlazione tra espressioni del volto ed emozioni:

Accade dell’inflessione come della fisionomia, ch’è un muto linguaggio: le contrazioni del viso denotano la frequenza di sentimenti irosi e duri e la ruvidezza del tono indicala frequenza di ruvide parole (Castel-lino 1918: 185).

Tema che, com’è noto, è stato ampiamente investigato al livello empirico negli studi di Ekman7, dove le espressioni facciali vengono descritte in riferimento allo stato di specifici tratti del volto: fronte, sopracciglia, occhi e palpebre, naso, guance, mento e labbra. 2.3 Comportamento dell’ascoltatore Tutti i galatei del corpus regolamentano il comportamento dell’ascoltatore sulla base di un principio unanime, chiaramente formulato da Della Casa:

Non si dèe dire né fare cosa per la quale altri dia segno di poco amare o di poco apprezzar coloro co’ quali si dimora (Della Casa 2000: 16).

Questo divieto scaturisce a sua volta da un bisogno fondamentale degli esseri umani, secondo cui “ciascuno appetisce di essere stimato, ancora che egli no’l vaglia” (Della Casa 2000: 20). Non si può non notare come questo principio regolatore del comportamento umano in Della Casa mostri una forte analogia con il concetto di faccia positiva del modello di Brown & Levinson (1987: 62) che, come si è detto, consiste nel desiderio “to be ratified, understood, approved of, liked or admi-red”. Così come una evidente somiglianza lega un altro principio che Della Casa postula come criterio guida dell’interazione umana – e cioè quello secondo cui le “cirimonie superflue” infastidiscono gli uo-mini perché “per loro s’impedisce altrui il vivere a suo senno, cioè la libertà, la quale ciascuno appetisce innanzi ad ogni altra cosa” (2000: 44) – con il concetto di faccia negativa, che secondo Brown & Levinson (1987: 61), consiste nella fondamentale rivendicazione alla “freedom of action and freedom from impo-sition”. Dalla raccomandazione generale di astenersi dal fare qualunque cosa possa rivelare scarso ap-prezzamento verso gli altri, deriva la necessità di evitare di compiere durante una conversazione tutti quegli atti che dimostrano chiaramente che “la persona sia non curante d’altrui” (Della Casa 2000: 16). Anzitutto addormentarsi:

Laonde poco poco gentil costume pare che sia quello che molti sogliono usare, cioè di volentieri dormir-si, colà dove onesta brigata si segga e ragioni, percioché, così facendo, dimostrano che poco gli apprez-zino o poco lor caglia di loro e de’ loro ragionamenti (Della Casa 2000: 16).

7 Cfr. Ekman, Friesen & Tomkin (1971); Ekman (1979; 1993).

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Si noti inoltre che questo comportamento potrebbe danneggiare anche l’immagine del dormien-te, che durante il sonno potrebbe “fare alcuno atto spiacevole ad udire o a vedere: e bene spesso questi cotali si risentono sudati e bavosi” (Della Casa 2000: 16). Altro atto da evitare – in quanto “noiosa usanza” – è “il drizzarsi ove gli altri seggano e favelli-no e passeggiar per la stanza” (Della Casa 2000: 16). Così come vengono stigmatizzati anche

quelli che così si dimenano e scontorconsi e prostendonsi e sbadigliano, rivolgendosi ora in su l’un lato et ora in su l’altro, che pare che gli pigli la febre in quell’ora: segno evidente che quella brigata con cui sono rincresce loro (Della Casa 2000: 16).

Fanno inoltre male coloro che si mettono a leggere una lettera tirata fuori dalla tasca, o chi si ta-glia le unghie “quasi che egli abbia quella brigata per nulla e però si procacci d’altro sollazzo per trapas-sare il tempo” (Della Casa 2000: 17). Vanno anche evitati quei modi che alcuni usano cioè “cantarsi fra’ denti o sonare il tamburino con le dita o dimenar le gambe”. Inoltre “l’uomo costumato” deve astenersi “dal molto sbadigliare”, perché segno di “un cotal rincrescimento” e “tedio” che mostra che

colui che così spesso sbadiglia amerebbe di essere più tosto in altra parte che quivi, e che la brigata, ove egli è, et i ragionamenti et i modi di loro gli rincrescono (Della Casa 2000: 10).

Anche in questo caso poi si rischia di compromettere la propria immagine perché il troppo sba-digliare è “indicio cattivo” di avere “addormentato animo e sonnecchioso”. Come si vede, qui come al-trove, la motivazione sottostante alle norme del galateo è duplice: considerazione dell’altro ma anche preservazione della propria immagine. La serie di atti da non fare durante una conversazione si conclude con due divieti; il primo con-siste nel gesto estremamente scortese di piantare in asso qualcuno che sta parlando e rivolgere altrove l’attenzione e il secondo nel distrarsi in continuazione salvo poi a interrompere per chiedere chiarimenti su ciò che non è stato sentito:

E vuolsi stare attento, quando l’uom favella, accioché non ti convegna dire tratto tratto: – Eh? – o: – Come? – il qual vezzo sogliono avere molti, e non è ciò minor sconcio a chi favella che lo intoppare ne’ sassi a chi va (Della Casa 2000: 67).

La serie di atti che, secondo Della Casa, l’ascoltatore non dovrebbe compiere mostra una sor-prendente continuità nel tempo, ritornando identica spesso anche con le stesse parole, nei galatei del corpus ma anche in quelli odierni. Si ricorderà qui solo Gatta, il quale si limita a riecheggiare pedisse-quamente le raccomandazioni dell’archetipo:

Porgete sempre attenzione ai discorsi che si tengono, e state in guardia per non commettere certi atti che si ravvisano pur troppo nelle persone incivili; rosicchiarsi le unghie coi denti; cacciar le dita su per le na-rici e nelle orecchie; porre ogni tratto le mani sulla testa per grattarsi o per acconciarsi i capelli; cantarel-lare o zufolare tra i denti; suonare il tamburino colle dita, e così via, chè la filza di codeste indecenze e villaníe è interminabile. Similmente fa male chi in una conversazione trae di tasca una lettera e si pone a scorrer-la, come fosse in casa propria (Gatta 1877: 108-109) [corsivo mio].

Un comportamento impeccabile è quello che Rodella attribuisce a Enrichetto, che ha ormai ac-quisito tutti gli insegnamenti che gli derivano dalla lettura giornaliera del Galateo:

Nè quando altri parlava, egli si metteva a conversar col vicino, o dava segno di noia collo sbadigliare o col dondolarsi sulla seggiola. né interrompeva tratto tratto con qualche domanda estranea al soggetto; nè si studiava di torcere le parole altrui al ridicolo (Rodella 1971: 48).

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2.3.1 Confronto con le teorie sulla cortesia Nelle teorie classiche sulla cortesia, per lo più centrate unilateralmente sul comportamento del parlan-te, non ci si preoccupa molto di quello dell’ascoltatore. Nel modello di Brown & Levinson tutti i com-portamenti proscritti da Della Casa – riconducibili in ultima istanza a disattenzione – rientrerebbero tra gli atti che minacciano faccia positiva dell’interlocutore, in particolare nel gruppo: “(e) blatant non-cooperation in an activity”, dove viene menzionato espressamente “showing non-attention” (1987: 67). Alcuni comportamenti, come ad es. addormentarsi – poiché secondo Della Casa, come si è visto, comportano il rischio di “fare alcuno atto spiacevole ad udire o a vedere” – potrebbero ricondursi alla categoria degli atti che danneggiano anche la faccia positiva di chi li compie, perché assimilabili alla ca-tegoria che i due autori descrivono come “(c) breakdown of physical control over body, bodily leakage, stumbling or falling down, etc.” (1987: 68). L’importanza dell’ascolto nel modello teorico di Brown & Levinson si può dedurre indirettamente anche dal fatto che la quindicesima strategia di cor-tesia positiva consiste nell’offrire regali, anche immateriali, come “sympathy, understanding, coopera-tion”. Secondo i due studiosi infatti questa sarebbe “the classic positive-politeness action of gift-giving” perché all’interno delle relazioni umane soddisfa “the wants to be liked, admired, cared about, understood, listened, and so on” (1987: 129). In relazione al Principio di cortesia di Leech (1983) la disattenzione sarebbe una violazione della Massima della Partecipazione, mentre nell’anatomia della scortesia delineata da Culpeper (1996: 357), essere disattento equivale a Essere disinteressato, non coinvolto, non empatico ed è pertanto riconducibile nell’ambito della scortesia positiva. 2.3.2 L’ascoltatore ideale Della Casa, come si è visto, si sofferma soprattutto a proscrivere, elencando in negativo tutto ciò che un ascoltatore “costumato” non deve fare. Ma qual è invece il comportamento cortese? Castellino (1920: 67-68) dedica un breve capitolo all’Arte dell’ascoltare, nel quale dapprima delinea anch’essa la ti-pologia dei cattivi ascoltatori, che presentano fondamentalmente tutti le cattive abitudini già tracciate da Della Casa. Troviamo inoltre chi finge di prestare massima attenzione, immobile, con gli occhi sbarrati e “il viso proteso verso di voi” e poi improvvisamente si scuote “per saltare di palo in frasca, tirando fuori un argomento che ci ha che fare col vostro come cavoli a merenda”. Si noti al riguardo che saltare di palo in frasca costituisce una violazione della Massima della Pertinen-za del Principio di Cooperazione. Di solito si ritiene che alcune violazioni di tale principio si spieghino con la necessità/volontà di rispettare le massime della cortesia (Leech 1983): per es. in alcune circostan-ze la Massima della qualità viene violata non dicendo la verità per non ferire, dando quindi priorità alla Massima della approvazione o del tatto. Qui però, nel comportamento del cattivo ascoltatore, è proprio la violazione di una massima del Principio di Cooperazione ad avere di per sé implicazioni scortesi: è come se la cooperazione venisse inglobata all’interno della cortesia; punto questo che d’altronde trova ricono-scimento teorico nella definizione di Kienpointner (1997: 259), secondo la quale “politeness is a kind of prototypically cooperative communcative behavior”, i cui scopi si realizzano anche per mezzo di atti che possano rafforzare la faccia del destinatario (face-enhancing acts): e l’ascolto, in quanto “dono” offerto dall’ascoltatore al parlante, può sicuramente ritenersi tale. Mentre per converso, la disattenzione, con concomitante interruzione e cambiamento di argomento, sempre all’interno del modello di Kienpoint-ner, sarebbe un atto che manifesta non curanza della faccia dell’interlocutore e quindi un atto di scorte-sia, che lo studioso definisce come “a kind of prototypically non-cooperative or competitive communi-cative behavior” (260). Nella seconda parte del capitolo Castellino traccia anche il profilo dell’ascoltatore ideale:

Ottimo ascoltatore è chi, ponendo al vostro discorso schietta attenzione e dimenticando alquanto se stesso, dimostra vero diletto o, almeno interesse, e, se ora approva e consente, ora cortesem*nte contra-dice; e gli s’anima l’occhio, e or sorride e or s’attrista, ma sempre ha nel viso un’espressione di simpatia e di compiacenza che vi spinge le parole dal cuore alla bocca e ve le riscalda per via (Castellino 1920: 68).

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Come si vede, il requisito di base dell’ottimo ascoltatore è la produzione costante di espressioni di feed back che possano rassicurare il parlante circa la propria attenzione, il proprio interesse e l’avvenuta comprensione del messaggio. Oggi all’interno degli studi sul parlato conversazionale si assegna un’enorme importanza ai segnali verbali e non verbali di feed back ai fini della buona riuscita di qualsiasi scambio comunicativo.8 I segnali prodotti dall’ascoltatore ideale descritto da Castellino sono di vario genere, ma prevalgono quelli non verbali: sguardi, sorrisi, espressioni del volto. 3. Conclusioni L’analisi qui condotta di un corpus di galatei in prospettiva storico-pragmatica ha fatto emergere tre punti principali: (i) elementi di continuità tra galatei di epoche diverse; (ii) variabilità diacronica; (iii) ana-logie tra galatei e alcuni dei principi formulati all’interno dei modelli pragmatici sulla cortesia. Quanto al primo punto, la continuità tra galatei di epoche diverse si può spiegare in più modi, tra loro interconnessi. Anzitutto, con l’indubbia influenza plurisecolare di Della Casa, del resto esplici-tamente riconosciuta, come si è visto, dagli stessi autori: si pensi a Enrichetto e Marina che leggono en-trambi il Galateo di Della Casa come strumento fondamentale di acquisizione delle buone maniere. E tuttavia, le norme e i principi formulati da Della Casa dovevano pur conservare a secoli di distanza una loro plausibilità agli occhi dei lettori del tempo, se potevano essere ancora riproposti come valida guida nel processo educativo in un clima sociopolitico e culturale profondamente mutato, qual è quello che caratterizza l’Italia post-unitaria rispetto all’epoca tardo-rinascimentale. A questo proposito va tenuto presente che tra norme prescrittive e descrittive si dà un rapporto circolare: le regole prescrittive, quali sono quelle che troviamo in un galateo, non nascono dal nulla ma sono storicamente radicate in regole descrittive presenti nella società (perlomeno nei suoi strati alti) e in gran parte le riflettono; e che allo stesso tempo condizionano “future practices and so feeding back into the descriptive norms that gave rise to them” (Terkourafi 2011: 176). Si potrebbe inoltre sostenere che la continuità tra galatei lontani nel tempo dipenda da una logica profonda cui obbedirebbe la cortesia, al di là delle diverse modalità in cui si manifesta in culture ed epoche diverse (Kerbrat Orecchioni 2012: 149). È indubbio al riguardo che in tutte le società umane gli elementi fondanti della cortesia possono ritenersi la considerazione per gli altri (Watt 2003: 14) e il bisogno di salvaguardare la propria immagine sociale.9 È tuttavia, altrettanto innegabile, che in epoche e culture diverse varia profondamente ciò che si intende per considerazione dell’altro e di conseguenza varieranno i comportamenti, gli atti, le strategie fi-nalizzati al raggiungimento di tale scopo: la considerazione per l’altro può tendere verso il polo di defe-renza, rispetto, non imposizione (cortesia negativa in Brown e Levinson), da un lato; oppure verso il polo di vicinanza, familiarità, empatia, condivisione, ecc. (cortesia positiva), dall’altro. Così come del resto va-riano anche i tratti considerati positivi della propria immagine sociale e i mezzi per la presentazione di sé. Questo ci porta ad ammettere il relativismo culturale e storico della cortesia, posizione oggi lar-gamente condivisa dagli studiosi e di cui gli stessi autori dei galatei sono consapevoli, come dimostra sia la ripetuta occorrenza nei titoli di testi scritti in epoche diverse degli aggettivi nuovo o moderno, dietro cui sta la volontà di assicurare che i modelli comportamentali proposti siano al passo con i tempi, sia le di-chiarazioni esplicite:

Questi atti di pulitezza però di cui favelliamo, quantunque derivino dal medesimo sentimento, variano e si manifestano in modo diverso, a seconda de’ tempi e dei luoghi (Gatta 1877: 19). Salvo quelle che per la loro natura sono immutabili, accade di molte usanze e consuetudini di pulitezza che hanno l'impronta di una convenzione sociale quanto succede di tutte le umane cose: alcune si smet-tono ed altre sottentrano (Gatta 1877:148).

E lo stesso Della Casa, alla fine della lunga recriminatoria contro le cirimonie – moda spagnola artificiale e teatrale, divenuta emblema di un eccesso di formalismo, condannato nella trattatistica di

8 Cfr. tra gli altri Goodwin (1986) e Bazzanella (1994). 9 Cfr. il concetto di self-politeness di Chen (2001).

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metà Cinquecento – riconosce tuttavia la supremazia dell’uso, “troppo possente signore”, che gli esseri umani non possono quindi mutare a loro piacimento ma che sono al contrario costretti a seguire, seb-bene “vuolsi ciò fare discretamente” (2000: 35). Come si è più volte sottolineato, considerazione dell’altro in Della Casa, vuol dire soprattutto “non nuocere”:

Diciamo adunque che ciascuno atto che è di noia ad alcuno de’ sensi, e ciò che è contrario all’appetito, […] spiace e non si dèe fare (Della Casa 2000: 8).

Questo secondo Ossola sarebbe la spia di un importante mutamento di orizzonte culturale, che segna la fine dell’ideale eroico del Rinascimento e la nascita del quotidiano, in cui va ricercata la ragione della “durata inconsueta” del Galateo: se il Libro del cortegiano si offriva al lettore come un ritratto esempla-re, il cui scopo era procurarsi e procurare perfezione, il Galateo pone come bisogno primario il non procu-rar noia. Il termine noia entra per la prima volta come Leitmotiv in un trattato di comportamento, che ruota principalmente sulla ‘ricezione’ dell’agire’, “senza fare appello a ‘modelli’ o ‘norme’ che abbiano valore indipendentemente dal loro accoglimento” (Ossola 2000: VIII):

se noi investigheremo quali sono quelle cose che dilettano generalmente il più degli uomini e quali quelle che noiano, potremo agevolmente trovare quali modi siano da schifarsi nel vivere con esso loro e quali siano da eleggersi (Della Casa 2000: 8).

Nei galatei morali post-unitari e del primo dopoguerra considerazione dell’altro equivale al riflesso esteriore di virtù interiori, quali bontà, carità, sollecitudine, premura e affettuosità verso il prossimo. Questi galatei propongono un modello comportamentale che pone enfasi sulla manifestazione di sen-timenti sinceri, attraverso la perfetta (e utopica) sintonia tra mondo interiore e comportamento esterio-re, tra linguaggio verbale e non verbale; un modello, sentimentale e moralizzante, basato sulla urgenza dei “buoni sentimenti”, che ritroviamo anche nei testi scolastici di Collodi e soprattutto nel Cuore di De Amicis (Paternoster 2015: 269). La cortesia viene così a identificarsi con gli stessi principi evangelici e virtù cristiane posti alla base del progetto di rigenerazione della nuova società postunitaria (Tasca 2004). In quanto concetto fortemente radicato nella pratica dell’interazione quotidiana, la cortesia è per-tanto profondamente legata alla realtà storica e socioculturale – e quindi soggetta a forte variazione dia-cronica e interculturale – pur presentando allo stesso tempo inaspettati elementi di persistenze nel tem-po, che sembrerebbero confermare l’ipotesi di una “logica profonda” sottesa ai suoi principi costitutivi, che, come si è già detto, viene avanzata da Kerbrat Orecchioni (2012). Si tratta tuttavia di un problema teorico complesso, che non è possibile qui trattare oltre né tanto meno pretendere di poter risolvere. Ci si limiterà a ricordare che da una parte c’è chi, come Beetz (1999), propende per il radicale relativismo del comportamento cortese, che sarebbe “specific to culture, class and gender as well as bound by time and situation.” Dall’altro, chi invece sostiene la relatività dell’uso e la permanenza delle regole fonda-mentali (Montandon 1997: 93). Resta infine da discutere il terzo punto emerso dall’analisi, cioè le indubbie analogie riscontrate tra galatei e modelli teorici, nonostante la diversa prospettiva: normativa degli uni vs descrittiva degli al-tri. Al riguardo, va tenuto presente che la cortesia è un concetto di per sé fortemente valutativo e nor-mativo e che questa sua natura viene inevitabilmente incorporata in molti modelli teorici, nonostante questi pretendano di essere solamente descrittivi. Di conseguenza, la maggior parte delle teorie classiche sulla cortesia non può fare a meno di riecheggiare la normatività della commonsense politeness (Eelen 2001: 42-43). Del resto, a differenza di quanto accade nelle questioni della fisica – nel cui ambito non si può certo sostenere che le descrizioni degli scienziati influenzino le leggi di natura dell’universo – nelle que-stioni sociali ed etiche – qual è la cortesia – la linea di divisione tra descrizione e prescrizione diventa molto meno netta, giungendo in alcuni casi persino a scomparire. Se qualcuno – sia esso uno studioso di cortesia o l’autore di un galateo – afferma, per es., che ringraziare il commesso che vi ha servito in un negozio è un atto di cortesia, non sta solo descrivendo una norma di cortesia, sta allo stesso tempo pren-dendo una posizione etica, delineando norme rispetto alle quali le persone verranno giudicate più o meno (s)cortesi (Eelen 2001: 179).

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Il continuum ‘Nome – Verbo – Nome’ e la sua evoluzione dal proto-indeuropeo al greco e al latino

Emanuele Banfi

Abstract Words like Greek πίστις, ἡ / pistis, hē ‘faith’, Latin fors, fortis ‘destiny’ and Latin egressus, -us ‘getting out’ depend, respectively, on ancient Indo-European Infinitives and Supines. These forms, linked with some ancient and se-mantically fluid morphological forms swinging between N(oun) and V(erb), represent an evident Continuum N > V > N which, in the historical phases of both Greek and Latin languages, partially evolved either as N or as V. This Continuum is a good example of what can be defined as a ‘Lexical Cycle’ and, as far as regards its effect on lexical structures, it is interesting to observe that many Modern Greek words testify again its action: this is the case, for instance, of Modern Greek words like το έχι / to ékhi ‘the possession’ and το φιλί / to filí ‘the kiss’ which are, among other words and because of a process of Grammaticalization, the result of V > N: το έχι / to ékhi ‘the possesion’ derives in fact from an ancient Greek Present Infinitive (< τὸ ἔχειν ‘to have, to possess’) and το φιλί / to filí ‘the kiss’ derives again from an ancient Greek Present Infinitive (< τὸ φιλεῖν ‘to love’). The aim of this paper is to analyze some cases of Greek and Latin words depending on a Continuum N > V > N considered in compar-ison with some analogous and similar cases attested in other, both ancient and modern, Indo-European lan-guages. KEYWORDS: Continuum Noun-Verb-Noun • Lexical Cycle • Grammaticalization 1. Introduzione Questo contributo, dedicato a un problema di morfologia indeuropea – argomento auspicabilmente ca-ro a Maria, cui mi legano sensibilità ‘generazionale’ e parziale comunanza d’origine: lei ungherese di Romania; io pure, con antenato ungarico (il bisnonno di mio padre si chiamava János Bánffy ed era im-perial-regio funzionario sceso in Milano asburgica dall’Ungheria nel secondo decennio dell’Ottocento) –, deve molto alla lettura di un saggio di Raffaele Simone (Simone 2000) e del lavoro dottorale di Livio Gaeta (Gaeta 2002) dedicati, il primo, all’affascinante questione dei cosiddetti ‘cicli lessicali’ – come de-finiti da Dorothy Disterheft (Disterheft 1980: 198) –, con particolare riferimento ai molti nomina actionis propri del latino che hanno esteso in ambito romanzo il loro significato seguendo una deriva articolata su tre livelli: la struttura dell’evento, la struttura argomentale e, infine, il livello degli argomenti creati mediante strategie metonimiche; il secondo, a un esame, rigoroso e puntuale, della ‘transizione’ tra cate-gorie del V e del N all’interno di un quadro teorico riferentesi alla Morfologia Naturale e in una felice prospettiva che permette di fare luce su questioni d’ordine essenzialmente semiotico motivanti, in lin-gue storico-naturali, il rapporto tra il piano dell’espressione e quello del contenuto. Tenendo conto di tali punti di riferimento tratterò un caso, a mio vedere interessante dal punto teorico-generale oltre che storico-linguistico, relativo al continuum N – V – N in ambito indeuropeo mo-strando come, alla base di forme storicamente attestate ed etichettate in diverse lingue come ‘infiniti presenti’ – stante che la categoria ‘infinito (presente)’ è normalmente descritta nelle grammatiche come afferente al V –, siano da porre, a livello di ricostruzione del proto-indeuropeo, forme tipicamente no-minali. Muovo dalla constatazione – ben nota agli studiosi che si sono occupati della ricostruzione del sistema verbale indeuropeo (Baldi 1999: 407) – che, proprio in merito alla categoria dell’infinito presen-te, ne sono evidenti, da un canto, la vistosa recenziorità rispetto ad altri elementi del sistema verbale (Burguière 1960; Jeffers 1975: 133-140; Meillet & Vendryes 1979: 339) e, dall’altro, l’intrinseca fragilità a

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livello sia morfologico (quanto a ‘forma’ linguistica) che funzionale (quanto a ‘valore’ semantico; o, me-glio, a ‘valori’ semantici documentati nella vicenda storica di singole lingue). Più in particolare, a livello di proto-indeuropeo, si osserva l’impossibilità di ricostruire una forma di infinito presente ipotizzabile per l’insieme delle lingue appartenenti alla famiglia delle lingue indeuropee (Chantraine 1961: 273 “[sc. les infinitifs] ont été créés indépendamment dans chaque langue et leur origine est souvent obscure”; cfr. anche Schwyzer 1990: 805) e si nota che forme etichettabili come ‘infinito presente’ proprie di di-verse lingue indeuropee altro non sono se non l’esito di antichi N (in particolare nomina actionis) caratte-rizzati da marche di caso in funzione sintattica (Noonan 1985: 60-62; Koptjevskaja-Tamm 1993: 42); con la precisazione che tali forme possono esibire, in alcune lingue – di cui si dirà puntualmente – valo-ri semantici anche diversi rispetto e/o accanto a quello del ‘normale’ infinito presente.

A titolo di esempio segnalo fin da subito quanto è attestato parallelamente in ambiente indo-ario (in sanscrito, vedico e classico) e in ambiente italico (in osco e in umbro) – due ambienti storico-linguistici lontani nello spazio e nel tempo – ove gli infiniti presenti continuano antichi N al dativo (ori-ginariamente, dativo di scopo) o all’accusativo (originariamente, accusativo di oggetto o di movimento). Così:

- scr. vedico e classico: kar-tu-m ‘fare’ (< i.e. *kerh1/3- ), ḗ-tu-m ‘andare’ (< i.e. *h1e2-), át-tu-m

‘mangiare’ (< i.e. *h1ed-), ove il morfo -tu-m è, appunto, marca di accusativo1; - osco deik-um ‘dire’ (< proto-italico *deik-om vs. lat. dic-e-re < proto-latino *deik-e-se, entrambe

le forme essendo connesse con la radice i.e. *deiḱ- ‘indicare, mostrare’); - osco ez-um / umbro er-om ‘essere’, ove i morfi -om / -um sono ugualmente antiche marche di

accusativo (< proto-italico *es-om vs. lat. es-se < proto-latino *es-se, entrambe le forme essen-do dipendenti dalla radice i.e. *h1es- ‘essere’).

In modo analogo in numerosi dialetti del greco antico ricorrono infiniti2 continuanti antichi N “au cas ‘indéfini’ sans désinence” (Chantraine 1961: 274), e, quindi, con marca -*Ø (Meillet & Ven-dryes 1979: 340), interpretabili tuttavia come antichi locativi (Rix 1976: 237.238):

- gr. (dorico, beotico, tessalico; omerico) ἔµ-µεν / ém-men ‘essere’ (< proto-gr. < *es-men < i.e. *h1es-‘essere’ + *-men)3.

Antichi locativi in *-t[ē]i/*-ti, ricostruibili per la fase del pre-proto-indoeuropeo, continuano, oltre che in ambiente indo-ario (sanscrito, vedico e classico), anche in ambiente balto-slavo:

- scr. jñā-ti ‘conoscere’ < i.e. *ǵnh3-t[ē]i/-ti;

júṣ-ṭi ‘gustare’ < i.e. *ǵeus-ā-t[ē]i/-ti; - lit. dúo-ti ‘dare’ < i.e. *deh3-t[ē]i/-ti;

1 Con la precisazione che in vedico – come si ricava dai dati del Rgveda e dell’Atharvaveda – gli infiniti resi da N con marca di accusativo sono tuttavia meno frequenti rispetto a quelli con marca di dativo (Macdonell 1910: 407-408). Ma non mancano esempi, comunque rari, di funzioni infinitivali rese da N con marche di ablativo-genitivo o di locativo. Con l’ulteriore preci-sazione che in sanscrito classico (e parzialmente anche in vedico) gli infiniti sono svincolati da categorie temporali (Whitney 1889: 203). 2 Dal punto di vista morfologico nei dialetti greci le forme dell’infinito attivo esibiscono una notevole polimorfia (al medio-passivo la forma è invece unica: -σθαι /-sthai, forse confrontabile con quella degli infiniti indo-arii in *-dhyāi). Proprio la vi-stosa polimorfia “indique que ces formes se sont développées postérieurement au grec commun” (Chantraine 1961: 273). I relativi morfi – -εν / -en < i.e. *-m; -σεν / -sen (cfr. i suffissi nominali sanscrito. -san, ittito -šar, gr. miceneo -esen / -ee(n), -µεν / -men < i.e. *men / *mon – sono interpretati/spiegati come marche di N (Chantraine 1961: 274). 3 Il morfo derivazionale *-men dipende, assai probabilmente, dalla radice i.e. *mn- / *men- / *mon- ‘stare saldamente / sta-re fermo’; cfr. gr. µεν-έω / men-éō, lat. man-ē-re ‘stare’). Tale morfo prevede nel greco di età classica anche l’esito (al grado apo-fonico zero) *mn- > gr. -µα / -ma, esito del tutto parallelo a quello di lat. -men (< *-mn ‘marker of action and result nouns’; Baldi 1999: 304). Così gr. δεῖγ-µα / deíg-ma ‘ciò che è stato mostrato / cosa mostrata’ vs. δείξ-ις / deíx-is ‘la azione del mostra-re’ (< i.e. *deiḱ-; µάθησις ‘la azione dell’apprendere’ vs. µάθηµα ‘la cosa appresa > l’oggetto di studio/la scienza’ < i.e. *mndh- grado zero di *mendh- (Chantraine 1984: 664). Per altri esempi relativi al latino, cfr. lat. flū-men ‘fiume’ < i.e. *bhleṷ-men; ful-men ‘folgore’ < i.e. *bhleǵ-men; car-men ‘canto’ < i.e. *kh2n-men; sē-men ‘seme’ < i.e. *sh1/2/3-men, ecc.

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- lett. stȃ-t ‘stare’ < i.e. *sth2-eh1-t[ē]i/-ti; - a.sl. zna-ti ‘conoscere’ < i.e. *ǵnh3-t[ē]i/-ti.

Del resto, proprio da locativi in *-t[ē]i/*-ti (con successiva dissimilazione di *-ti > *-si e con abbassamento nell’articolazione della vocale anteriore /i/ > [e]: *-si > -se), dipendono le forme di infi-nito presente attestate in latino (Monteil 1986: 358; Clackson & Horrocks 2007: 70; 100)4.

- lat. pos-se ‘potere’ (< i.e. *pot-se < i.e. *pot-si < *pot-t[ē]i/-ti); - es-se ‘essere’ (< i.e. *h1es-se < i.e. *h1es-si < *h1es-t[ē]i/-ti); - ēs-se ‘mangiare’ (< i.e. *h1ed-se < i.e. *h1ed-si < * h1ed-t[ē]i/-ti).

Con processi assimilatorii del morfo derivazionale *-si quando in contatto con la C della radice

verbale si spiegano poi, e facilmente, forme del latino quali:

- lat. velle ‘volere’ (< i.e. *ṷelh1-se < i.e. *ṷelh1-si < * ṷelh1-t[ē]i/-ti); - ferre ‘portare’ (< i.e. *bher-se < i.e. *bher-si < *bher-t[ē]i/-ti).

E, sempre in ambiente latino (Meiser 1998: 225; Baldi 1999: 407; Clackson & Horrocks 2007: 100), con rotacismo di /-VsV-/ > [-VrV-] (-se > -re), si spiegano infine anche infiniti presenti qua-li:

- lat. vīv-e-re ‘vivere’ (< proto-latino *uīu-e-se < i.e. *gṷieh3-e-si < *gṷieh3-e-t[ē]i/-ti); - am-ā-re (< proto-latino *am-ā-se < *i.e. am-ā-si < *am-ā-t[ē]i/-ti); - mon-ē-re (< proto-latino *mon-ē-se < *i.e. *mon-e2e-si < *mon-e2e-t[ē]i/-ti); - aud-ī-re (< proto-latino *aud-ī-se < i.e. *h2eu-dheh1-si < * h2eu-dheh1-t[ē]i/-ti)5.

2. L’infinito presente, categoria oscillante tra N e V Dal punto di vista funzionale forme di infinito presente possono ricorrere nelle lingue indeuropee ora come V ora come N secondo una modalità che è ampiamente attestata per altro in numerose altre fa-

4 Clackson & Horrocks, seguendo Leumann (Leumann 1977: 580), propendono per un’ipotesi diversa: pensano ad una “typical infinitival ending -er(e) < *-ese, < the locative *-es-i of a neuter s-stem” e ricostruiscono quindi un tema in -s. 5 Antichi dativi di scopo stanno alla base di forme di infinito passivo in latino: cfr. ag-ī ‘essere condotto/fatto’ (< i.e. *h2eǵe/o-ei; cfr. scr. aj-e ‘id.’), lat. sequ-ī ‘seguire’ (< i.e. *sekṷ-ei); anche nelle varianti in *-rei (> lat. -rī / forma arcaica: -ier) attestate da lat. am-ā-rī, mon-ē-rī, ecc. (Meillet & Vendryes 1979: 357). Oltre alle forme sopra menzionate, interessanti sono anche alcuni infiniti presenti che, alla loro base, prevedono locativi sincretici (formati cioè da morfo -*Ø seguito da due morfi ‘cumulativi’: *-en- + *-ai ‘marca deittica’): tali forme sono attestate nella fase storica del greco (e dei suoi dialetti: arca-dico, cipriota, ionico-attico; omerico): cfr. gr. εἶναι / eînai ‘essere’ (< i.e. *h1es-en-ai), gr. lesb., gr. om. ἐµµέναι / emménai ‘es-sere’ (< proto-greco es-men-ai < h1es-mn-ai). Tracce di locativi sincretici si riscontrano in greco, tra l’altro e ancora, nel morfo -σθ-αι / -sth-ai, dedicato all’infinito presente medio-passivo, secondo il tipo gr. λύ-ε-σθ-αι / lú-e-sth-ai ‘essere sciolto’ (con riscontro preciso, secondo Meillet & Vendryes 1979: 342, nel scr. ved. -[s]dhy-ai; cfr. anche Schwyzer 1990: 809 e, per una posizione diversa, cfr. anche Rix 1976: 238 -239). Possibile è poi l’evoluzione del morfo i.e. *-t[ē]i/*-ti (marca di locati-vo) quale base dell’infinito presente greco in -ειν / -εῖν // -ein / -eîn secondo i tipi λέγειν / légein ‘dire’ – ποιεῖν / poieîn ‘fare’, là ove è ipotizzabile un proto-greco *leǵ-e-ti (< i.e. *leǵ- / *loǵ-) > *leǵ-e-si > *légei + /n/ eufonico (con il normale esito di /V+s+V/ che, con caduta di /-s-/ intervocalico, > [V+V] > [V:] con contrazione vocalica e conseguente V intensa) onde l’esito del greco di età storica λέγειν / légein ['lεgēn]; allo stesso modo da un proto-greco *poié-e-ti > *poié-e-si + /-n/ eufo-nico si spiegherebbe il tipo ποιεῖν / poieîn ‘fare’ [poi'ēn]. La desinenza -ειν / -ein, propria dello ionico-attico, è già comunque presente nel greco omerico (-ειν / -ein) e la si ritrova anche nei verbi contratti: gr. omerico φιλέειν, ἐάαν, τιµᾶν, µισθοῦν / phi-léein, eáan, timȃn, misthoȗn, là ove le ultime forme senza traccia di iota sottoscritto testimoniano che -ειν / -ein è da intendersi come “un e long ferme, non une véritable diphtongue” (Chantraine 1961: 278). Molti altri interessanti esempi, tratti da diver-si dialetti del greco antico, sono analizzati e commentati da Eduard Schwyzer (Schwyzer 1990: 806-809) nonché da Sylvie Vanséveren in una monografia (Vanséveren 2000) che si segnala per la ricchezza dei dati e l’aggiornamento bibliografico.

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miglie linguistiche (Haspelmath 1989: 291-295; Koptjevskaja-Tamm 1993: 33-44)6 e tra di esse, in modo particolarmente vistoso, nelle lingue isolanti: se è vero che, a titolo di esempio, del tutto normali sono in greco e in latino, strutture del tipo gr. τὸ φιλοσοφεῖν καλόν ἐστι / tò philosopheîn kalón ésti ‘è cosa buona il filosofare’; lat. primum vivere deinde philosophari ‘prima vivere, poi filosofare’, è pur vero che coincidenza formale dal punto di vista morfosintattico tra N e V (ma anche tra N e Agg.) è ben documentata, tra le altre lingue, nella fase moderna dell’inglese ove appunto ingl. game può valere sia N ‘gioco’, sia V ‘gioca-re’, sia Agg. ‘coraggioso’; così ingl. look può valere N ‘sguardo; aspetto’ o V ‘guardare; sembrare’; ingl. question può valere N ‘domanda’ o V ‘domandare’. Tale modalità è del tutto normale e ricorrente in lingue isolanti, ove un morfo può, in relazione al contesto sintattico, svolgere funzioni ora di V, ora di N, ora di Agg. o di Avv./Prep. (o Postpos.): cfr., a titolo di esempio, il cinese mandarino ove il morfo kū 哭 vale sia V ‘piangere’ che N ‘pianto’; il morfo zhòu 咒 vale sia V ‘maledire’ che N ‘maledizione’; il morfo shàng 上 può valere sia V ‘salire’ che Avv./Prep./Postpos. ‘sopra’, contrapposto al morfo xià 下 che può valere sia V ‘scendere’ che Avv./Prep./Postpos. ‘sotto’. O, ancora, e sempre in cinese mandarino, il morfo zhèng 正 può fungere da V ‘correggere’ che da Agg. ‘corretto, giusto’; il morfo bō 波 può valere N ‘onda’ che V ‘inondare’ o, infine, il morfo liǎo 了 vale, in funzione di V, ‘completare, finire’ e, nella forma le 了, funge da ‘marca di compimento di una azione’ / ‘marca di passato compiuto’. 3. Infiniti del greco e del latino, tra N e V Di seguito si considereranno, con particolare riferimento al greco e al latino, alcuni casi di N (verbali, con marche di caso) esibenti nella fase storica delle due lingue valori ora di N ora di V: continuanti cioè o come sostantivi inseriti in precise classi flessionali (in entrambe le lingue), oppure come infiniti pre-senti (in entrambe le lingue) o, limitatamente al latino, come supini attivi o passivi. 3.1 Infiniti da antichi locativi A livello di proto-indeuropeo, da antichi locativi di N (verbali) esibenti il morfo i.e. *-t[ē]i/*-ti, si han-no, nelle fasi storiche di greco e latino, sia N che V. 3.1.1 Il morfo i.e. *-t[ē]i/*-ti (in funzione di N d’azione, con marca di locativo) continua nel greco di età storica nel morfo -τι- / -ti- e sta alla base di una serie di N confluiti, per processo analogico, nella se-rie nominale di forme della III declinazione secondo il tipo πόλις, πόλεως / pólis, póleōs ‘città’ (Chantrai-ne 1933: 276-282; Chantraine 1961: 87-89). È il caso, tra i molti esempi citabili, di forme quali:

- πίσ-τι-ς / pís-ti-s ‘fede’ < proto-greco *pith-ti < i.e. *bhidh-t[ē]i/-ti ‘il credere; l’obbedire’ con-nessi con la radice i.e. *bhidh- / *bheidh- (cfr. gr. πείθ-ω / peíth-ō ‘persuadere’, πείθ-ο-µαι / peíth-o-mai ‘essere convinto, obbedire’, lat. fid-e-re ‘avere fiducia’; forse anche got. bid-jan ‘pregare’ cfr. Lehmann 1986: 68);

- πύσ-τι-ς / pús-ti-s ‘domanda’ < proto-greco *puth-ti < *phuth-ti < i.e. *bhudh-t[ē]i/-ti ‘il venire a sapere’, dipendenti dalla radice i.e. *bhudh- / *bheudh- (cfr. gr. πεύθ-ο-µαι / peúth-o-mai ‘essere informato’, scr. bhód-a-ti ‘essere svegliato’, buddhá- < *bhudh-to ‘colui che è stato svegliato’ > ‘colui che è stato illuminato’);

- φάτις / phā-ti-s ‘diceria, notizia’ (parola tipica dell’epos) < proto-greco *phā-ti < i.e. *bhā-t[ē]i/-ti ‘il dire’, dipendente dalla radice i.e. *bheh2- (cfr. gr. dor. φā-µί / phā-mí, gr. att. φη-µί / phē-mí ‘dire’; lat. for, fāris ‘dire’; a.ingl. bō-ian ‘vantarsi’, a.sl. ba-ja-ti ‘raccontare’).

6 Tale modalità va intepretata come un normale processo di grammaticalizzazione di “allative/purposive forms” in “infiniti-ve-like forms” (Haspelmath 1989: 287): il fenomeno è proprio oltre che di lingue indeuropee (con speciale riferimento al greco antico, al latino, alle lingue germaniche, celtiche, indo-arie, balto-slave, all’ittito) anche di lingue turciche (ciuvascio, gagauzo, tataro, baschiro), ugro-finniche (finnico, udmurto), semitiche (ebraico biblico e ivrit, accadico), bantu (swahili), caucasiche (lezgio, nakho-daghestan), dravidiche (kannada, telegu), australiane (bidjandjadjara).

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Quanto al latino, il medesimo morfo i.e. *-t[ē]i/*-ti (antica marca di locativo) ricorre nella strut-tura morfologica di N quali:

- lat. for-s, for-ti-s < proto-latino *for-ti < i.e. *bhor- t[ē]i-/-ti ‘lett. ‘il portare (da parte del desti-no)’ > ‘il destino’ < i.e. *bhr- / *bher-/ bhor- ‘portare’ (cfr. gr. φέρ-ει-ν / phér-ei-n ‘portare’;

- scr. bhár-ā-ti ‘portare’; a.sl. bьr-a-ti ‘portare’; lit. beȓ-ti ‘portare’; got. bair-an ‘portare’); - lat. dō-s, dō-ti-s < proto-latino *dō-ti < i.e. *deh2/3-t[ē]i/-ti ‘lett. il dare’: cfr. gr. δί-δω-µι / dí-

dō-mi ‘dare’, lat. dō ‘dare’ (cfr. anche scr. dá-dā-ti ‘egli dà’; lit. dúo-ti ‘dare’; a.sl. da-ti ‘dare’); - lat. mor-s, mor-ti-s < proto-latino *mor-ti ‘il dividere in parti uguali’, ‘il dare in sorte’ < i.e. *mor-

t[ē]i/-ti < *mr-ie/o- ‘dividere in parti uguali’: cfr. gr. µείρ-ο-µαι / meír-o-mai ‘dividere in parti uguali’, µοῖρα / moîr-a ‘il destino (cfr. anche scr. mr-iyá-te ‘muore’; lit. miȓ-ti ‘morire’; a.sl. mr-ě-ti ‘morire’; got. maur-þr ‘uccisione, assassinio’).

Interessante, e rientrante pienamente in tale casistica, è l’Avv. lat. sta-ti-m < i.e. *steh2-ti-m a sua volta antico accusativo di un N proto-latino *sta-ti-s (< i.e. *steh2t[ē]i-/-ti) che trova riscontro preciso nel gr. στά-σι-ς / stá-si-s < i.e. *steh2-t[ē]i-/-ti: ‘lo stare fermo’ > ‘l’accadere in un punto temporalmente preciso’ > ‘improvvisamente’ < i.e. *steh2- (cfr. gr. ἵ-στη-µι / hí-stē-mi ‘collocare’ / ‘stare’; scr. tí-ṣṭh-a-ti ‘stare’; lit. stó-ti ‘stare’; lett. stȃ-t ‘stare’; a.sl. sta-ti ‘stare’; a.a.td. sta-n ‘stare’; a.ingl. stand-an ‘stare’). 3.1.2 Il medesimo morfo i.e. *-t[ē]i/*-ti con processo di assibilazione di C occlusiva dentale sorda /t/ > C fricativa dentale sorda [s] – i.e. *-t[ē]i/*-ti > -si - – è alla base di N attestati nelle fasi storiche di greco e latino. Tra gli altri, si vedano i seguenti esempi:

- gr. λύ-σι-ς / lú-si-s ‘soluzione’ < proto-greco *lú-ti- / *λύ-τι ‘la azione dello sciogliere’ < i.e. *lú-t[ē]i/-ti < i.e. *leṷ(s)- (cfr. gr. λύ-ω / lú-ō ‘sciogliere’; lat. solvō ‘< *sē-lu-ō ‘slegare, scioglie-re’; scr. lu-nó-ti ‘tagliare, dividere’; got. fra-lius-an ‘perdere’)7;

- gr. γνῶ-σι-ς / gnô-si-s ‘la conoscenza’ < proto-greco *gnṓ-ti- / *γνῶ-τι ‘la azione del conoscere’ < i.e. *ǵnh3-t[ē]i/-ti (cfr. gr. γι-γνώ-σκω / gi-gnṓ-skō ‘conoscere’; lat. (g)nō-scō ‘conoscere’; scr. jā-nā-ti ‘conoscere’; lit. ži-nṓ-ti ‘conoscere’; lett. zi-nȃ-t ‘confessare’; a.sl. zna-ti ‘conoscere’; got. kunn-an ‘conoscere’);

- gr. δό-σι-ς / dó-si-s ‘il dono’ < proto-greco *do-ti- / *δό-τι ‘l’azione del dare’ < i.e. *deh3-t[ē]i/-ti (cfr. gr. δί-δω-µι / dí-dō-mi ‘dare’, lat. dō ‘dare’; scr. dá-dā-ti ‘dare’; lit. dúo-ti ‘dare’; a.sl. da-ti ‘da-re’);

- gr. θέ-σι-ς / thé-si-s ‘collocazione, posizione’ < proto-greco *the-ti / *θέ-τι- ‘l’azione del collo-care’ < i.e. *dheh1-t[ē]i/-ti (cfr. gr. τί-θη-µι / tí-thē-mi ‘collocare’; lat. (arc.) fē-k-ed ‘collocò / fe-ce’; scr. dá-dhā-ti ‘collocare’);

- gr. φύ-σι-ς / phú-si-s ‘la natura’ < proto-greco *phu-ti- / *φυ-τι- < i.e. *bhh2u-t[ē]i-/-ti ‘l’azione del generare’ (cfr. gr. φύ-ο-µαι / phú-o-mai ‘essere (per natura)’; lat. fu-it ‘egli fu’; scr. bháv-a-ti ‘essere (per natura)’, a.sl. bý-ti ‘essere’).

Tali forme trovano preciso riscontro in latino in forme di N e di Avv. quali, ad esempio:

- lat. tus-sis, tus-si-s < proto-latino *tud-si < *tud-ti (lett. ‘il battere ripetutamente” > ‘il tossire’ >

‘la tosse’) < i.e. *(s)tud-t[ē]i/-ti < i.e. *(s)tud-/ *(s)teud- (cfr. scr. tud-á-ti ‘battere’; got. staut-an ‘battere’);

- ces-si-m < *proto-latino *ked-si < *ked-ti < i.e. ḱesdh-t[ē]i-/-ti (lett. ‘il retrocede-re’/‘retrocedendo’) antica forma di accusativo di un N proto-latino *kes-si- ‘il retrocedere’ < i.e.* ḱesdh- (cfr. scr. sedh-á-ti ‘fare retrocedere’ > ‘scacciare’’; lat. necesse (est) < proto-latino

7 Per una discussione su so- (connesso con sē- ‘separativo’) di lat. solvō < *sē-lu-ō utili riferimenti sono rintracciabili nel reper-torio etimologico di Michiel de Vaan (de Vaan 2008: 549-550).

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*neked-si – con abbassamento del grado d’apertura della V palatale di massima altezza /i/ > [e] – < i.e. *ne-ḱesdh-t[ē]i/-ti ‘il non retrocedere’).

3.1.3 Accanto agli esiti del menzionato morfo i.e. *-t[e]i/*-ti, antica marca di locativo di N parzial-mente continuanti o come N o come V, è interessante considerare la vicenda di un altro morfo – i.e. *-m – che, antica marca di accusativo singolare (m./f.), continua in ambiente italico (osco e umbro) e in ambiente germanico (con morfo ‘dedicato’ appartenente alla flessione di un nome derivato in -on-o-: quindi -an < *-onom) come desinenza di infinito presente (Meillet & Vendryes 1979: 356; Stolz, De-brunner & Schmid 1993: 30):

- osco ez-um‘essere’, umbro er-om ‘essere’ < proto-italico *es-om < i.e. *h1es-m; - osco ed-um ‘mangiare’ < proto-italico *ed-om < i.e. *h1ed-m; - osco deik-um ‘dire’ < proto-italico *deik-om < i.e. *deiḱ-m).

In ambiente germanico il medesimo morfo i.e. *-m sviluppa vari esiti: C bilabiale nasale > C dentale nasale (/-m/ > [-n]) con alternanza tra V centrale di massima apertura /a/ e V palatale /e/:

- got. it-an, a.a.td. ezz-an ‘mangiare’ < proto-germ. *it-an < i.e. *h1ed-m; - td. lieb-en ‘amare’ < proto-germ. *liob-an < i.e. *leṷbh-m.

4. Supini da antichi accusativi Il morfo i.e. *-t[e]i/*-ti, antica marca di locativo, continuante in lingue storicamente attestate ora come V (§ 1) ora come N (§ 3.1.1.) prevede una forma parallela in *-tu il cui accusativo (*-tu-m) funge da V nel supino attivo latino (cfr. lat. captum, factum, dictum, ecc.; Stolz & Debrunner & Schmid 1993: 30) ma anche da N (cfr. lat. gemitus, -us o ingressus, -us, o egressus, -us)8. I due morfi, nel caso della formazione di infinito presente e di supini (attivi e passivi), mostrano una situazione nella quale i confini tra le due ca-tegorie risultano labili, come è attestato, oltre che in latino, anche in sanscrito e in ambiente balto-slavo (Vaillant 1966: 126-128). Così in sanscrito, ad esempio, accanto a infiniti in -ti / -te esito di antiche mar-che di locativo (< i.e. *-t[e]i/-ti), si hanno anche infiniti in -tu-m (cfr. scr. kar-tu-m ‘fare’ < i.e. *kerh1/3- ‘fare’), formalmente simili a supini (attivi) del latino, ove il morfo -tu-m altro non è se non l’esito di una antica marca di accusativo singolare di N verbali. Se il supino attivo latino è un antico accusativo singolare di un N verbale, il supino passivo è invece un antico N al caso ablativo (più raramente al caso dativo): prova ne è il fatto che traccia del va-lore direttivo selezionante l’accusativo si ha in latino dopo V di movimento (Leumann 1977: 354; cfr. il tipo sintattico ‘venerunt legati pacem postulatum’, ‘cubitum ire’, ‘supplicatum venire’, ‘ēsum vocare’); e, al contrario, il supino passivo latino (in -tū) continua un antico N verbale all’ablativo (Meiser 1998: 225; Baldi 1999: 409) come si evince da forme quali adspectū ‘alla vista’; cubitū: cfr. Primus cubitū surgat ‘lui sia il primo ad alzarsi’ (Cato, Agr. 5.5); o da strutture del tipo ‘facile factū, dictū’, ecc. Ancora, tracce di antichi supini in -tu aventi valore di nomina agentis/actionis (Benveniste 1948) si hanno in forme ormai pienamente nominali nella fase storica del latino: è il caso di forme quali lat. gemi-tus ‘il lamentarsi’ > ‘lamento’ o monitus ‘l’ammonire’ > ‘il monito’ (Baldi 1999: 409): lat. gemitus è da in-tendersi infatti come l’esito di una forma di V proto-latino *gem-e-tu (< i.e. *gen-/m-: con /-m/ per analogia con l’omosemantico frem-e-re) e lat. monitus è da fare risalire a una forma di V proto-latino *mon-e-tu (< i.e. *mn-eh1- // *men-/mon- ‘rimanere saldo’ > ‘ricordare’ > ‘fare ricordare’ / ‘ammoni-re’). Analogamente, in ambiente slavo, si hanno a.sl. děl-a-ti ‘fare’, forma nominale di infinito derivata da un dativo o da un locativo (< i.e. *-t[e]i/-ti) e a.sl. děl-a-tŭ ‘fare’, forma nominale di supino derivata

8 Per ingressus ed egressus, cfr. l’analisi che ne ha fatto Raffaele Simone (Simone 2000: 262-263) con la precisazione, tuttavia, che nel caso di questi N latini in (ss-)us non si tratta, a mio parere, di forme “morphologiquement liées à des participes passés verbaux”, bensì dipendono da antichi supini attivi in -tu-m, a loro volta dipendenti da “Verbalabstrakta” ampiamente ricor-renti in latino, secondo i tipi cultus, -us < colere; gestus, -us < gerere; habitus, -us < habere (Leumann 1977: 353-354).

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da un accusativo (< i.e. *-tu-m). Parallelamente nelle lingue baltiche si hanno forme nominali di infinito (lit. -ti, lett. -t, a.pruss. -t; a.pruss. boūt ‘essere’; dāt ‘dare’, forme derivate da un locativo (< i.e. *-t[e]i/-ti; Mažiulis 2006: 100) contrapposte a forme nominali di supino (lit. -tų) derivate da un accusativo (< *-tu-m; Mažiulis 2006: 100). 5. Antichi infiniti > N in neogreco

Un caso interessante di completamento di un ciclo lessicale è dato dal greco tardo (e poi bizan-tino-medievale e neogreco) ove l’infinito, particolarmente già debole in età ellenistica, scompare (quasi) totalmente dal paradigma verbale ed è sostituito da strutture subordinate con valore finale (o consecuti-vo) introdotte da ἵνα + cong. / hína + cong. secondo il tipo θέλω ἴνα φάγω / thélō hína phágō ‘voglio mangiare’ (lett. ‘voglio affinché io mangi’) > ngr. θέλω να φάω / thélō na fáō (Aalto 1953; Kurzová 1968; Joseph 1983). Tuttavia residui di antichi infiniti del greco classico continuano, come N, in greco mo-derno: come mostra l’evoluzione in macro-diacronia di forme quali φιλεῖν [fi'lein > fi'lin] ‘amare’, ‘acco-gliere benevolmente’ > ‘baciare’ > ngr. φιλί, το [fi'li, to] ‘bacio’; ἔχειν ['exein > 'exin] ‘avere’ > ngr. έχι, το ['exi, to] ‘il possesso’; στήκειν ['ste:kein > 'stekin] ‘stare ritto, fermo’ > ngr. στέκι, το ['steki, to] ‘luogo dove stare’ / ‘abitazione’; e con il caso curioso di ngr. θανή, η [θa'ni, i] ‘morte’, sostantivo femminile diastraticamente marcato come molto popolare e derivato dall’infinito aoristo forte θανεῖν / thaneîn < gr.a. θνῄσκω / thnḗ(i)skō, con l’interessante ricategorizzazione di un antico neutro in -ί / í (secondo il ti-po παιδί, το / pedí, to ‘bambino’ < παιδί(ον) / paidí(on) < παῖς, παιδός / paîs, paidós) come femminile in -ή / -ḗ (= ['i]) secondo il tipo τιµή, η / timḗ, ē (= [ti'mi] ‘onore’: la forma in questione è attestata già, in ogni modo, nella grecità medievale (Kriaras 1980: 79) e continua parzialmente nei livelli distraticamente bassi del neogreco.

Ringraziamenti Due cortesi revisori anonimi mi hanno permesso, con le loro puntuali osservazioni, di ripensare e rivedere alcuni punti di questo contributo. Ai due colleghi va la mia più viva gratitudine; ed essa si estende anche al collega Pie-tro Umberto Dini, illustre baltista dell’Università di Pisa, cui devo importanti precisazioni relative ad esempi tratti da lingue baltiche. Va da sé che di scelte ‘mie’, frutto di mie convinzioni, sono ovviamente il solo responsabile. Riferimenti bibliografici Aalto, Pantii. 1953. Studien zur Geschichte des Infinitivs im Griechischen. Helsinki: Academia Scientiarum

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La mia canzone per Maria. Il nome Maria nell’onomastica della canzone italiana

Lorenzo Coveri Abstract Italian pop music, as well as other forms of artistic expression like opera, theatre and movies, has recently played an important role in determining the choice of ‘trendy’ names (It. “nomi di moda”) – in particular, female names – which take their inspiration from song titles. Out of a corpus of female names in the titles of Italian songs of the twentieth century I have analysed the name Maria and its derivatives. Maria occupies the first place in ranking with 39 tokens, which climb up to 63 tokens if we add hypocoristics and other derivative forms. However, the undeniable success of the name Maria within the titles of Italian songs does not necessarily correspond to an on-omastic trend, since Maria remains the most popular female name in the Italian onomastic repertoire. KEYWORDS: Onomastics • Pop song • Female first names • Trendy names • Maria

Sento una canzone dolce in fondo al cuor quando penso a Maria.

Sento una canzone, una canzone d'amor quando penso a Maria.

Alzo il mio bicchiere rosso e brindo a te, sento che la mente mia si accende.

Questa notte il vento porterà con sé la mia canzone per Maria.

La mia canzone per Maria, di Battisti-Mogol (1968)

1. Nomi “di moda” e canzoni Nella storia linguistica dell’Italia unita, la canzone (e più in generale la musica, dal melodramma al café chantant, dalla canzone popolare alla canzone d’autore, alla canzonetta commerciale) ha svolto un ruolo non secondario (assieme, s’intende, ad altri ancor più rilevanti fattori) nel promuovere, assecondare, ri-flettere, le vicende dell’italianizzazione, come già osservava Tullio De Mauro in un suo lontano scritto (De Mauro 1985: viii). Non sono mancati, negli ultimi anni, studi che abbiano contribuito a delineare tanto i caratteri dell’“italiano cantato” quanto i momenti salienti di un profilo di storia linguistica della canzone italiana. Una chiave per approfondirne ulteriormente l’aspetto insieme di “modello” e di “specchio” di lingua può essere una prima rassegna dei nomi di donna presenti (in misura assai più am-pia dei nomi maschili) nei titoli (ed eventualmente nei testi) di canzoni italiane disposte lungo i cento-cinquant’anni di storia unitaria. Come è noto, tanto De Felice (1987) quanto Rossebastiano & Papa (2005), tra gli altri, attribuiscono alla musica e al cinema (che hanno continuato e in parte sostituito il ruolo della letteratura e del teatro) un discreto rilievo nelle scelte onomastiche (soprattutto “al femmini-le”) degli italiani, specie a partire dalla seconda metà del Novecento. “Questo ampio gruppo di nomi andrebbe tuttavia vagliato nel tempo per verificare quanti di essi non vadano più correttamente inseriti tra i nomi “di moda”, caratterizzati dall’effimera durata” (Rossebastiano & Papa 2005: I, XXVIII). E si veda anche De Felice (1982: 163), secondo il quale “nomi di moda sono quelli la cui scelta è stata de-terminata – anche se a volte insieme ad altri fattori culturali – da ‘mode’ del momento, ossia da modelli esclusivamente onomastici e formali assurti, in determinati ambienti socioculturali, ad un prestigio per lo più effimero”). Del resto, nel commentare il ruolo del “nome letterario” nel patrimonio onomastico

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degli italiani, già in Rossebastiano (2000-01: 195) si citava la canzone Dite a Laura che l’amo (1967), cover italiana di Tell Laura I love her [non you] (di Ray Peterson e Ritchie Valens, 1960), interpretata da Michele [Maisano], come uno dei fattori di successo del nome Laura tra il 1965 e il 1970; ma Laura aveva già co-nosciuto un picco onomastico grazie al personaggio de La Gioconda di Amilcare Ponchielli (1876) su li-bretto di Arrigo Boito (Rossebastiano 2000-01: 199 n. 15), a testimonianza della continuità tra melo-dramma e canzone. Una rapida ascesa (e un altrettanto rapido declino) aveva conosciuto, come osser-vano ancora Rossebastiano & Papa (2003), Marina, proprio a ridosso del 1959-60, anni del successo del-la omonima canzone di Rocco Granata (1959), poi interpretata anche (e pour cause) da Marino Marini in Italia e all’estero. Anche Marcato (2009) accenna a casi del tipo Deborah, portata al successo da Fausto Leali nel 1968, e Sara, omonima canzone di Antonello Venditti (1978) e di Cristian. 2. Il corpus dei titoli di canzoni con nomi femminili

Per meglio definire tale ipotesi, ho proceduto in primo luogo alla costruzione di un corpus, limitato, per il momento, sostanzialmente ai titoli dedicati a, o contenenti, un nome femminile, compresi i nomi di origine non italiana, ma esclusi, salvo quelli di più antica attestazione, i nomi dialettali (che meriterebbe-ro una trattazione a parte, soprattutto per ciò che riguarda la grande tradizione della canzone napoleta-na). Operazione, mi sono reso presto conto, tutt’altro che facile, per la difformità delle fonti, e la loro disuguale collocazione nel tempo: il sessantennio della canzone moderna (per intenderci, dal 1958 dello spartiacque costituito da Nel blu, dipinto di blu di Modugno ad oggi) è infinitamente meglio documentato del secolo che lo precede, caratterizzato dalla canzone cosiddetta “ancien régime”. D’altra parte, la mo-da della “canzone per lei” è iniziata nella seconda metà del Novecento (in concomitanza, o più spesso in ritardo, con la presenza di un “tu” poetico, il più delle volte femminile, nella coeva poesia lirica) e ha conosciuto il momento di maggiore fortuna, non esauritasi neppure oggi, con il “periodo d’oro” dei cantautori e dei gruppi pop negli anni Sessanta e Settanta, con strascichi negli ultimi decenni. Sono par-tito, quindi, dallo spoglio manuale dei principali repertori e saggi complessivi dotati di indici dei titoli delle canzoni citate (Borgna 1985, anche con disposizione cronologica; Liperi 1999; Monti & Di Pietro 2003; Salvatori 2015, con un prezioso indice-filtro di una playlist tematica dal titolo“W le donne”; Guai-tamacchi 2009; Antonelli 2010, con ampio apparato di indici consultabile nel sito dell’editore; il monu-mentale Colombati 2011), oltre a sondaggi mirati su singoli cantanti e gruppi e a oggi imprescindibili ri-sorse on line, come la sezione “Una canzone per te”, ricca ma a volte imprecisa, del sito www.nomix.it o la monografia (però selettiva) “Canzoni per lei” a cura di Daniele Moretti del ricchissimo sito www.hitparadeitalia.it (Canzoni per lei è anche il titolo di una compilation discografica del 2006). Per il re-sto, come succede per gli studi sulle varietà trasmesse (p. es. il cinema), occorre far ricorso alla memoria personale, a quella dei colleghi o a quella degli allievi più giovani.

3. Caratteristiche e “rango” dei nomi del corpus Ne è risultata una piccola banca dati, pubblicata in Appendice A di Coveri (2012: 47-58) del tutto provvi-soria ed apertissima a integrazioni e correzioni, composta di 328 nomi femminili, che si può leggere in vari modi, sia in termini statistici sia più propriamente linguistici. Per esempio, scorrendo l’indice si scopre, come curiosità, che Ivan Graziani (prima di Venditti, Battisti, De André, i Pooh), è il cantante che ha interpretato il maggior numero di canzoni “al femminile”; si può ricostruire l’“universo femmini-le” di questo o quel cantante, e via di questo passo. Oppure, che nella maggioranza dei casi il nome femminile coincide semplicemente con il titolo della canzone, conferendo alla dedica, che talvolta è esplicita (Canzone per Laura, Canzone di Laura, La canzone di Marinella, Per Elisa – esempio ripreso dalla musica classica) una maggiore forza. Qui però interessa notare che, dei tre nomi di, o in, canzoni colla maggiore frequenza (Maria, 39 occorrenze, senza contare gli ipocoristici, i derivati, i composti, le ver-sioni non italiane; Anna, 29 occorrenze; Giulia, 13 occorrenze), le prime due sono anche quelle che oc-cupano, rispettivamente, il 1° e il 2° rango nell’onomastica femminile comune nel periodo 1990-1994, mentre la terza, Giulia, non era attestata nelle prime venti (in cui, peraltro, l’unico nome di origine lette-raria, il già citato Laura, che ha 7 occorrenze tra le canzoni, era solo al 12° posto assoluto) (Rossebastia-

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no & Papa 2003: 288 e tabella). Ma Giulia ha avuto una netta impennata alla metà degli anni Settanta, dovuta probabilmente, come si dice in Rossebastiano & Papa (2005), al successo dell’omonimo film di Fred Zinnemann del 1977, continuando la sua ascesa fino a raggiungere addirittura il 1° posto tra il 1991 e il 1994 (forse grazie al successo di Julia Roberts in Pretty Woman, 1990), posto che occupa ancora tra i nomi impartiti alle nuove nate nel 2009 secondo i dati ISTAT (www.nomix.it) prima di Sofia, Marti-na, Sara, Giorgia (“nome d’autore”), Chiara, Aurora, Alessia, Alice, Francesca. E nello stesso 2009, Anna re-sisteva ancora all’11° posto, mentre Maria era uscita dal novero dei primi trenta per le bambine nate in quell’anno. Dovrebbe essere quindi abbastanza evidente che, almeno nelle zone alte della classifica, i nomi femminili dedicatari delle canzoni non fanno che riflettere la situazione della diffusione onomasti-ca generale, funzionando al più come elemento di rafforzamento della scelta. 4. Maria e derivati nei titoli delle canzoni italiane Ma puntiamo ora l’attenzione sulla presenza del nome Maria nell’onomastica femminile della canzone italiana (limitatamente ai titoli, ed escludendo dunque l’analisi dei testi, che avrebbe portato ad una mes-se ancor più consistente di attestazioni). La piccola banca dati (v. Appendice finale) si presta a varie con-siderazioni di ordine statistico, tipologico e culturale. Innanzitutto, con 39 occorrenze, come si è visto, Maria non teme confronti quanto a nome più citato nei titoli delle canzoni, anche se è curioso che non appaia quasi mai da solo, ma più spesso in sintagmi complessi. Se si sommano poi gli ipocoristici, i composti, le varianti dialettali o in lingue straniere, si raggiunge il numero complessivo di 63 occorren-ze, un risultato cospicuo. A parte il nome cardine Maria (per cui cfr. Rossebastiano & Papa 2005: 845-848, che registra 3.277.945 presenze; Caffarelli 2015: 106-114), nei titoli delle canzoni italiane troviamo le forme ipocoristiche (d’ora in avanti si danno tra parentesi le occorrenze registrate in Rossebastiano & Papa 2005) Mariù (24) e Mari’ (anche dial. nap., 100), la prima legata indissolubilmente all’interpretazione di Vittorio De Sica nel film di Mario Camerini Gli uomini, che mascalzoni (1934) (Salva-tori 2015: II 237); la seconda (1941), un classico della canzone napoletana, interpretata tra gli altri da Roberto Murolo e Sergio Bruni. È napoletano anche l’ipocoristico Maruzzella (41, dim. di Maruzza), portato al successo nel 1955 da Renato Carosone (Salvatori 2015: II 45), che ne determinò l’autonomia onomastica (Rossebastiano & Papa 2005: 860). E al dialetto veneto rinvia la canzoncina del 1955 Marie-ta [monta in gondola] cantata da Nilla Pizzi e Gino Latilla. Numerosi, come del resto nell’onomastica ge-nerale, i nomi composti con Maria, sia in forma analitica (- Canaria, - Catena, - Luisa, - Maddalena, - Novel-la, - Paola, - Sole, - Teresa), sia sintetica (Mariarosa, 8424), anche con autonomia onomastica come Marian-na (84.160, originariamente composto con - Anna) (Rossebastiano & Papa 2005: 848; Caffarelli 114-115). Hanno assunto autonomia onomastica anche Marisa (117.047), composto con - Luisa o con altri nomi in -isa (Rossebastiano & Papa 2005: 854; Caffarelli 2015: 114-115) e Marilù (composto sempre con Luisa sincopato con scorciamento), sul cui modello è probabilmente calcato Marinù di Gino Paoli e Alex Britti, forse anche per incrocio con Marina. A rigore, il titolo della canzone del 1960 di Rocco Granata notissima anche all’estero, Marina (112.065), pur derivando da Marinus, a sua volta dal nome di orig. etrusca Marius, non dovrebbe considerarsi derivato di Maria, essendo sentito sin dall’età medioeva-le come collegato a mare (Rossebastiano & Papa 2005: 851-852), cosi come il suo ipocoristico Marinella (28.482), diffusissimo dopo il successo della Canzone eponima di Fabrizio De André (1964) portata al clamoroso successo da Mina nel 1967. Lo si include considerando l’effetto dell’etimologia popolare. Un gruppo piuttosto nutrito di nomi femminili collegati a Maria è infine in forma non italiana, come presti-to integrale o adattamento, con varianti: fr. Marianne, Marie Isabelle; ingl. Mary (Caffarelli 2015: 119), Ma-ry Ann, Mary Anna, Mary Lou, var. Marylou (adatt. Merilù), Meri Luis (adatt. di Mary Louise?), Marilyn, var. Marylin (adatt. Marilin) – quest’ultimo naturalmente legato al nome di Marilyn Monroe (Rossebastiano & Papa 2005: 851; Caffarelli 2015: 115); ted. Marlene – calco-traduzione di Maria Maddalena (Rosseba-stiano & Papa 2005: 855). È di provenienza esotica anche Marika (14.026), con picco di diffusione nell’onomastica generale nel 1967 (Rossebastiano & Papa 2005: 850), derivato di Maria, utilizzato so-prattutto in Polonia, Cechia, Slovacchia, Slovenia, Ungheria e altri paesi dell’Europa orientale (Caffarelli 2015: 116-117). Che è poi il nome nativo della nostra festeggiata.

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5. Per concludere In Coveri (2012) si era cercato di mettere in evidenza il ruolo di un mezzo di comunicazione di massa popolare come la canzone nell’influenzare le scelte onomastiche degli italiani. Ciò è vero soprattutto nel caso di nomi meno comuni, il cui successo, almeno in circostanze cronologicamente documentate, ha verosimilmente dato impulso all’adozione di nomi “di moda” come Gloria, Lisa, Albachiara, Margherita, Diamante, Sara, Aurora, Katy, Luna, Sally, Barbara, Donatella, Lilly, Marinella e altri. Più difficile risulta di-mostrare un legame tra la notorietà di una canzone e il picco di un nome quando si tratti di antroponimi comunque ampiamente presenti nel repertorio onomastico generale (come Anna, Francesca, Giulia e, ap-punto, Maria). Come ha notato Caffarelli (2015: 111), “[…] se nel 1992, per la prima volta dopo un numero imprecisato di decenni (e forse di secoli), il primato nazionale per le nuove nate ha cambiato detentore, passando a Giulia; l’anno dopo Maria era 3°, superato anche da Francesca […] nel 2013, se-condo i dati Istat, Maria è nuovamente in ascesa, in 29° posizione tra le nate dell’anno e con ogni pro-babilità, considerando le oscillazioni della moda, tornerà ai vertici delle classifiche anche per le nuove nate”. Per cui una Canzone per Maria rappresenterà piuttosto uno specchio che un modello degli usi lin-guistici degli italiani (e delle italiane). Ringraziamenti e attribuzioni La prima parte (§§ 1-3) del presente contributo riprende, con adattamenti e aggiornamenti, le pp. 41-44, r. 4, di Coveri 2012, cui si è nel frattempo aggiunto, sul versante maschile, il saggio di D’Achille 2013. La seconda parte, inedita (§§ 4-5) non poteva non tener conto dell’ampia monografia di Caffarelli 2015 (specialmente le pp. 106-114 e 209-234). A Enzo e Pino Caffarelli e a Paolo D’Achille rinnovo i miei ringraziamenti per i consigli e le integrazioni. Riferimenti bibliografici Antonelli, Giuseppe. 2010. Ma che cosa vuoi che sia una canzone. Bologna: Il Mulino [l’indice dei brani di canzoni

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ri’ Mari’) Maria: Claudio Rocchi, Enzo Jannacci, Gianmaria Testa, Massimo Priviero, Pino Daniele, Ron, 1899 Maria Mari’

(Di Capua-Russo), 1931 Alberto Rabagliati (Maria La O), Ricchi e Poveri (Mamma Maria), Massimo Bubola (Maria che ci consola), Rino Gaetano (Ahi Maria), Lucio Battisti (La mia canzone per Maria), Memo Remigi (Cento donne poi Maria), Fabrizio De André (Ave Maria, Il sogno di Maria , L’infanzia di Maria, Maria nella bottega del fale-gname), Renato Zero (Ave Maria), Articolo 31 (Maria Maria / Ohi Maria), Premiata Forneria Marconi (Dolcis-sima Maria), Umberto Tozzi (Maria no), Piero Ciampi (Io e te Maria), Paola Turci (Io e Maria), Simon Luca (Per proteggere l’enorme Maria), Alvaro Amici (Serenata a Maria), Edoardo Vianello (E brava Maria!), Pandemonium (La colpa è di Maria), Ivan Cattaneo (Maria – Batman), Gino Paoli (Babbo Natale e Maria), Giorgio Gaber (Chiedo scusa se parlo di Maria), Peppino Di Capri (Evviva Maria), Enrico Ruggeri (Il matrimonio di Maria), Al Bano (La canzone di Maria), Nino D’Angelo (La sorella di Maria), Pooh (Maria Marea), Gianni Meccia (Maria –ria), Mimmo Cavallo (Non t’arrabbia’ Maria), Riccardo Cocciante (Sì Maria), Mina (Ti dimentichi di Maria)

Maria Canaria: Nicla di Bruno Maria Catena: Carmen Consoli Maria Luisa: Rita Pavone Maria Maddalena: Carlo Buti, Antonello Venditti, Napoli Centrale Marianna: Francesco De Gregori (Marianna al bivio), Gianni Morandi (Marianna del Grand Hotel) Marianne: Sergio Endrigo Maria Novella: Tony Cucchiara Maria Paola: Gianna Nannini Mariarosa: Gianni Morandi (Una ragazza di nome Mariariosa) Maria Sole: Rettore Maria Teresa: Flora Fauna e Cemento (Maria Teresa Rigamonti) Marie Isabelle: Yo Yo Mundi Marieta: 1954 (Belloni-Cherubini-Concina) (Marieta [monta in gondola]) Marika: Roberto Vecchioni Marilin: 1957 (Nisa-Redi), Sergio Bruni (Marilin mbo! Mbo!) Marilù: Nino Ferrer, Alunni del Sole, Quelli Marilyn: Riccardo Cocciante Marina: Rocco Granata / Marino Marini Marinella: Fabrizio De André / Mina (La canzone di Marinella) Marinù: Gino Paoli Marisa: Paolo Conte, Pierangelo Bertoli (Marisa si sposa)

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Mariù: Gianni Morandi, Antonello Venditti, Roberto Vecchioni, Marco Ferradini, 1932 Parlami d’amore Mariù (Neri-Bixio) Vittorio De Sica, Sergio Caputo (Tutto è finito Mariù)

Marlene: Roll’s 33 / Minnie Minoprio (L’amica di Marlene), Litfiba (Lulù e Marlene) Maruzzella: 1955 (Bonagura-Carosone) Mary: Gemelli Diversi, Michele Zarrillo, Bruno Lauzi (Mary oh Mary), Dalida (Oh Lady Mary), Fili d’erba (Sweet

Mary), Alberto Fortis (Mary [Cameron]), Ivan Graziani (Mary Bucchero), Cesare Cremonini (Mary seduta in un pub), Brando (Oh Mary), Pierangelo Bertoli (Povera Mary), Rino Gaetano (Scusa Mary), Cristina D’Avena (Mary e il giardino dei misteri)

Mary Ann: Pooh Maryanna: Mauro Lusini (Maryanna Dilon Dilan) Marylin [sic]: Alberto Fortis, Afterhours (Dentro Marylin) Marylou: Edoardo Bennato Mary Lou: Adriano Celentano (Hallo Mary Lou) Merilù: Goran Kuzminiac, Claudio Baglioni (Oh Merilù) Meri Luis: Lucio Dalla

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Un cappuccino bello schiumoso: l’uso di BELLO come intensificatore di aggettivi in italiano

Paolo D’Achille • Anna M. Thornton

Abstract The paper examines the grammaticalization process of the Italian adjective BELLO ‘beautiful’, nowadays used al-so as an adjective intensifier (specifically, a booster), on the basis of both diachronic and synchronic corpora of Italian. The phenomenon is registered by dictionaries of Italian but not well described in grammars. This “adverbial” usage of BELLO, certainly attested at the beginning of the 16th century, and possibly earlier, could have developed from its usage as focus modifier before nouns, or from its usage in coordination with an-other adjective, or (less likely) from contexts in which it precedes COLORE ‘color’ or color terms. Bridging contexts (Heine 2002) are cases in which BELLO precedes nouns that denote entities whose abundance is considered positive (e.g., bel guadagno ‘lit. beautiful income’ > ‘high income’), or adjectives that denote qualities whose high degree is considered positive (bello grosso ‘lit. beautiful big’ > ‘very big’). Grammaticalization of BELLO as an intensifier seems to have reached Heine’s (2002) third stage: in contempo-rary Italian, a requirement that the quality to which the Intensivandum refers is positively evaluated by the speaker does not hold any more. However, BELLO has not lost its original meaning and, even when it is used as an inten-sifier, agrees in gender and number with the head noun modified by the Intensivandum, unlike adverbs. KEYWORDS: Bello ‘beautiful’ • intensification • grammaticalization • booster • focus modifier Chi si sia trovato al bar con Maria l’avrà sentita spesso ordinare “un cappuccino bello schiumoso”. In questo sintagma, bello ha il ruolo di intensificatore: il cappuccino deve essere piuttosto schiumoso, o me-glio ancora molto schiumoso. Quest’uso di BELLO, abbastanza diffuso nell’italiano contemporaneo, non è stato, a quanto ci risulta, ancora ben descritto. In questo contributo faremo qualche passo per colma-re questa lacuna.

Intendiamo per intensificatore un elemento linguistico utilizzato per esprimere il grado di pos-sesso di una caratteristica o qualità espressa da un altro elemento, detto Intensivandum nella terminologia di Rainer (1983). La funzione intensificatrice è svolta soprattutto da avverbi, ma può essere svolta an-che da vocaboli appartenenti ad altre parti del discorso, da affissi, o da specifiche costruzioni1; anche l’Intensivandum può appartenere a ogni parte del discorso (Paradis 2008: 317-318).

In questo lavoro, soprattutto per limiti di spazio, ci concentreremo su BELLO nella funzione di intensificatore di aggettivi; tuttavia, dovremo necessariamente considerare anche i tipi BELLO + sostan-tivo, e il tipo BELLO E + aggettivo o participio (bello e pronto; bello e fatto) per cercare di ricostruire l’origine del tipo che ci interessa.

Nelle sequenze BELLO + sostantivo, BELLO può avere tanto il valore di intensificatore quanto quello di focus modifier (Traugott 2006). Traugott osserva che intensificatori e focus modifiers hanno ele-menti semantici in comune, in quanto sia gli uni sia gli altri esprimono enfasi, e determinati elementi possono essere usati in entrambe le funzioni. I focus modifiers tipicamente “do not add content meaning; in other words, the sentence without the adverbial is semantically identical” (Traugott 2006: 339); questi elementi, però, esprimono una valutazione del parlante dell’elemento focalizzato. Si possono distingue-re tre tipi di focus modifiers: esclusivi (ingl. only, merely, it. solo, esclusivamente), additivi (ingl. also, too, even, it. anche, pure) e particularizers. Questi ultimi “identify or specify the focus value under discussion” (Nevalai-

1 Tra i procedimenti di intensificazione dell’italiano, Rainer (1983) annovera il superlativo relativo, avverbi (molto, ampiamente, assai...) e locuzioni avverbiali (di gran lunga, un casino...), aggettivi (grande, madornale...), prefissi (iper-, stra-...), suffissi (-issimo, -one), costruzioni reduplicative (biondo biondo, un caffè caffè...), i tipi stanco morto e chiaro e tondo, costruzioni consecutive (matto da legare...) e comparative (sordo come una campana...) e altro ancora. L’autore è tornato sull’argomento in Rainer (2015).

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nen 1994, cit. in Traugott 2006: 340): esempi inglesi sono exactly, particularly; in italiano l’esempio più ti-pico è proprio, ma anche bello può svolgere questa funzione, in contesti come un bel niente, un bel caffè. 1. Lo status quaestionis 1.1 Il tipo in opere di riferimento e studi sull’italiano contemporaneo Il tipo BELLO + aggettivo non è menzionato né da Serianni (1988)2 né da Schwarze (1988), che pure contiene un’ampia sezione “Referieren auf Grade” (IV.2.2)3, ed è segnalato solo incidentalmente nella Grande grammatica di consultazione, dove compare, del tutto inopinatamente, all’interno del capitolo dedi-cato alle frasi coordinate. Qui, dopo la trattazione del tipo bell’e fatto, dove “[l]a combinazione con bello specifica che il processo è in qualche modo completato, o che ha raggiunto un suo culmine”, si osserva che questo è un caso diverso “dall’uso di bello come vero e proprio specificatore positivo, che indica cioè apprezzamento positivo da parte del parlante della qualità espressa dall’aggettivo testa; qui non si usa mai e: [...] Era bello alto” (Scorretti 1988: 236). Anche nella voce intensificatori dell’Enciclopedia dell’italiano (Cimaglia 2010) si cita BELLO come intensificatore di un nome, ma non di un aggettivo. Infi-ne, il GRADIT menziona il nostro tipo nell’accezione 7a del lemma BELLO: “preposto a nomi, aggetti-vi, avverbi, ha valore enfatico o rafforzativo”, ma poi nell’esemplificazione non include alcun caso di BELLO + aggettivo.4

Rainer (1983), invece, nella sua pionieristica monografia sull’intensificazione in italiano, identifi-ca chiaramente il tipo, che tratta nel capitolo 3, “Intensivierende Adverbien”, dove elenca in ordine al-fabetico e illustra circa 130 avverbi o locuzioni avverbiali usabili come intensificatori di aggettivi, da ABISSALMENTE a TUTTO. La classificazione di BELLO come avverbio viene assunta pacificamente, evi-dentemente in virtù del fatto che nella costruzione in questione esso modifica un aggettivo. Il fatto che vi sia accordo di genere e numero tra BELLO e l’aggettivo che lo segue non viene problematizzato.5

Rainer (1983: 10) osserva che “die Klasse der intensivierenden Adverbien eine grundsätzlich of-fene ist”; molti degli esempi incontrati nel corpus di testi letterari del XX secolo utilizzato dallo studio-so sono occasionalismi, e la trattazione si limita a documentarne l’attestazione; i tre lessemi cui Rainer dedica la trattazione più ampia sono, in ordine di lunghezza, TUTTO (§ 3.6.119, 204 righe alle pp. 40-46), BELLO (§ 3.6.20, 68 righe alle pp. 18-20) e MOLTO (§ 3.6.78, 47 righe alle pp. 30-31). A BELLO viene dunque dedicato più spazio che a MOLTO, che è certamente il più comune avverbio intensificatore di aggettivi dell’italiano. 1.2 Il tipo nella lessicografia storica e le ipotesi sulla sua origine

Rispetto alle grammatiche e ai dizionari sincronici, la lessicografia storica ha dedicato un’attenzione un po’ maggiore al nostro tipo. Per la verità, in Crusca1-5 non se ne trova alcun cenno, ma il Tommaseo-Bellini (d’ora in poi TB), s.v. bello, dopo aver trattato del tipo BELLO E6, aggiunge: “Meno inusit[ato] è l’omettere l’E. Belli bianchi, Bello pulito. – Il salto è bello grande”. 2 Dove però si menziona brevemente BELLO come intensificatore di un sostantivo: “Alcuni aggettivi qualificativi (tra i più comuni bello e buono [...]) possono essere adoperati non per indicare una precisa qualità o concetto, ma una particolare inten-sificazione del concetto o dell’immagine espressi dal nome. Quando sono adoperati in questa accezione, essi si collocano normalmente prima del nome: ‘adesso ti preparo una bella minestra’” (cap. V.34). Si noterà che nell’esempio BELLO ha valo-re di focus modifier più che di intensificatore. 3 Non si trovano cenni al nostro BELLO nemmeno nell’edizione italiana (Schwarze 2009). 4 Gli esempi proposti, che non distinguono i valori di intensificatore e di focus modifier, sono i seguenti: “un bel pezzo di ragazza; un bel nulla, un bel niente, proprio nulla, proprio niente; un bel sì, un bel no, un sì, un no decisi; nel bel mezzo di qcs., proprio nel mezzo; un bel giorno capirai; avere un bel fare, un bel dire, sforzarsi inutilmente; un b. caldo, un b. freddo, molto caldo, molto freddo”. 5 “Vom Standpunkt der Morphologie kann man die intensivierenden Adverbien in einfache und komplexe (-mente) oder in kongruierende (tutta nuda) und nicht kongruierende einteilen” (Rainer 1983: 10). 6 Questo costrutto, ricordato anche in Crusca3-5 e considerato da De Blasi (2014: 91) caratteristico della varietà toscana, è spiegato da TB in questi termini: “Siccome nell’idea di bellezza è inclusa quella di perfezione, cioè di piena attitudine al fine; così la forma Bell’e denota la compitezza della cosa nel genere suo, e il compimento dell’atto; dice dunque e la qualità e l’azione che la produce. Nell’idea di qualità porta l’Agg. o il Partic. in forma d’Agg.”.

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Anche nel Battaglia (d’ora in poi GDLI), s.v. bello (accez. 7), si legge: “Seguito immediatamente da un aggettivo (senza la congiunzione): a sottolineare il valore dell’aggettivo a cui si accompagna”. In questo caso la descrizione del tipo BELLO E è posta non prima, come in TB, ma subito dopo.7

Infine, l’ampia voce bellus del LEI (vol. V, coll. 939-1007) registra al punto 8 (coll. 996 segg.) il significato generale di ‘notevole per la sua quantità o per la sua intensità, rafforzativo’ e considera come appartenenti a un unico tipo, documentato a partire dal Trecento e diffuso in molte aree dialettali, i casi di BELLO + sostantivo e BELLO + aggettivo (trattati unitariamente), di BELLO E + aggettivo, della loc. avv. bel bello, di bello e buono, ecc.

La varietà dei trattamenti lessicografici non presenta particolare interesse in sé, ma piuttosto dal punto di vista generale, perché offre due diverse strade per interpretare, sulla base della documentazio-ne storica, il processo che ha portato l’aggettivo BELLO a svolgere una funzione intensificatrice davanti a un altro aggettivo. Ora, la collocazione del passo sopra citato nel TB sembrerebbe postulare che il ti-po bello grande sia derivato da bello e grande.

Nonostante il diverso ordinamento, alla stessa conclusione porterebbe l’esemplificazione del GDLI, che per bell’e inizia con Giordano da Pisa e Boccaccio8 per arrivare a Pavese, mentre nel caso di bello + aggettivo si limita a tre soli esempi di fine Ottocento-primo Novecento (Ildefonso Nieri)9 o pie-no Novecento (Riccardo Bacchelli e Carlo Levi).

Invece, nel caso del LEI, si direbbe che la funzione di BELLO quale intensificatore di aggettivi sia considerata un’estensione del valore di ‘notevole per quantità o intensità’ che l’aggettivo può avere come attributo di sostantivi. Questo valore, peraltro, è quello effettivamente documentato nel più anti-co esempio a cui il LEI fa riferimento per datare entrambi i costrutti (Boccaccio, av. 1363), che non viene riportato, ma dovrebbe alludere ai passi citati per primi dal GDLI all’accez. 6: “Fece una sera, per modo di solenne festa, una bella cena” (Dec. 2, 7, 9); “per bella paura entro, col mosto e con le castagne calde si rappatumò con lui” (ivi, 8, 2, 36).

Riassumendo, dunque, le fonti lessicografiche sembrano suggerire due ipotesi alternative sull’origine del valore intensificativo di BELLO davanti agli aggettivi: 1) sviluppo per estensione dell’analogo valore svolto davanti a nomi; 2) sviluppo dalla coordinazione (copulativa o asindetica) di BELLO (con il suo valore proprio) davanti a un altro aggettivo (da bello e grande o bello, grande a bello gran-de).

Valuteremo queste due diverse ipotesi sulla base delle attestazioni ricavabili dai corpora diacro-nici dell’italiano disponibili.10 È però opportuna subito una precisazione: sul piano sincronico, BELLO premesso a un nome presenta al maschile singolare e plurale le forme bel e begli o bei, mentre premesso a un aggettivo no (e dunque abbiamo: un bel verde, un bel granchio vs. bello verde, bello grande, così come bello, verde e bello, grande), ma in diacronia, come vedremo, la distinzione è meno netta (e non solo per ragioni metriche). 7 “Nell’espressione bell’e (seguita da un aggettivo, un avverbio e un participio, e più raramente anche da un infinito, o un so-stantivo): a indicare il completo compimento di una qualità, di un’azione, di uno stato (con il valore di: già, completamente, per intero; sicuramente; senza possibilità di elusione, oppure: propriamente, di fatto”. Sotto questa stessa accezione è ripor-tata l’espressione bello e buono (“preciso, autentico, che non lascia dubbi sulla sua natura e sui suoi effetti”), mentre come ac-cez. 8 è indicato l’uso di BELLO come “pleonasmo rafforzativo: propriamente, di proposito, esattamente, ecc.”. Tutte le pa-rafrasi proposte si adattano più a un focus modifier che a un intensificatore. 8 L’esempio di Giordano da Pisa citato, per la verità, non ha riscontri nel corpus OVI, che ne offre però qualche altro analo-go dello stesso autore. 9 Il passo è tratto dalla 2a ed. (1908) dei Cento racconti popolari lucchesi, editi però per la prima volta nel 1891-1894. In quest’opera, in effetti, le occorrenze del tipo (talvolta anche in funzione avverbiale) sono piuttosto numerose. Troviamo tra l’altro: “questo giornalone bello aperto”; “disse bello forte”; “la via per andare a casa era bella pulita”; “fino a sole bello al-to”; “l’aveva lasciato bello libero”; “bello riposato”; “una ventina di tini, e tutti belli pieni”; “saltava giù bello nudo come Dio l’aveva fatto”; “va a casa, sconca i panni, li asciuga così belli súdici, e te li rimette nel banco!”; “campi cent’anni bello grasso e tondo”; “I bimbi sono come i fiori: ora sono belli freschi”. Nel glossario: “Impocciato. Su bello dritto sulla persona”; “Stra-vaccato. Sdraiato bello lungo”. Nel testo è presente anche il tipo BELLO E: “vo’ siete pagato, e noi siam belli e pari”; “la statua era già in canonica, bella e finita”; “Ho bello e visto”; “se ne sta a sedere bello e riposato”, ecc. 10 Si tratta di OVI, BIZ e MIDIA, sui quali diremo qualcosa più oltre. Non ci sfugge il fatto che bisognerebbe tenere conto, per una più sicura valutazione del possibile mutamento semantico dell’aggettivo, della documentazione tardolatina e medio-latina, ma non abbiamo lo spazio per farlo, e d’altra parte la questione ci allontanerebbe alquanto dallo specifico oggetto di studio.

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Inoltre, è opportuno sgombrare preliminarmente il campo da due questioni. La prima riguarda il tipo BELLO E, che appare distinto dal nostro, per il quale è condivisibile la

spiegazione di TB e di Scorretti (1988). Esempi di questo costrutto s’incontrano già nel corpus OVI: bello e cotto e belli e cotti in Giordano da Pisa, belle e pronte e belle e fatte in Boccaccio. C’è anche bello e nuovo, ma, sia nell’esempio citato in TB (“bicchieri belli e nuovi”, Boccaccio), sia in quello del Milione (“E quando ad alcuno si rompe e guastasi alcuna di queste carte e egli vae a la tavola del Grande Sire, incon-tanente gliele cambia e [ègli] data bella e nuova”), potrebbe benissimo trattarsi di una semplice coordi-nazione aggettivale, da accostare alle numerosissime altre documentate nell’OVI. Si può tutt’al più ipo-tizzare una (successiva) convergenza di questo tipo con il nostro, che ha portato a una loro sostanziale equivalenza in contesti come bello e pronto/bello pronto, bello e cotto/bello cotto da un lato, bello vivo/bello e vivo, bello chiaro/bello e chiaro dall’altro.11

L’altra questione riguarda la possibilità, che peraltro nessuno ha mai preso in considerazione, che BELLO in funzione avverbiale costituisca una riduzione dell’avverbio bellamente. Si tratta in effetti di un’ipotesi senz’altro da scartare: oltre tutto, i nostri corpora diacronici (ai tre sopra citati abbiamo ag-giunto in questo caso anche il DiaCORIS) offrono solo rarissimi esempi di bellamente, per di più pre-messo non ad aggettivi, ma a participi passati in funzione aggettivale. 2. Caratteri dei fenomeni di grammaticalizzazione In questo contributo affrontiamo la descrizione del tipo BELLO + aggettivo analizzandolo come un caso di grammaticalizzazione, nel quale BELLO si sposta lungo un grammaticalization cline da aggettivo lessicale, con il significato di ‘che ha un aspetto gradevole, che corrisponde a canoni estetici o artistici’, a booster, cioè intensificatore che indica il possesso di un alto grado della qualità denotata dall’Intensivandum (Para-dis 1997: 24).

Per grammaticalizzazione intendiamo “the processes whereby items become more grammatical through time” (Hopper & Traugott 1993: 2). Riteniamo che il passaggio dal significato ‘di aspetto gra-devole, ecc.’ al valore di intensificatore sia un esempio di questo tipo di fenomeno.

Hopper & Traugott (1993: 2-3) elencano alcuni fattori tipicamente presenti nei processi di grammaticalizzazione:

a) il cambiamento ha luogo solo in contesti molto specifici; b) il cambiamento è reso possibile dall’esistenza di un’inferenza dal valore semantico di parten-

za a quello di arrivo; c) il cambiamento implica una rianalisi di una sequenza di parole; d) la rianalisi diviene apparente quando si ha un’estensione dell’uso dell’elemento che ha muta-

to valore a contesti in cui non sarebbe potuto occorrere nel suo valore originario; e) una volta avvenuta la rianalisi, l’elemento che ha mutato valore può essere colpito da ridu-

zione fonologica; f) i diversi stadi di grammaticalizzazione di una stessa costruzione possono coesistere in uno

stato sincronico dato; g) il significato originale dell’elemento che muta valore può continuare a imporre restrizioni

sull’uso dell’elemento con il nuovo valore; h) l’elemento che muta valore ha un significato relativamente generale; i) una parte del significato originale dell’elemento grammaticalizzato si perde, mentre nuove

componenti di significato gli si aggiungono. Hopper & Traugott illustrano tutti questi fattori esemplificando con il caso assai ben studiato

della grammaticalizzazione di BE GOING TO da verbo di movimento ad ausiliare con valore di futuro in inglese. I fatti sono ben noti e non li riassumeremo qui per motivi di spazio. Cercheremo invece di veri-ficare in che misura i fattori elencati si presentino nel percorso seguito da BELLO nell’assumere il valore di intensificatore.

11 Alcune convergenze si rilevano anche negli esempi del Nieri citati nella nota 9, come bello riposato e bello e riposato.

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Come si è già accennato, il cambiamento di significato che porta BELLO dal valore di ‘che ha un aspetto gradevole, che corrisponde a canoni estetici o artistici’ a quello di booster avviene a partire da specifici contesti di occorrenza.

Negli studi sulla grammaticalizzazione sono stati proposti diversi modelli della successione dia-cronica dei tipi di contesti che permettono un mutamento di significato lungo un grammaticalization cline. In particolare, sono dedicati alla modellizzazione dei contesti i lavori di Heine (2002) e di Diewald (2002, 2006). Heine propone un modello a quattro stadi, mentre Diewald opera secondo un modello a tre stadi; entrambi comunque sottolineano elementi di convergenza, oltre che differenze di prospettiva, tra i rispettivi modelli. Qui di seguito opereremo adottando il modello di Heine per inquadrare lo svi-luppo semantico di BELLO. Tale modello è riassunto nella Tabella 1, tradotta e adattata da Heine (2002: 86).12

TABELLA1–Stadinelprocessodigrammaticalizzazionediunelementolinguistico.Stadio Contesto Significato I - Stadio iniziale Senza restrizioni Significato di partenza II - Contesto ponte C’è uno specifico contesto che dà origine a

un’inferenza in favore di un nuovo significato Il significato di arrivo è portato in primo piano

III - Contesto di svolta (switch context)

C’è un nuovo contesto che è incompatibile con il significato di partenza

Il significato di partenza è posto in secondo piano

IV - Convenzionaliz-zazione

Il significato di arrivo non è più limitato ai con-testi in cui è sorto; può essere usato in nuovi contesti

Si ha solo il significato di arrivo

Nel I stadio, l’elemento che sarà poi soggetto a grammaticalizzazione appare nel suo significato

originario, e non è legato a specifici contesti; nel II stadio, quello dei cosiddetti “contesti ponte”, l’elemento appare in specifici contesti che permettono un’inferenza (implicatura conversazionale) in di-rezione del nuovo significato; nel III stadio (“contesti di svolta”) l’elemento si presenta in contesti in cui ha un valore incompatibile con il significato originario; infine, nel IV e ultimo stadio, detto “con-venzionalizzazione”, il significato dell’elemento è ormai mutato, e l’elemento viene usato in molti e vari contesti con il nuovo valore. Non sempre, tuttavia, il processo di grammaticalizzazione porta alla scomparsa del significato di partenza, che può continuare a esistere accanto al nuovo significato gram-maticalizzato, come nel caso dell’italiano BELLO, che non ha mai perso il significato di partenza ‘di aspetto gradevole, ecc.’, pur avendo acquisito i diversi significati grammaticalizzati che abbiamo illustra-to. 3. BELLO dall’italiano antico all’Ottocento Come si è detto sopra, abbiamo studiato il tipo in diacronia basandoci su vari corpora: anzitutto l’OVI, fondamentale banca dati sui testi in volgare dalle origini al 1375 ca., poi MIDIA, piccolo corpus bilan-ciato di testi appartenenti a diversi generi testuali dal Duecento al 1947, infine la BIZ, che documenta la lingua letteraria dal Duecento al primo Novecento.13 Precisiamo che nel caso dell’OVI abbiamo consi-derato e analizzato tutti gli esempi che presentano la sequenza BELLO + aggettivo; invece della sequenza BELLO + nome, visto l’alto numero di occorrenze, ci siamo limitati a considerare quelle datate entro il limite del 1300. Di MIDIA, date le possibilità di ricerca consentite dal sistema e il numero non elevatis-simo dei risultati, abbiamo considerato le occorrenze al completo di entrambi i tipi, mentre sulla BIZ 12 Nella tabella, “significato di partenza” indica il significato non grammaticalizzato, diacronicamente precedente, mentre “significato di arrivo” indica il significato grammaticalizzato, derivato dal significato di partenza. 13 L’OVI comprende i testi italiani antichi dalle Origini al 1375, per circa 23 milioni di tokens. Il corpus MIDIA (su cui cfr. D’Achille & Grossmann 2017) raccoglie circa 800 testi scritti in italiano, dall’inizio del XIII alla prima metà del XX secolo, ripartiti in cinque periodi temporali (1200-1375; 1376-1532; 1532-1691; 1692-1840; 1841-1947) e sette tipologie testuali (pro-sa letteraria; poesia; teatro, oratoria e mimesi dialogica; testi espositivi; testi scientifici; testi giuridici; testi personali), per un totale di circa 7,5 milioni di tokens. La BIZ, infine, contiene i testi integrali di oltre 1000 opere della letteratura italiana. Il riferimento a questi corpora ci esime dal fornire indicazioni estese sui testi e le edizioni utilizzate.

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abbiamo effettuato solo alcuni sondaggi, cercando BELLO in co-occorrenza con gli aggettivi risultanti dai dati raccolti negli altri corpora, diacronici e sincronici. 3.1 BELLO + nome Premesso a nomi comuni14, nelle attestazioni dell’OVI anteriori al 1300 BELLO fa riferimento a qualità di carattere estetico, riferendosi:

- a essere umani, maschi e soprattutto femmine (Raimbaut de Vaquieras, Ritmo di S. Alessio, Ele-gia giudeo-italiana, vari poeti della Scuola Siciliana, ecc.)15, ad angeli (Dante), nonché a gente (Bono Giam-boni);

- a parti del corpo umano (dito, Pietro da Bescapè; cilla, Jacopone; visaggio, Giacomo da Lentini; volto, Storie de Troia; occhi, Brunetto Latini) o al fisico nel complesso (fazone/fassione ‘fattezze’, Federico II, Guittone; ’spetto, Guittone; persona, Storie de Troia, ecc.);

- ad animali: agnels et moltons (Sermoni subalpini), oxegi ‘uccelli’ (Giacomino da Verona), cavagli (Bo-no Giamboni), palafreno (Tristano Riccardiano);

- a elementi naturali: erbe (Proverbia), herbeta (Bonvesin), prato (Brunetto Latini, Tristano Riccardia-no), albero (Tristano Riccardiano), flumo (Giacomino da Verona), stelle, foco e sole (S. Francesco), ariento (Pie-tro da Bescapè), preta ‘pietra’ (Storie de Troia), fonte (Bono Giamboni), ecc.; anche a tempo (Portolano march.), giorno e die (Storie de Troia);

- a termini generali come creatura, forma (Bono Giamboni), cas ‘caso’ (Bonvesin de la Riva), più tardi anche a cosa (Giordano da Pisa, 1306);

- a manufatti, costruzioni, ecc.: figura (di Cristo, Ritmo di S. Alessio), palas ‘palazzo’ (Sermoni subal-pini), çardini ‘giardini’ (Poes. sett.), coultra ‘coltre’ (Proverbia), vestimente (Uguccione da Lodi, Patecchio, Ugo da Perso, ecc.), pano ‘panno’ (Pietro da Bescapè), costume (Brunetto Latini), cavalcadhura (Uguccione da Lodi), (ad)ornamenti e drap (Bonvesin), çoie ‘gioielli’ (Pamphilus volg.), cohoperimento ‘copertura’ e corti (Mira-cole del Roma), spada, centura e opere de marmo (Storie de Troia), arnesi (Brunetto Latini), porticale, pali, tempio (Bono Giamboni), ecc.;

- a opere dell’ingegno e a loro qualità, specie con riferimento alla lingua: sermon (Pietro da Be-scapè), versi e concordanza (Bonvesin), çogi ‘giochi’ (Pamphilus volg.), parlamento ‘discorso’ (Storie de Troia), dimostramenti, brevetate, partenza, volgare (Brunetto Latini), canzoni (Egidio Romano volg.), favella, parole e salmi, parlatore, arringheria (Bono Giamboni), canto (Mare amoroso), istoria (Serventese Lambertazzi), ecc.;

- a forme di saluto e comportamenti umani: ingin ‘inchini’ (Bonvesin), commiato e acoglimento, pia-cimento e risa (Brunetto Latini), saluto (Guido Guinizzelli), ecc.16;

- al termine colore, di cui tratteremo a parte. Ma già tra le attestazioni duecentesche troviamo esempi come i seguenti, che, se si vuole inter-

pretare l’ampliamento dei valori semantici di BELLO come attributo di nomi in chiave di grammaticaliz-zazione, si possono considerare “contesti ponte” (II stadio di Heine 2002), nei quali è evidente il valore intensificativo dell’aggettivo17:

(1a) Oi De, quent bei guadhagni [O Dio, quanti bei guadagni!] (Bonvesin);

(1b) Ancora abbi paura / d’improntare a usura; / ma se ti pur convene / aver per spender bene, / prego che rende ivaccio, / ché non è bel procaccio / né piacevol convento / di diece render cento [“Guardati dal prendere in prestito a usura; ma se proprio hai bisogno di farlo per una

14 Superfluo segnalare che BELLO può precedere anche nomi propri. 15 In qualche caso BELLO precede un nome usato come allocutivo (belli segnor in Pietro da Bascapè, bel barattiere in Ruggieri Apugliese, bell’amico in Brunetto Latini, ecc.), e ha dunque il valore di ‘caro’ proprio del fr. beau (Marchello-Nizia 2006: 144) che, come vedremo, si ha anche, in analoghi contesti, prima di dolce e di qualche altro aggettivo. 16 Con altri nomi, come reggimenti ‘comportamenti’ (Bono Giamboni, Restoro d’Arezzo), contenemento ‘modo di comportarsi’ (Jacopo da Leona), asempi ‘esempio’ (Parafr. Decalogo), custumi (Andrea da Grosseto), gechimento ‘atto di umiltà’ e figura (Brunet-to Latini), ecc., l’aggettivo si riferisce all’etica, più che all’estetica. 17 Precisiamo che gli esempi tratti dai corpora diacronici, qui e in seguito, sono riportati in ordine cronologico.

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buona spesa, mi auguro che tu restituisca presto, perché non è un bel guadagno né un accordo conveniente, il dover rendere cento per dieci”] (Brunetto Latini);

(1c) il centurione è da eleggere con grande forza, e bella statura (Bono Giamboni);

(1d) Cesare fu di bella statura, ed esquisito e fastidioso negli ornamenti del corpo (Fatti di Cesa-re).

Anche in altre opere duecentesche in prosa e in poesia troviamo esempi di BELLO con questo

stesso significato, or più or meno distinto da quello originario; riportiamo solo alcuni esempi:

(2a) Bela possesïon è dona savia e neta, / a cui Deu dà la gracia c’al so servir la meta [“Bella proprietà è donna savia e linda per colui a cui Dio dà la grazia di metterla al suo servizio”] (Pa-tecchio); (2b) Plui me noia ancor […] / a bel mançar soça aver tovaia [“Mi disturba ancora di più avere una tovaglia sporca per un buon pasto”] (Ugo da Perso); (2c) Com quest è bel convivio, quent glorïos vivande [“Che bel banchetto questo, quante vi-vande prelibate!”] (Bonvesin); (2d) e cominciogli a dare le più belle cene e i più belli desinari del mondo (Brunetto Latini); (2e) ch’io gentil tengo quelli / che par che modo pilli / di grande valimento / e di bel nudri-mento (Brunetto Latini).

È notevole, infine, che già entro il Duecento si abbia qualche esempio di BELLO anteposto a

nomi i cui referenti sono connotati negativamente e difficilmente compatibili con il significato di par-tenza di BELLO; possiamo considerarli esempi del III stadio di Heine:

(3a) Allora il garzone, vegendo che dicere li convenia, pensò una molto bella buscia [‘bugia’] (Fiore di filosafi)18; (3b) E se per moglie v’avesse sposata, / non dubbiate ch’egli era uno bel farneccio [‘bordello’] (Rustico Filippi).

Come risulta dal corpus MIDIA, nel corso dei secoli BELLO si riferisce sempre più spesso anche

a nomi con i quali il valore quantitativo è l’unico possibile (capitale, conto, somma) e a nomi astratti, come onore, agio, coraggio, nonché a termini come scusa, scandalo, presunzione, porcheria, davanti ai quali l’aggettivo può essere inteso sia come intensificatore di un nome con connotazione negativa sia come focus modifier, a volte senza che si possa dirimere l’ambiguità tra le due funzioni (un bel pasticcio (4g) è sia ‘un gran pa-sticcio’ sia ‘proprio un pasticcio’). Ecco qualche contesto:

(4a) Oh, bello onore ce fai, gire a caval! (Baldassarre Olimpo degli Alessandri, Linguaccio); (4b) Lodo la vostra franchezza. In qualche altra persona potrebbe dirsi temerità, ma in un Ar-lecchino, il quale, come dite voi, deve far ridere, questa giovialità, questa intrepidezza è un bel capitale (Goldoni, Il teatro comico); (4c) Oh mi perdoni ! Mi tornerebbe un bel conto (ivi)19;

18 L’esempio figura anche in MIDIA, secondo un testo un po’ diverso: “Lora veggiendo il garzone che gli le convenia dicere, sì si pensò una bella busia”.

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(4d) Questa in sen potria talora / consigliarti un bello errore (Vincenzo Monti, Poesie); (4e) dalla potenza chimica / soffrì più bella offesa (ivi);

(4f) conteneva un bel fascio di biglietti, di cambialette e di “pagherò”, o di somiglianti (Lorenzo Da Ponte, Memorie); (4g) à mè sembra per altro, che sia un bel pasticcio (Maria Conti Belli, Lettere); (4h) E davvero sarebbe un bello scandalo per il Cattolicismo […] (Giuseppe Prezzolini, Cos’è il modernismo).

In conclusione, lo slittamento semantico di BELLO davanti a nomi verso il senso di ‘grande’ –

che peraltro non ha mai eclissato il valore originario dell’aggettivo, che è tuttora quello prevalente, tanto che il processo di grammaticalizzazione non arriva al IV stadio di Heine – si è certamente esteso nel corso dei secoli, ma è documentato già ab antiquo in testi duecenteschi, anteriormente quindi alla data-zione (av. 1363) fornita dal LEI. 3.2 BELLO + aggettivo Nel corpus OVI le occorrenze di BELLO + aggettivo sono meno numerose di quelle di BELLO + nome, ma comunque ben documentate.20 Si tratta però generalmente – a prescindere dalla presenza o meno della virgola, che potrebbe essere stata indebitamente inserita o omessa dagli editori moderni – di oc-correnze in cui i due (e spesso più) aggettivi sono evidentemente coordinati per asindeto. Eccone alcuni esempi:

(5a) Accilles fue bello, forte, bruno, e di corpo ben fatto, né grasso né magro, e maravilgliosa-mente fue buono chavalcatore (Distr. Troia); (5b) di catuno membro avrà speziale letizia, che ’l vedrà sano, incorruttibile, lucente, bello, sut-tile e che mmai non si potrà magagnare né avervi male (Giordano da Pisa); (5c) et è cotanto bella, splendente et adorna, / ognomo se meraveja de la soa persona (Legg. S. Caterina); (5d) Di quello Eson era nato un figliuolo, lo quale avea nome Iason, uomo forte e savio e gio-vane molto bello, largo, affabile, trattabile, pietoso e d’ogni costume ornato (Mazzeo Bellebuo-ni); (5e) e, al ponente, vidi valorosa / Zizzola Faccipecora andar suso, / leggiadra, bella, gaia e po-derosa (Boccaccio, Caccia di Diana); (5f) costui è bel, gentil, savio ed accorto, / che t’ama, e fresco più che giglio d’orto (Boccaccio, Filostrato); (5g) E benedico il tempo, l’anno e ’l mese, / il giorno, l’ora e ’l punto che costei / onesta, bella, leggiadra e cortese, / primieramente apparve agli occhi miei (Boccaccio, Filostrato);

19 Dai contesti risulta evidente che bel capitale vuol dire ‘grosso capitale’ (in precedenza nello stesso testo ricorre buon capitale) e bel conto significa ‘conto salato’ (quello che Ottavio pagherebbe invitando a pranzo Lelio, che, essendo poeta e comico, mangerebbe per due). 20 Diversamente dal tipo BELLO + nome, in questo caso abbiamo esaminato tutte le occorrenze, anche quelle del Trecento.

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(5h) o faccia bella, fresca e colorita (Boccaccio, Ninfale); (5i) Ma messer Tristano, essendo sì bello, prode, ricco e gentile, fue lo più disavventuroso cava-liere del mondo (Tavola ritonda).

Come si vede, in questi contesti BELLO è sovente il primo di una serie di aggettivi che descrivo-no caratteristiche fisiche o morali di una persona, o al massimo di una parte del corpo umano. Tra gli aggettivi coordinati con BELLO ricorrono in particolare tre categorie: 1) quasi-sinonimi di BELLO, quali LEGGIADRO, GRAZIOSO, VAGO, PIACEVOLE, ecc.; 2) aggettivi che si riferiscono a qualità di tipo morale (forse classificabili come “human propensity adjectives” nella discussa tipologia di Dixon 1982) positi-vamente valutate, quali ACCORTO, AFFIDABILE, CORTESE, DISCRETO, GAIO, GENTILE, INCORRUTTIBILE, INTENDEVOLE, MAGNANIMO, ONESTO, PIETOSO, PRODE, SAGGIO, SAVIO, TRATTABILE, VIRTUOSO; 3) aggettivi che si riferiscono a caratteristiche fisiche (“physical property adjectives” di Dixon 1982), anch’esse positivamente valutate: ADORNO, DELICATO, FORTE, FRESCO, LUCENTE, PODEROSO, POSSEN-TE, SANO, SOTTILE, SPLENDENTE. In questo stadio iniziale è evidente che gli aggettivi che sono coordi-nati a BELLO esprimono qualità valutate positivamente dal parlante. Ci sono però alcuni esempi più interessanti dal nostro punto di vista. Anzitutto, il tipo costituito da BELLO anteposto a DOLCE in formule allocutive come bel dolce amico (la più frequente)21, bel dolce frate (Guittone, Zucchero Bencivenni)/bel dolce fratello (Binduccio dello Scelto), bel dolço fiiol (Giacomino da Verona)/bel dolce figliuolo (Binduccio dello Scelto), bello dolze maestro (Tristano Riccardiano), bella dolcie donna mia (Libro dei Sette Savi), bel dolce padre (Zucchero Bencivenni, Bin-duccio dello Scelto), bel dolço conpagnon (Giudizio universale), bel dolce sire (Binduccio dello Scelto), bel dolce cognato (Storia San Gradale), bel dolce nipote (Armannino), ecc. 22 Il fatto che la struttura sia limitata all’allocutivo e che nei corpora posteriori da noi considerati non risulti alcuna attestazione di bello dolce (oggi possibile, nel senso di ‘molto dolce’, riferito a bevande, alimenti, ecc.)23 fa escludere che sia questa sequenza alla base del valore di BELLO da noi studiato. Si deve però rilevare che il corpus OVI fornisce alcuni esempi di dolcissimo amico e sim. nello stesso contesto allocutivo.24 Ci sono poi alcuni (rari) casi in cui la sequenza BELLO + aggettivo si potrebbe interpretare alla luce del significato odierno del costrutto; si tratterebbe però di un’indebita forzatura perché l’interpretazione in chiave di coordinazione è sicura o comunque molto probabile:

(6a) A certa legge osservar le facelle, / Sì che la luna per te si governa, / Che ora chiara con le corne belle / Piene di fiamme al fratello opposta, / Faccia col lume suo minor le stelle (Alber-to della Piagentina)25; (6b) aduce una bella onesta scusa (Ottimo Commento)26;

21 È evidente il rapporto con l’uso di bello nel senso di ‘caro’ in allocuzioni citato nella nota 15. La formula, di più che proba-bile provenienza d’Oltralpe, si trova in vari testi (Guittone, Tesoro volgarizzato, Conti morali, Binduccio dello Scelto, Boccaccio) anche in molteplici varianti: bel dolcie amico/bel dolse amico e bel dolce amico e frate (Guittone), bello dolce amico (Tristano Riccardiano, Binduccio dello Scelto), bello tradolce amico mio (Tristano Riccardiano), bello dolcie amico e fratello (Libro dei Sette Savi), bel dolç’ amigo (Giudizio universale), bel tredolce amigo (Storia San Gradale), bello dolce amigo e bello dolce signor et amigo (Tristano Veneto); anche al femminile: bella dolce amic(h)a (Bestiario d’amore, Binduccio dello Scelto, Diretano bando), bella dolcissima amica (Diretano bando) e anche, a dispetto della virgola inserita dall’editore, bella, dolce amiga (Tristano Veneto). 22 In un solo caso subito dopo dolce c’è un nome proprio (Bella dolce Polissena, Binduccio dello Scelto); due esempi presentano caro invece di dolce: bel caro mio (Guittone), bel caro cugino (Matteo Villani). 23 C’è solo un esempio petrarchesco di bel dolce soave, riportato sotto, nella nota 34. 24 Ecco qualche esempio: “Et oi, dolcissimo patre meo” (Pietro da Bescapè); “O dolcissimo mio fillo” (Poes. ant. urb.); “Dol-cissima moglie” (Andrea Cappellano volg.); “o dolcissima madre” (Cavalca, Specchio di croce); “io perduta te, dolcissima ami-ca!” (Boccaccio, Filocolo); “E però vi dico, bella e dolcissima amica” (Diretano bando). 25 L’enjambement sarebbe teoricamente possibile, ma ci sono altre occorrenze di bello riferito a corno/corni/corna e quindi belle è con la massima probabilità da interpretare come coordinato a piene e non suo modificatore. 26 La presenza dell’espressione bella scusa in Giordano da Pisa guida a interpretare bella come attributo del nome e non come modificatore dell’aggettivo onesta, a cui è da ritenersi coordinato.

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(6c) e disse le più alte e gran parole / e le più belle efficaci ragioni / che mai s’udisser dire; un-de ne dole (Neri Pagliaresi).27

Più interessanti i due esempi seguenti, in cui BELLO è premesso ad aggettivi semanticamente lontani dal valore estetico, tanto che potrebbero essere considerati contesti di innesco (o “contesti pon-te”, II stadio di Heine), dove la coordinazione può essere reinterpretata come modificazione:

(7a) La Madalena dentro giendo, / sì se misse molto corendo; / non la tene nullo capestro, / et fo derietro dal maiestro, / portando uno bosilio bello oloso / pino d’unguento pretïoso. / Lo [n]guento prese per amore, / onse lo capo del Signore (Passione cod. V.E. 477, metà sec. XIV)28; (7b) E da ch’eli fo fuora, elo li vestì e de’-li indoso una peliza bela nuova a ziascun e puo’ li comandà ch’eli devese lavorar e viver de lo so sudor e de le suo fadige da mo’ inanti (San Bren-dano ven., sec. XIV).

In (7a), anche se è molto probabile che il senso sia ‘vasetto bello, odoroso’, non si può escludere del tutto la lettura ‘vasetto assai odoroso’; in (7b) la pelliccia potrebbe essere bella e nuova al tempo stes-so29, ma l’interpretazione di bella come rafforzativo di nuova non è impossibile. I sondaggi effettuati sulla BIZ hanno consentito di raccogliere vari esempi di BELLO + aggetti-vo, ma quelli anteriori al Novecento rientrano tutti nella coordinazione, a parte rari casi.30 Anche nel corpus MIDIA abbiano trovato pochissime occorrenze, oltre ad alcuni casi dubbi, della sequenza BEL-LO + aggettivo con il valore da noi studiato (o comunque così interpretabili). In alcune occorrenze l’aggettivo che segue BELLO indica un colore e ne tratteremo a parte (§ 3.3). Questi gli esempi raccolti nei due corpora, in ordine cronologico:

(8a) Sognavo ch’appress’un fiume sedeva del qual uscivan sette vacche belle grasse (La rappre-sentazione di Josef, di Jacob e de’ fratelli, sec. XV); (8b) non curar se li fructi non son belli grossi ma che habiano pochi semi (Antonino Venuto, De Agricultura opusculum, 1516); (8c) Maestro Andrea m’avea fatto cortigiano con le forme e il demonio mi guastò, poi mi rac-conciai, poi guastai, poi mi racconciò maestro Andrea, e rifatto che io fui bello galante come vedete, andai in casa de la signora Camilla, perché ci potea andare, ci potea, perché son cortigia-no, sono (Pietro Aretino, Cortigiana, 1534)31; (8d) guidando il suo cavallo da sé, vegeto, bello robusto, e guarito affatto da una malattia (Giu-seppe Giochino Belli, Lettere, 1816); (8e) Angela era ferma al suo posto; cogli occhi piccoli e mezzi chiusi, perché la stanza le girava intorno, beveva dell’acqua fresca, e s’era ficcata nelle corna che sua madre andasse in cerca di Battistina e gliela portasse lì bella calda (Remigio Zena, In bocca del lupo, 1892); (8f) Marinetta era diventata bella grassa che faceva piacere a vederla (ivi);

27 L’espressione belle ragioni ha ben 41 attestazioni nel corpus OVI ed è dunque da ipotizzare che nel passo in questione i due aggettivi siano coordinati asindeticamente. 28 Sia bosilio ‘vasetto’ (< lat. buxis ‘vaso’), sia oloso ‘odoroso’ (da olere ‘olezzare’) sono hapax. 29 Il corpus OVI offre vari esempi di BELLO coordinato (con e) a NUOVO. 30 Più consistente nei testi contenuti nella BIZ la documentazione novecentesca del nostro tipo, che comprende numerosi esempi pirandelliani, soprattutto di bello grosso, ma anche passi come: “un panciotto bello largo e lungo”; “così bello grasso, voglio dire in salute”. 31 BIZ data il testo al 1526; il passo si legge in realtà nell’ed. del 1534. Galante vale ‘elegante’.

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(8g) Le carrozze volavano e lì sui cuscini belli larghi, con quell’arietta, con tante cose da vede-re, ci si stava d’incanto (ivi); (8h) il dottore di Pellio ch’è bello grosso e pesa un mucchio (Fogazzaro, Piccolo mondo antico, 1895).

In vari contesti BELLO precede un aggettivo che indica grande dimensione fisica, per lo più posi-tivamente valutata (è del resto questo, come vedremo, il tipo che anche nell’attuale sincronia risulta quello più diffuso).32 In (8a) e (8b), per la verità, l’interpretazione di belle grasse e belli grossi come coppie di aggettivi coordinati è senz’altro ammissibile, ma certo la lettura alternativa (cioè ‘piuttosto grasse’, ‘abbastanza grossi’) è ugualmente possibile. Qualche margine d’incertezza interpretativa presenta anche (8c).33 Più sicuro, invece, sembra il valore intensificativo di BELLO nella lettera del Belli (8d), che è data-ta 1816, ed è dunque anteriore di oltre un cinquantennio all’esempio del Nieri riportato nel GDLI. 3.3 BELLO + COLORE, BELLO + termine di colore Dedichiamo una trattazione specifica ai contesti in cui BELLO precede COLORE oppure un termine di colore, con valore nominale o aggettivale. Lo facciamo non solo in onore di Maria, grande studiosa dei termini di colore (cfr. almeno Grossmann 1988), ma anche perché il tipo merita un’attenzione partico-lare. Nel corpus OVI la sequenza BELLO + COLORE ha numerose attestazioni, sia quando COLORE ha il senso proprio (e dunque bel(lo) colore indica un colore che appare gradevole al parlante), sia quando significa ‘colorito’ della pelle oppure, seguito da retorico, indica un ‘ornamento poetico’. Ecco alcuni dei numerosi esempi raccolti:

(9a) Questo è bello colore rettorico (Brunetto Latini); (9b) eo sont d’un bel color (Bonvesin, Disputatio rose cum viola); (9c) una stella sola, grossa, colorita d’uno bello colore chiaro e lucente (Restoro d’Arezzo); (9d) sed elli ànno bel colore, cioè rosso o giallo o pallido (Egidio Romano volg.); (9e) E se dilettare si vuole in vedere belle cose, quivi sono tutti i begli colori e tutte le belle forme e tutte le chiare luci (Bono Giamboni); (9f) ànno facta lor raxone multo polita, e multo l’àn vestita del bel colore (Matteo dei Libri); (9g) si non ci hai più adornanza, / ià non ce parrai bella; / nell’altre vertute avanza, / che te dian bel colore (Jacopone); (9h) l’uomo vede l’aria chiara e pura, e di bel colore (Tesoro volg.); (9i) lo loto non è bello ma sosso quando altra bellessa vi fusse mesculata, sì come fusse uno bel-lo colore che fusse messo indel loto (Giordano da Pisa); (9l) più bel colore di scarlatto si dà nella lana d’Inghilterra, che in quella di Campagna o d’Italia (Andrea Cappellano volg.);

32 Cfr. anche gli esempi pirandelliani riportati nella nota 30. 33 Abbiamo verificato l’assenza della virgola nell’ed. del 1534 della Cortigiana, oltre che nelle edizioni recenti (che non forni-scono commenti sul valore di bello).

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(9m) così mi fere la sua luce adesso / e ’l bel color de’ biondi capei crespi (Cino da Pistoia); (9n) il giglio, per soverchio sole / casca ed appassa, e ’l bel color cangiato / pallido fassi (Boc-caccio, Filostrato); (9o) Che bel color è ’l perso - e ’l verde bruno! (Petrarca, Disperse e attribuite); (9p) dona grande pesanza al corpo dell’uomo, e grava lo cuore, e si gli fae mutare lo suo bello colore, e fallo diventare palido (Libro di Sidrach); (9q) questa è pietra verde; e così à toccato l’autore tutti li più belli colori che si trovino; cioè giallo, bianco con splendore, bianco puro, vermillio, azurro, lucido, puro e verde (Francesco da Buti, Purg.).

Anche nei secoli successivi, la sequenza BELLO + COLORE è ben attestata, come dimostrano le occorrenze reperite in MIDIA e BIZ. Ne riportiamo solo alcune:

(10a) Tristo a chi si confida in bel colore che dalla sera alla maitina perde! (Poliziano, Rime); (10b) Cholui che vuole fare bel colore in la faça beva spese fià del sugo de l’isopo fresco e de-venderà belissimo (Antonio Guarnerio, Volgarizzamento De viribus herbarum di Macer Floridus); (10c) E ancora è bel colore mettendovi entro l’azzurro della Magna (Cennino Cennini, Libro dell’arte). In alcuni casi, già dal Trecento, dopo COLORE si ha l’aggettivo che lo precisa: (11a) non d’altro, me chiede: / el bel color rosato, ch’el possède, / vermeglio e bianco (Neri Moscoli, Rime); (11b) ti lascia ancora il bel color vermiglio (Marino, Adone); (11c) Il sig. Thénard fece conoscere una preparazione di cobalto che può essere sostituito all’oltremare nella maggior parte de’ suoi usi, e a miglior prezzo. Il sig. Dumont perfezionò que-sta scoperta, e somministra in oggi il bel colore turchino a tutti i pittori di porcellana (Il Conci-liatore); (11d) Il mare era mosso, ma d’un bel colore azzurro, e il tempo chiaro (De Amicis, Sull’Oceano); (11e) La vernice è intatta e ricca, d’un bel colore rossobruno che lascia trasparire l’oro del fon-do (D’Annunzio, Notturno).

Esempi come questi ultimi sembrano alla base di quelli in cui BELLO precede un termine di co-lore con valore nominale, per indicare, più che la bellezza, la saturazione, cioè l’intensità cromatica, che costituisce una delle tre variabili psicosensoriali del colore, accanto alla tonalità e alla luminosità (Gross-mann 1988). Le attestazioni in italiano antico sono rarissime:

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(12a) Ma l’ora e ’l giorno ch’io le luci apersi / nel bel nero et nel biancho / che mi scacciâr di là dove Amor corse (Petrarca, RVF)34; (12b) El bel vermiglio in su le bianche go[l]te / come rubino e perne orïentale / fando ben sentir quale / fo ’l vigor de colui che ’nfiammò Dido (Antonio da Ferrara). Consistente, invece, la documentazione posteriore, di cui diamo solo una sommaria campiona-

tura. Gli esempi riguardano soprattutto VERDE (che spesso però ha il valore di ‘zona coperta di vegeta-zione’) e VERMIGLIO, ma abbiamo anche casi isolati per AZZURRO, BIANCO, GIALLO, NEGRO:

(13a) poco d’azzurro della Magna e giallorino, fa bel verde (Cennino Cennini, Libro dell’arte); (13b) di quello agresto metterne quattro o sei gocciole sopra il detto azzurro; ed è un bel verde (ivi); (13c) Verderame e aloe, o fiele, o curcuma, fa bel verde (Leonardo da Vinci, Il mondo e le acque); (13d) dele dolci labra il bel vermiglio (Marino, Adone); (13e) Qual robusto castagno o pino alpino / del celeste centauro ai primi orgogli, / s’avien che del bel verde ostro o garbino, / la folta chioma e le gran braccia spogli (ivi); (13f) Col bel negro, onde si tingono, / col bel bianco, onde si cingono / le pupille ond’io morì (Chiabrera, Le Maniere dei versi toscani); (13g) E se nel volto mio non si diffonde / quel bel vermiglio che la guancia tinge (Parini, Poe-sie); (13h) Mentre al buio pensier tornano e fremono / i bei verdi del Potter e di Hobbèma (Gio-vanni Camerana, Versi); (13i) colorirà del suo bell’azzurro questo cielo (Verga, Eva).

In esempi più recenti il termine di colore può essere modificato da un ulteriore attributo post-nominale:

(14a) ed aveva la pelle di un bel rosso abbronzato (Faldella, Le figurine, 1875); (14b) Nel cielo d’un bell’azzurro dolce (Camillo Boito, Nuove storielle vane, 1883); (14c) vela dipinta d’un bel rosso arancione (Pirandello, La nuova colonia, 1928).

Passiamo ora agli esempi in cui il termine di colore è un aggettivo e il BELLO precedente sembra non essere semplicemente ad esso coordinato, ma avere il valore di intensificatore, con riferimento alla saturazione. Esempi di questo tipo si hanno già nel corpus OVI:

34 Il “bel nero” sono gli occhi di Laura (e il “bianco” è il suo volto). Del Petrarca si considerino anche i seguenti esempi: “al-cuna volta / soavemente tra ’l bel nero e ’l biancho / volgete il lume in cui Amor si trastulla” (RVF); “Né mortal vista mai luce divina / vinse, come la mia quel raggio altero / del bel dolce soave bianco et nero” (RVF); “Amor dal bel viso lucente / si fa mia scorta et infallibil segno, / mostrandose nel bel nero et nel bianco” (Frammenti e rime extravaganti).

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(15a) Herba non v’ha, né frutti che smarriti / teman dell’autunno, ma tuttora / con frutti e frondi be’ verdi e fioriti / ivi dimoran, né mai si scolora / prato, ma bel di variati fiori / la state e ’l verno sempre vi dimora (Boccaccio, Amorosa visione); (15b) Guai averete, seguendo il vostro uxo, / et simigliarve potete a’ sepulcri, / gli quali aperto no ànno alcun pertuxo, / ma de fori par begli blanchi et pulcri / a color che gli vede, et dem-tro è d’osse / de morti pleni sum et d’altri spulcri (Gradenigo, Quatro Evangelii).

Tra gli esempi posteriori raccolti in MIDIA e BIZ, in molti casi l’interpretazione di BELLO come coordinato all’aggettivo seguente sembra quella preferibile (a prescindere dalla presenza o meno della virgola) e, anche per motivi di spazio, li tralasciamo. Riportiamo invece i tre casi in cui il valore intensi-ficatore di BELLO risulta sicuro: il primo (16a), notevole per l’alta cronologia, è di Leonardo da Vinci; il secondo (16b), molto più recente, è poco posteriore a quello belliano riportato in (8d); il terzo (16c), tardo-ottocentesco, presenta un troncamento che oggi, come detto al § 1.2, sarebbe impossibile35:

(16a) Se volli fare colore bello azzurro, risolvi lo smalto fatto col tartaro (Leonardo da Vinci, Volo d’uccelli, 1502)36; (16b) Fammi il piacere di farmi prendere due once di Manna Cannellata che sia bella bianca (Teresa Pikler, Lettere alla figlia, 1832); (16c) il commendator Renacchi, bel rosso in faccia (Emilio De Marchi, Demetrio Pianelli, 1890).

Sulla base della documentazione presentata, non sembra dunque azzardato ricostruire la seguen-te trafila: bel colore azzurro > bell’azzurro > bello azzurro. Certo, è più probabile interpretare bello azzurro all’interno del tipo BELLO + aggettivo. Però l’esempio leonardesco (16a) in cui il nuovo valore di BELLO è certo, è di poco posteriore a (8a), dove tale valore non è sicuro. Potrebbe quindi, a rigore, essere il più antico finora documentato, e questo potrebbe anche far ipotizzare che la grammaticalizzazione di BEL-LO sia partita proprio dai colori. In ogni caso, poiché nei termini di colore le conversioni sono frequen-ti, sia per i colori primari, nati come aggettivi (Grossmann 1988), sia per quelli secondari, nati come so-stantivi (Thornton 2004: 529-530), almeno sul piano teorico la grammaticalizzazione di BELLO in questi contesti potrebbe essere parallela ma indipendente da quella degli altri aggettivi. 4. BELLO + aggettivo in italiano contemporaneo Per avere una visione dell’uso del tipo BELLO + aggettivo nell’italiano contemporaneo, abbiamo analiz-zato le sue occorrenze nel corpus la Repubblica 1985-2000, nel corpus LIP, e nel PTLLIN.37 Nel corpus la Repubblica si hanno 1231 occorrenze di BELLO seguito da una forma lemmatizzata come aggettivo; in oltre 250 casi, BELLO ha il valore di intensificatore. Nel corpus LIP si hanno 375 occorrenze di BELLO (in qualunque contesto), delle quali meno di 10 rientrano nel tipo che ci interessa. Del corpus PTLLIN

35 Tra gli esempi con troncamento, un posto a sé merita bel verde nella locuzione ugel bel verde, che ha varie occorrenze in Stra-parola (Le piacevoli notti, 1553), o un bel verde Augellino (G.B. Zappi, Poesie, 1719). A prescindere dall’interpretazione, in questo caso si è poi avuta l’univerbazione e quindi la lessicalizzazione: L’augellino belverde è una delle Fiabe di Carlo Gozzi (1765) e il GRADIT registra l’aggettivo BELVERDE (datato 1951) solo nella locuzione uccellino belverde ‘martin pescatore’. 36 Si noti che il testo presenta colore bello azzurro e non bel colore azzurro, come negli esempi in (11a-e). 37 Il corpus la Repubblica raccoglie i testi del quotidiano dal 1985 al 2000, per circa 380 milioni di tokens (compresa la punteg-giatura; una stima del numero di occorrenze esclusi i segni di interpunzione, dovuta a Davide Ricca, è di circa 330 milioni); il LIP comprende testi di diversi tipi di parlato registrati nel periodo 1990-1992 a Milano, Firenze, Roma e Napoli, per circa 500.000 tokens; il PTTLIN è costituito dai romanzi vincitori del Premio Strega e da altre opere di narrativa edite tra il 1947 e il 2006, per un’estensione di 8.076.576 tokens. Nel corpus la Repubblica abbiamo richiesto le sequenze costituite da ciascuna forma di BELLO seguita da [pos = “ADJ”]. Dato che, come è noto, la lemmatizzazione automatica ha un margine di errore, possono essere sfuggiti alcuni contesti utili, ma il quadro che è emerso ci appare sufficiente per i nostri scopi. Le forme del corpus LIP sono state estratte manualmente tramite BADIP.

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si è fatto un uso soprattutto qualitativo: si è proceduto allo spoglio completo delle occorrenze dei plura-li belli e belle; per i singolari bello e bella sono state prima cercate (mediante lo strumento di ricerca avan-zata) tutte le combinazioni risultanti dai corpora diacronici e dal corpus la Repubblica e poi sono state prese in considerazione le opere in cui dal sondaggio precedente e da quello sui plurali risultava che il tipo era presente. Nel corpus la Repubblica, BELLO intensifica oltre 100 aggettivi diversi:

ABBONDANTE, AGGRESSIVO, ALLEGRO, ALTO, APERTO, ASCIUTTO, ATLETICO, AUSTERO, AUTOREVO-LE, BALDANZOSO, BIANCO, BLU, CALDO, CAPACE, CAPIENTE, CARICO, CARNOSO, CHIARO, CHIUSO, CLASSICO, COLORATO, COMPATTO, CONTATO, DEMAGOGICO, DENSO, DIROCCATO, DISTANTE, DI-VERTITO, DRITTO, DURO, ELEGANTE, EVIDENTE, FERMO, FITTO, FORTE, FRESCO, GONFIO, GRANDE, GRASSO, GRASSOCCIO, GROSSO, ILLUMINATO, IMPRECISO, INTENSO, LARGO, LEGGERO, LIMPIDO, LIN-DO, LISCIO, LONTANO, LUCIDO, LUNGO, LUSTRO, MAIUSCOLO, MANSUETO, NERO, NETTO, NUDO, NUOVO, PAFFUTO, PATINATO, PESANTE, PIENO, POLPOSO, PONDEROSO, PRECISO, PROFONDO, PRO-GRESSIVO, PRONTO, PULITO, PUNTUTO, QUADRATO, RICCIOLUTO, RICCO, RIPOSATO, ROBUSTO, ROS-SO, ROTONDO, RUVIDO, SALATO, SANGUINANTE, SANO, SAZIO, SCHIUMOSO, SCONTATO, SERENO, SO-LIDO, SOSTANZIOSO, TESO, TONDO, TOSTO, TRANQUILLO, UNITO, UTILE, VARIO, VELOCE, VIOLENTO, VISPO, VIVACE, VIVO, VUOTO, ZITTO, ZUPPO.

Di questi ben 67 hanno una sola occorrenza in contesti intensificati da BELLO; gli aggettivi che hanno frequenza maggiore o uguale a 5 come Intensivanda da parte di BELLO coprono circa la metà delle occorrenze del tipo nel corpus, e sono i seguenti, in ordine di frequenza decrescente: GROSSO 24, FRE-SCO 18, TRANQUILLO 16, GRANDE 14, PRONTO 9, CHIARO 8, CALDO 7, LARGO 7, PIENO 7, TOSTO 7, FOR-TE 6, ALTO 5, LUNGO 5.38 La Figura 1 rappresenta visivamente la frequenza dei diversi aggettivi intensificati da bello nel corpus la Repubblica. Tutte le classi semantiche di aggettivi della tipologia di Dixon sono presenti, ma le più rappresentate sono Dimension, Physical property e Human propensity. Queste ultime due erano già ben rappresentate negli usi di partenza di BELLO seguito da un aggettivo (cfr. supra § 3.2), mentre l’uso con aggettivi di dimensione sembra una novità rispetto agli usi di partenza di BELLO + aggettivo. Si noti poi che i due aggettivi di dimensione GROSSO e GRANDE sono tra i più frequenti tra quelli intensificati da BELLO nel corpus la Repubblica.

38 Si tratta per lo più di aggettivi di alta frequenza. Tra quelli che hanno 5 o più occorrenze come intensificati da BELLO nel corpus la Repubblica, tutti tranne TOSTO hanno un rango d’uso compreso entro i primi 2000 lemmi in ordine di uso nel LIP; la maggior parte (62%) degli Intensivanda attestati nel corpus la Repubblica appare nel LIP, e quindi appartiene al lessico italia-no di maggior uso; anche tra gli Intensivanda che appaiono come hapax nel corpus la Repubblica, oltre la metà (53,7%) sono presenti nel LIP.

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FIGURA1:RappresentazionegraficadellafrequenzadeidiversiaggettiviintensificatidabellonelcorpuslaRepubblica:

Un’interpretazione complessiva dell’uso di BELLO come intensificatore di aggettivi nell’italiano contemporaneo, basata sui dati estratti dai corpora analizzati, verrà proposta nel prossimo paragrafo. 5. BELLO + aggettivo come caso di grammaticalizzazione Valuteremo ora lo sviluppo del valore di intensificatore nella costruzione BELLO + aggettivo in italiano alla luce di quanto è noto sui fenomeni di grammaticalizzazione. Analizzeremo la presenza o meno delle diverse caratteristiche elencate da Hopper & Traugott (1993) e già illustrate nel § 2.1.

a) Il cambiamento ha luogo solo in contesti molto specifici. I contesti specifici nei quali può essersi innescato il cambiamento sono quelli in cui BELLO è se-guito da un altro aggettivo che esprime qualità valutate positivamente dal parlante. Un esempio è dato dal contesto in (17) [= (8a)]:

(17) Sognavo ch’appress’un fiume sedeva del qual uscivan sette vacche belle grasse (La rappre-sentazione di Josef, di Jacob e de’ fratelli, sec. XV).

Le vacche possono essere belle e grasse, ma anche “belle grasse”, cioè piuttosto grasse. In que-sto contesto, la proprietà dimensionale ‘grasso’ è valutata positivamente: una vacca grassa è preferibile (come fonte di cibo, e/o di reddito) a una magra. Gli esempi per i quali è possibile una duplice lettura non si estinguono neanche dopo che la grammaticalizzazione è avanzata:

(18) arrivano insieme, tutti belli abbronzati e incravattati, con la giacca sulla spalla (Sandro Ve-ronesi, Caos calmo, 2006).

In (18) solo l’assenza della virgola fa propendere per un’analisi in cui belli intensifica abbronzati, invece che predicare un’ulteriore proprietà dei due personaggi che arrivano, che potrebbero anche esse-re descritti come incravattati, abbronzati e belli. Nell’analisi dei testi contenuti nel corpus di italiano parlato del LIP, la lettura della trascrizione (sulla base della quale si sono individuate le occorrenze di BELLO, tramite le opzioni di ricerca presenti nel sito BADIP) lascia in dubbio su quale sia il valore di BELLO in casi come (19) e (20):

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(19) c’ho anche il quaranta denari guarda bello elasticizzato $ $ bello quando lo metti sulla gamba setificato semiopaco cinquemila lire (F E 2 101 Z). (20) attenzione ha anche la predisposizione per il microfono e per la cuffia ha due casse belle grandi robuste per ascoltare la musica in maniera professionale (N E 10 1 A).

L’ascolto del file audio, reso possibile dal VoLIP, permette di riconoscere che in (19) bello inten-sifica elasticizzato, mentre in (20) le casse sono descritte come belle, grandi e robuste, e BELLO occorre nel suo significato di partenza, non come intensificatore.39

b) Il cambiamento è reso possibile dall’esistenza di un’inferenza dal valore semantico di parten-za a quello di arrivo. In questo caso si ha inferenza dal valore ‘di aspetto gradevole’ a quello ‘in alto grado’. Nel World Lexicon of Grammaticalization, Heine & Kuteva (2002) elencano alcuni casi di ricorrente cambiamento semantico da significati di carattere più concreto / lessicale a significati di carattere più astratto / grammaticale. Tra i significati di aggettivi che tipicamente sono fonte di intensificatori indica-no TRUE (esempio principe è fr. vrai ‘vero’ > ingl. very ‘molto’) e BAD (esemplificato con usi dell’inglese e del tedesco come I need it badly ‘ne ho molto bisogno’, Der Pudding schmeckt furchtbar gut ‘il dolce è terribilmente buono’, Heine & Kuteva 2002: 50), ma non un aggettivo che abbia il senso prima-rio di ‘di aspetto gradevole’. Tuttavia, un caso di grammaticalizzazione di un aggettivo del genere come intensificatore è attestato in inglese, dove PRETTY è oggi usato come intensificatore che esprime un gra-do intermedio di possesso di una certa qualità (moderator nella terminologia adottata da Wittouck 2010-2011, che presenta un’analisi dell’uso di PRETTY, VERY e DAMN come intensificatori in corpora di inglese bri-tannico e americano contemporaneo; cfr. anche un altro moderator inglese, FAIRLY, derivato da FAIR, che in-clude tra i suoi significati quello di ‘bello’). La peculiarità di it. BELLO rispetto a PRETTY (e FAIRLY) è che BELLO non è un moderator, ma piuttosto un booster, cioè esprime il possesso di una qualità in grado alto, superiore alla media. I contesti che hanno permesso il passaggio di BELLO da aggettivo qualificativo a intensificatore sembrano essere stati, sia nel caso di BELLO + nome che nel caso di BELLO + aggettivo, contesti nei quali la quantità o dimensione abbondante della proprietà designata dal nome o dall’aggettivo è valutata positiva-mente dal parlante. I primi contesti in cui BELLO assume valore di intensificatore davanti a un nome presentano una componente dimensionale. Bei guadagni, bella statura, bella cena e simili (cfr. supra § 3.1, ess. (1) e (2)) sono valutati positivamente in quanto abbondanti, di entità superiore alla media per quantità: si ha un bel guadagno se si guadagna molto, una bella statura se si è piuttosto o molto alti, una bella cena è una cena abbondante. Anche i primi contesti in cui BELLO è interpretabile come intensificatore di un altro aggettivo (cfr. supra § 3.2, ess. (7a-b)) presentano questa caratteristica: se essere oloso ‘odoroso’ è una caratteristica po-sitiva, più qualcosa è oloso e meglio è, dunque bello oloso può essere interpretato come ‘molto oloso’; così se una pelliccia più è nuova più è bella, una pelliccia bella nuova è ‘molto nuova’; si è già detto dell’interpretazione di vacche belle grasse; anche bello azzurro in (16a) indica un ‘azzurro acceso’ valutato positi-vamente, per l’alto grado di saturazione, rispetto ad azzurro pallido, azzurro smorto. Ci pare che siano i contesti di questo tipo a funzionare da contesti ponte nel senso di Heine, contesti nei quali BELLO può avere ancora il suo valore originario, ma per motivi pragmatici è interpre-tato più facilmente come intensificatore.

c) Il cambiamento implica una rianalisi di una sequenza di parole. Quando BELLO è usato come intensificatore di un aggettivo che lo segue, una sequenza di due aggettivi coordinati è rianalizzata come una sequenza di specificatore + testa, dove BELLO ha la funzio-ne di specificatore e il secondo aggettivo quella di testa. Poiché gli specificatori all’interno di un SA so-

39 Sulla prosodia come unico fattore di discriminazione tra analisi sintattiche alternative di una stessa sequenza di parole si veda Voghera (in prep.).

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no tipicamente avverbi, BELLO viene rianalizzato come avverbio (anche se la transcategorizzazione da aggettivo ad avverbio non è completa, dato che BELLO anche quando è usato come intensificatore con-corda in genere e numero con la testa che specifica, mentre gli avverbi in italiano sono tipicamente in-variabili; si ricordi che Rainer (1983) parla di alcuni intensificatori come kongruierende Adverbien).

d) La rianalisi diviene apparente quando si ha un’estensione dell’uso dell’elemento che ha muta-to valore a contesti in cui non sarebbe potuto occorrere nel suo valore originario. Illustriamo ora numerosi contesti in cui BELLO non significa ‘che ha un aspetto gradevole, che corrisponde a canoni estetici o artistici’. Qualche esempio del genere è stato già incontrato nei corpora diacronici: è il caso di bello grosso in (8h), che sottolinea non certo positivamente la pinguedine del dotto-re40; e si veda anche belli súdici in Ildefonso Nieri (cfr. nota 9). Nei due contesti pasoliniani (21a e b) bella intensifica aggettivi che esprimono caratteristiche va-lutate negativamente, che descrivono persone o cose che non corrispondono affatto ai canoni estetici:

(21a) Dietro questa porticina c’era un ufficio, con una caposala bella incarcata, più larga che lunga, con gli occhi da burina (Pier Paolo Pasolini, Una vita violenta, 1959); (21b) venivano avanti a passo di marcetta, coi mastelli in mano: mastelli, bagnarole, secchi. Tutti erano pieni d’una ciufega gialla scura, bella impolmonita41 (ivi).

Nei due esempi (22a e b) possiamo osservare un contrasto nel valore di BELLO preposto a uno stesso aggettivo, FORTE. In (22a), anche se la punteggiatura fa propendere per il valore di intensificato-re, non si può escludere che bella abbia anche il valore di partenza: una ragazza può essere contempora-neamente grande, bella e forte; in (22b) invece non sembra naturale definire “bello” un caffè, e bello forte si interpreta più naturalmente come ‘piuttosto forte, molto forte’; si noti anche che in (22b) bello forte è virgolettato nel testo, forse proprio per accentuare l’interpretazione dell’espressione come unità invece che come sequenza di due aggettivi coordinati, o perché l’autore sente l’espressione come tipica del par-lato, quasi una citazione di discorso diretto all’interno di una sequenza in discorso indiretto42:

(22a) “Vita non mi posso lamentare come sta crescendo, tiene carattere vivace, allegra come il sole, s’è fatta grande, bella forte” (Melania Gaia Mazzucco, Vita, 2003); (22b) Mia madre e mia sorella lo interrompevano solo per dire che sì, che aveva proprio ragio-ne, o per chiedergli se il pranzo era andato bene, se voleva un altro bigné, se il caffè era “bello forte” come piaceva a lui (Giuseppe Montesano, Nel corpo di Napoli, 1999).

Altri esempi in cui BELLO non può essere interpretato nel senso di ‘gradevole di aspetto’, ma è evidentemente un intensificatore dell’aggettivo che lo segue sono i seguenti:

(23) Che pensare degli investigatori che nel corso di un sopralluogo nell’appartamento di via Montalcini non notano nulla di strano, mentre sul pavimento ci sono, belle evidenti, le tracce del muro che occultava la cella di Moro? (24) Col tempo, invece, mi scordo le parole. È per questo che me le scrivo sul mio quadernone: e belle grandi anche, per vederle bene. (25) Ad appena un giorno dalla scadenza dei termini per la presentazione delle candidature alle

40 Lo stesso si dica per il bello grasso pirandelliano riportato nella nota 30. 41 L’aggettivo romanesco impormonito significa ‘privo di vigore, infiacchito’ (VRC, s.v.). 42 Il passo è tratto da un romanzo ambientato a Napoli e scritto da un autore napoletano. Varrà la pena ricordare che De Blasi (2014: 105) segnala come proprio dell’italiano regionale campano l’uso avverbiale di bello “in coppia con un altro agget-tivo, eventualmente replicato (bello caldo, bello chiatto chiatto ‘ben chiaro’)”.

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regionali, nel centrosinistra sta per scoppiare una nuova grana, e di quelle belle grosse. La grana cui si fa riferimento in (25) non è senz’altro ‘di aspetto gradevole’, ma è invece di note-voli dimensioni (ma si noti che in questo contesto non si può escludere che BELLO funzioni da focus mo-difier invece – o oltre – che da booster: la grana di cui si parla potrebbe essere considerata anche ‘proprio grossa’, oltre che ‘molto grossa’). Nei seguenti esempi BELLO intensifica LARGO all’interno dell’espressione polirematica avere le spalle larghe ‘essere forte, soprattutto moralmente’, che in (26b) è usata in senso doppiamente metafori-co, in quanto riferita a un’istituzione e non a un individuo; non c’è dubbio che qui BELLO non abbia il significato di partenza:

(26a) Ma io ho le spalle belle larghe dopo quello che ho passato in Messico; (26b) Ma le spalle di via Filodrammatici, si sa, sono belle larghe, soprattutto per sostenere i gruppi amici.

Infine, nell’esempio (27) si ha la certezza che bella non può essere interpretato nel significato di partenza ‘che ha un aspetto gradevole, che corrisponde a canoni estetici’. La grassezza femminile è l’opposto del canone estetico dominante, e infatti la persona che si trova bella grassoccia si mette subito a dieta, perché non si considera bella43:

(27) A maggio, dopo essersi vista bella grassoccia nello specchio, Sabina si è sottoposta ad una dieta disintossicante nella famosa clinica del dottor Chenot a Merano.

e) Una volta avvenuta la rianalisi, l’elemento che ha mutato valore può essere colpito da ridu-

zione fonologica. Questo fenomeno non sembra aver (ancora?) avuto luogo nel caso di BELLO (ma analisi della

durata delle realizzazioni di BELLO in diversi contesti nel parlato spontaneo potrebbero rivelare delle differenze; sarebbe un tema interessante da indagare).

f) I diversi stadi di grammaticalizzazione di una stessa costruzione possono coesistere in uno stato sincronico dato. Ciò accade senz’altro nel caso di BELLO, che conserva in italiano contemporaneo il valore di ‘che ha un aspetto gradevole, che corrisponde a canoni estetici o artistici’, ma ha anche acquisito i valori di booster e di particularizer. In (28) abbiamo un esempio che mostra come i due valori, di partenza e di arrivo, possano co-occorrere anche in uno stesso enunciato:

(28) Scrivemmo una bella sceneggiatura, e bella grossa, che fu poi tutta girata. In (28) la prima occorrenza di bella ha il senso di ‘che corrisponde a canoni estetici o artistici’, mentre la seconda ha valore di booster, specifica che la sceneggiatura scritta era ‘molto grossa’.

g) Il significato originale dell’elemento che muta valore può continuare a imporre restrizioni sull’uso dell’elemento con il nuovo valore. Questa caratteristica di BELLO intensificatore è molto enfatizzata da Rainer (1983: 18), che scri-ve: “Die Klasse der potentiellen Kollokate von bello enthält – im Einklang mit der noch nicht völlig verblaßten Grundbedeutung des Intensifikators – nur positiv wertende Adjektive”. Rainer osserva an-che però che Rohlfs (1969: § 886) cita esempi come belle stupide e addirittura bella brutta, inaccettabili se-

43 Rainer nota invece che bello grasso nel Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi occorre in un contesto in cui grasso ha connota-zione positiva, come spiega lo stesso Levi (cit. in Rainer 1983: 19): “L’essere grasso è qui (d.h. im Lukanien der späten dreißiger Jahre) il primo segno della bellezza, come nei paesi d’oriente; forse perché per raggiungere la grassezza, impossibile ai contadini denutriti, è necessario essere Signori e potenti”.

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condo gli informanti consultati da Rainer. In realtà, come abbiamo già visto, esempi in cui BELLO inten-sifica aggettivi di significato non positivo sono attestati anche nei corpora da noi consultati: cfr. almeno (8h), (21a-b), (27). Per noi stessi l’espressione bello brutto è accettabile e anzi ci capita di usarla (anche se non possiamo escludere che sia marcata diatopicamente come romana).

h) L’elemento che muta valore ha un significato relativamente generale. BELLO ha senz’altro un significato generale.

i) Una parte del significato originale dell’elemento grammaticalizzato si perde, mentre nuove

componenti di significato gli si aggiungono. Nell’uso come intensificatore di BELLO, si può perdere il significato ‘che ha un aspetto gradevo-le, che corrisponde a canoni estetici o artistici’, ma si aggiunge il significato ‘che possiede in grado eleva-to la qualità designata all’aggettivo seguente’. 6. Conclusioni Sulla base della documentazione diacronica presentata si direbbe che la grammaticalizzazione di BELLO + aggettivo con valore di intensificatore rappresenti la convergenza poligenetica di sviluppi distinti: dal BELLO già grammaticalizzatosi come intensificatore di nomi (bella grandezza > bello grande), dal BELLO coordinato ad altro aggettivo (bello, grosso > bello grosso) e, forse, dal BELLO + termine di colore (bel colore azzurro > bell’azzurro > bello azzurro). I processi sembrano indipendenti ma cronologicamente prossimi: di tutti e tre si possono individuare i presupposti in italiano antico e le prime attestazioni (probabili o certe) sono sostanzialmente coeve (fine XV-inizio XVI sec.). Proprio per questo la genesi del tipo non è ricostruibile con assoluta certezza. Ci sembra però abbastanza chiaro che lo sviluppo semantico verso il valore di intensificatore si sia avuto a partire da contesti nei quali BELLO esprime apprezzamento posi-tivo da parte del parlante (o scrivente)44 per quanto designato da un nome o un aggettivo che lo segue, e tra gli aspetti pragmaticamente positivi nella situazione cui si fa riferimento c’è una componente di ‘di-mensione abbondante’: bella statura à ‘alta statura’, bel guadagno à ‘lauto guadagno’, belle grasse, ecc. Quando il termine che segue è un aggettivo, predominano nelle attestazioni del nostro tipo ag-gettivi di dimensione che si collocano al polo che indica la dimensione maggiore in un continuum, co-me GRANDE, GROSSO, GRASSO, LARGO, ALTO, LUNGO. Nell’italiano contemporaneo, il requisito che la qualità designata dall’Intensivandum sia valutata positivamente dal parlante non è più cogente: per esem-pio, BELLO GRASSO può occorrere sia in contesti in cui la grassezza è valutata positivamente (come in (8f), nel secondo esempio pirandelliano citato nella nota 30 e nel testo di Carlo Levi citato nella nota 43) sia in contesti in cui è considerata un difetto (come in (27)). Il processo di grammaticalizzazione di BELLO come intensificatore di aggettivi in italiano sem-bra essere giunto al III stadio di Heine (2002): il suo significato di partenza non si è affatto perso. Inol-tre, anche quando è usato come intensificatore di aggettivi, BELLO presenta accordo di genere e di nu-mero con il nome a cui l’aggettivo intensificato si riferisce, e da questo punto di vista non si comporta pienamente come un avverbio. Ringraziamenti e attribuzioni Ringraziamo Luisa Corona, Andrea Sansò, e i due revisori anonimi per le loro importanti osservazioni, di cui abbiamo cercato di far tesoro. Un grazie anche a Giulio Vaccaro, che ci ha aiutato a ricavare dal corpus OVI gli esempi della sequenza BELLO + aggettivo e BELLO + nome (e anche del tipo BELLO + E

44 Si osserva comunemente che il mutamento semantico subito da elementi che si grammaticalizzano come intensificatori segue spesso dei percorsi precisi, tra i quali “less > more subjective” (Traugott 2006: 354). Una caratteristica di BELLO è che la componente di valutazione soggettiva da parte del parlante è presente non solo nel suo uso grammaticalizzato (sia come booster che come particularizer), ma anche nel suo significato di partenza (“non è bello ciò che è bello, ma è bello ciò che pia-ce”).

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+ aggettivo o part. pass.). Il lavoro è stato svolto dagli autori in stretta collaborazione; prevalentemente ad Anna M.

Thornton si deve la stesura dei § 1.1, 2, 4, 5; prevalentemente a P. D’Achille quella dei § 1.2, 3; il § 6 è comune. Riferimenti bibliografici Corpora: BADIP = BADIP. Banca Dati dell’Italiano Parlato, in rete all’indirizzo http://badip.uni-graz.at/it/ BIZ = Biblioteca Italiana Zanichelli. 2010. Bologna: Zanichelli. Con dvd. DiaCORIS = DiaCORIS. Corpus Diacronico di Italiano Scritto, in rete all’indirizzo

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Sui possessivi (encl*tici) nelle varietà italo-romanze meridionali non estreme

Roberta D’Alessandro • Laura Migliori

Abstract

Possessive constructions in upper-southern Italo-Romance languages come in several forms. Many upper-southern languages show encl*tic possessives for kinship terms and other kinds of inalienable possession, in addition to the pan-Romance analytic possessive constructions. The aim of this article is to present a classification of possessive constructions in southern varieties, as well as to attempt a syntactic analysis of such structures, highlighting some interesting typological tendencies. We will propose that the syntactic structure underlying such constructions with encl*tic possessives is the same occurring in other possessive constructions involving inalienable possession in the same varieties. We will also bring some synchronic and diachronic evidence in favor of this hypothesis.

KEYWORDS: possessives • cl*tics • southern-Italian varieties • kinship terms • syntax

1. Costrutti possessivi dei dialetti italiani meridionali

Le varietà italiane meridionali non estreme utilizzano diverse strategie per marcare il possesso (Rohlfs 1968, Manzini & Savoia 2005, Silvestri 2011, 2012, 2013, Sotiri 2007). I costrutti possessivi possono essere realizzati con aggettivi possessivi tonici, con genitivo esplicito, con genitivo apreposizionale e con dativo di possesso. Infine, troviamo i costrutti con possessivi encl*tici, fenomeno raro nelle altre varietà romanze. In questo paragrafo illustreremo brevemente le diverse modalità di espressione del possesso, dedicando particolare attenzione ai possessivi encl*tici, che generalmente occorrono per esprimere il possesso inalienabile. In seguito, si avanzerà l’ipotesi che nei dialetti italiani meridionali il possesso di tipo inalienabile sia sempre espresso attraverso una struttura non sintagmatica ma almeno originariamente predicativa. Nel terzo paragrafo verrà mostrato che tale ipotesi sembra essere supportata dai dati empirici: dal punto di vista sincronico si applicheranno dei test sintattici volti a verificare tale ipotesi; a livello diacronico si presenteranno dei fatti linguistici a supporto della presente proposta. Infine, nel quarto paragrafo, verranno formulate le conclusioni di questo studio. 1.1 Costrutti possessivi con aggettivi tonici

Come molte altre lingue romanze, le varietà italiane meridionali presentano un paradigma completo per gli aggettivi possessivi tonici. In queste varietà, gli aggettivi possessivi tonici ricorrono in posizione postnominale e sono generalmente associati ai beni di tipo alienabile (Sotiri 2007):

(1) a. Taranto

u 'kanǝ miǝ, tuǝ, suǝ DET.M.SG cane(M).SG 1SG.POSS 2SG.POSS 3SG.POSS

‘Il mio/tuo/suo cane’

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b. Castro dei Volsci u 'kanǝ meu, tuǝ, suə DET.M.SG cane(M).SG 1SG.POSS.M 2SG.POSS.M 3SG.POSS.M

‘Il mio/tuo/suo cane’ La costruzione con aggettivo forte postnominale è la più frequente nelle varietà meridionali italiane non estreme. A differenza dell’italiano, lingua nella quale la posizione non marcata per l’aggettivo possessivo è quella prenominale, nelle varietà meridionali, tanto dialettali quanto regionali, la posizione non marcata, l’unica possibile, è quella postnominale (Castellani Pollidori 1966, Serianni 1988). Si noti che anche in italiano standard si riscontrano casi di possessivi postnominali, prevalentemente in costruzioni vocative, o con nomi riferentisi a possesso inalienabile (Serianni 1988), come illustrato negli esempi seguenti:

(2) Figlio mio!

(3) Andiamo a casa mia.

Aggettivi possessivi tonici in posizione preverbale non sono riscontrati invece in nessun caso nelle varietà meridionali. Frasi come (4) o (5) sono gravemente agrammaticali.

(4) Abruzzese

*la mε 'makənə DET.F.SG 1SG.POSS macchina(F).SG

(5) Abruzzese

*lu 'nostrə trattorə DET.M.SG 1PL.POSS trattore(M).SG

L’elemento denotante il possessore ha un chiaro status aggettivale. Vorremmo proporre tuttavia che la sua origine è pronominale, basandoci su un parallelismo finora non considerato abbastanza.

1.2 Costrutti possessivi con aggettivi encl*tici

Oltre alle forme toniche, i dialetti meridionali presentano paradigmi atoni, spesso difettivi, dedicati all’espressione del possesso inalienabile. Questi possessivi appaiono in posizione encl*tica rispetto al nome cui fanno riferimento. Essi sono unicamente usati nel caso di nomi di parentela e di alcuni altri tipi di possesso inalienabile:

(6) Arielli

a. 'mammə-mə b. 'mammə-tə madre(F)-1SG.POSS madre(F)-2SG.POSS ‘mia madre’ ‘tua madre’

(7) Gallipoli (Sotiri 2007) a. 'tzia-ma b. 'frau-ta c. 'frau-sa zia(F)-1SG.POSS fratello(M)-2SG.POSS fratello(M)-3SG.POSS

‘mia zia’ ‘tuo fratello’ ‘suo fratello’

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(8) Castro dei Volsci a. 'kasə-m-a b. 'kasə-t-a casa- 1SG.POSS-F casa- 2SG.POSS-F ‘la mia casa’ ‘la tua casa’

Il nome casa compare spesso nelle costruzioni con possessivo encl*tico. Una rara eccezione è invece il nome mano, che è riportato da Rohlfs (1968:125) come sintagma particolare:

(9) Pugliese

'manə-sə mano(F)-3SG.POSS ‘la sua mano’

Il possessivo encl*tico si trova, nelle varietà che lo presentano, quasi sempre soltanto nella prima e seconda persona singolare. Ciò potrebbe essere dovuto al fatto che le varietà meridionali non estreme solitamente esprimono in sovrabbondanza il tratto di deissi, che troviamo, oltre che nei possessivi encl*tici, nei pronomi personali, negli aggettivi e pronomi dimostrativi, e negli ausiliari selezionati secondo la persona (D’Alessandro & Roberts 2010, D’Alessandro 2017, Ledgeway 2016 e altri). Il possessivo di terza persona singolare, come quelli di tutte le persone plurali, è attestato più raramente (per una lista dettagliata delle forme presenti in diverse varietà si consulti Manzini & Savoia 2005).

1.3 Costrutti possessivi con genitivo Nel caso in cui si abbia un sintagma pieno ad esprimere il possessore, come ad esempio un nome proprio, le costruzioni possessive sono espresse nei dialetti meridionali, come nel resto dell’area romanza, tramite il genitivo di possesso:

(10) Abruzzese

la 'makənə də dʒu'wannə DET.F.SG macchina(F) di Giovanni ‘La macchina di Giovanni’

Oltre al genitivo espresso esplicitamente tramite la preposizione di/də, in diverse varietà meridionali si trovano costrutti possessivi consistenti nella giustapposizione del sintagma- posseduto e del sintagma-possessore, senza l’uso di preposizione alcuna. Tali costrutti sono generalmente associati anch’essi a sostantivi che esprimono possesso di tipo inalienabile, come ‘casa’, (11 a, b, c), le parti del corpo, (11 d, e), i nomi di parentela, (11 f), e i toponimi (11 g, h) (Rohlfs 1968, Silvestri 2013 e altri)1:

(11) a. Verbicaro (Silvestri 2011)

a 'kasa u 'swinnəkə DET.F.SG casa(F).SG DET.M.SG sindaco(M).SG ‘La casa del sindaco’

1La distinzione tra i casi in cui il DP che indica il possessore è umano e quelli in cui tale sintagma si riferisce ad ad un’entità inanimata, delineata in Silvestri (2013), non verrà considerata nel presente contributo. Con la nozione di ‘possesso inalienabile’ si indicherà, dunque, tutto uno spettro di casi, il cui il denominatore comune è rappresentato da una inscindibilità di fondo della relazione tra i due sintagmi nominali.

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b. Castro dei Volsci (Vignoli 1911) la 'kasa ʎə tabbak'kar-ə DET.F.SG casa(F).SG DET.M.SG tabaccaio-M.SG ‘La casa del tabaccaio’ c. Amaseno (Rohlfs 1968) la 'kasa lu ʃkar'par-u DET.F.SG casa(F).SG DET.M.SG calzolaio-M.SG ‘La casa del calzolaio’ d. Catenanuona (Silvestri 2013) a ˈkruči i ˈspaɖɖ-i DET.F.SG croce(F).SG DET.F.PL spalle(F)-PL ‘La croce delle spalle (= le spalle)’ e. Saracena (Silvestri 2013) a 'kjand-a a 'manə DET.F.SG pianta-F.SG DET.F.SG mano(F).SG ‘Il palmo della mano’ f. Verbicaro (Silvestri 2013) ʊ 'frwatə a mbər'mɛr-a DET.M.SG fratello(M).SG DET.F.SG infermiera-F.SG ‘Il fratello dell’infermiera’ g. Verbicaro (Silvestri 2013) a ˈvadda a ˈsɛpa DET.F.SG valle- F.SG DET.F.SG siepe- F.SG ‘La Valle della Siepe’ h. Castro dei Volsci u 'kambə u 'kond-ə DET.M.SG campo(M).SG DET.M.SG conte(M).SG ‘Il Campo del Conte’

In conclusione, il genitivo apreposizionale occorre in tutte le varietà del Mezzogiorno, tanto in quelle centro-meridionali, quanto in quelle del Sud estremo. Pur se con una certa varietà di opzioni, tale costrutto si riferisce sempre al possesso inalienabile. È possibile, dunque, parlare, come nel caso dei possessivi encl*tici, di una struttura dedicata all’espressione di questo tipo di relazione.

1.4 Costrutti possessivi copulari

Molte varietà presentano, inoltre, un costrutto in cui la relazione di possesso viene espressa per mezzo di una copula. Come nel caso dei possessivi encl*tici e del genitivo apreposizionale, le costruzioni possessive con copula codificano generalmente un possesso di tipo inalienabile. Tali costrutti ricorrono in due forme. In alcune varietà il possessore è espresso attraverso un dativo di possesso, come esemplificato in (12); in altre tramite genitivo “locativo”2: 2Si noti l’interessante parallelismo tra i costrutti copulari espliciti introdotti da preposizione o da articolo prima del possessivo, propri delle varietà meridionali, e i costrutti con Linker di alcune varietà balcaniche, a loro volta dotate di distribuzioni speciali per i possessivi inalienabili di prima e di seconda persona (Franco & Manzini & Savoia 2015).

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(12) a. Castro dei Volsci 'sɔngǝ 'fiʎʎ-a a t'te COP.1SG figlia-F.SG a 2SG ‘Sono tua figlia.’ b. Castro dei Volsci 'Mariǝ t' ɛ 'fiʎʎ-ǝ Mario 2SG.DAT COP.3SG figlio-M.SG ‘Mario è tuo figlio.’ c. Verbicaro (Silvestri 2013) jɛ 'fiɟɟ-ǝ a Pi'truttsǝ COP.3SG figlio-M.SG a Pietruzzo ‘È figlio di Pietruzzo.’

Le costruzioni copulari con genitivo “locativo” (D’Alessandro & Di Sciullo 2009) riguardano il possesso di beni inalienabili, solitamente case, terreni, ma anche mezzi di trasporto. Tali costruzioni sono a volte estese al possesso alienabile. In (13) ne riportiamo un esempio:

(13) a. Arielli

la 'kasǝ jɛ (də) lu 'mɛ DET.F.SG casa(F).SG COP.3SG di DET.M.SG 1SG.ACC ‘La casa è mia.’

I dati presentati mostrano chiaramente che nelle varietà in disamina al possesso di tipo inalienabile sono riservate delle costruzioni specifiche. È inoltre interessante notare come questi costrutti compaiano sempre insieme, nelle varietà che marcano il possesso inalienabile. In altre parole, le varietà che presentano possessivi encl*tici presentano spesso anche gli altri costrutti. Sulla base di tale significativa corrispondenza si desidera avanzare l’ipotesi che i costrutti possessivi relativi al possesso inalienabile presenti nei dialetti italiani meridionali siano tutti caratterizzati dalla stessa struttura sintattica e che la loro differenza riguardi esclusivamente la loro realizzazione morfologica. 1.5 Affissi o cl*tici

La marcatura di possesso inalienabile tramite possessivo encl*tico o affisso è molto comune nelle lingue naturali. Secondo il WALS, 642 lingue marcano il possesso tramite affissi nominali (Dryer 2013). Il WALS distingue tra cl*tici e affissi sulla base di criteri di distribuzione (i cl*tici possono attaccarsi a diversi elementi, gli affissi hanno una distribuzione più rigida). Nel caso dei cl*tici meridionali, il loro status non è così chiaro. Non si riscontrano casi di slittamento della categoria ospite del cl*tico, come ad esempio nel caso del Tukang Besi (Donohue 1999: 73) discusso da Dryer, nel quale il cl*tico possessivo si attacca a volte al nome e a volte all’aggettivo:

(14) Tukang Besi (Donohue 1999)

a. te kene=su CORE amico=1SG.POSS

‘Amici miei’ b. te wunua molengo=su CORE casa vecchia=1SG.POSS ‘La mia vecchia casa”

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Nelle varietà meridionali, il cl*tico si salda sempre al nome, anche in presenza di un aggettivo: (15) Arielli

'tzijə-m-a bellə zio-1SG.POSS-F bello.SG ‘La mia bella zia’

In altri contesti, tuttavia, il cl*tico può avere ospiti diversi, come si evince dall’esempio (16), nel quale il cl*tico può trovarsi saldato al verbo o all’avverbio:

(16) Arielli

a. me=lə=magnə 1SG.APPL=lo.3SG=mangio.1SG ‘Lo mangio’ b. me=lə=bbellə magnə 1SG.APPL=lo.SG=bello mangio.1SG ‘Me lo mangio (e non se ne parla più)’

Secondo questo criterio, l’unico peraltro adottato da Dryer (2013) per distinguere cl*tici possessivi da affissi possessivi, i possessivi encl*tici meridionali ricadrebbero nella categoria degli affissi, mentre i pronomi personali nella categoria dei cl*tici. Si noti tuttavia che nel framework teorico qui adottato, la distinzione tra cl*tici e affissi non è molto rilevante (Manzini & Savoia 2005, 2007). I cl*tici sono solitamente l’espressione morfologica di alcuni tratti sintattici, così come lo sono gli affissi. Ovviamente i cl*tici possono essere pronominali (quindi con con tratto D, secondo Roberts 2010) o solo insiemi di tratti. Nel caso dei cl*tici che realizzino solo insiemi di tratti, come sostiene Roberts (2010) per i cl*tici soggetto, essi non si distinguono dagli affissi se non nella loro realizzazione morfologica. Nel caso di ausiliari selezionati secondo la persona è stato proposto inoltre che le radici di tali ausiliari siano insiemi di tratti sintattici (D’Alessandro 2017). Useremo dunque la dicitura “cl*tico” per indicare l’insieme di tratti che corrispondono all’aggettivo possessivo, tenendo presente che anche la dicitura “affisso” potrebbe essere calzante.

L’insieme di tratti di un pronome possessivo sarà il seguente:

(17) [N, P, (G), D, loc]

Dove N, P, G indicano, rispettivamente, i tratti-φ di numero, persona, e genere (quest’ultimo espresso solo alla 3a persona), D è il tratto nominale e loc è la testa locativa, che codifica, seguendo Manzini & Savoia (2005) la relazione di appartenenza, su cui non ci soffermeremo più in dettaglio perché irrilevante ai fini dell’analisi.

L’insieme dei tratti che caratterizzano il possessivo encl*tico è, invece, in (18):

(18) [N, P, (G), loc]

(17) e (18) esprimono la differenza tra pronome e cl*tico possessivo (dove il cl*tico è inteso come un insieme di tratti, non come un aggettivo).

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2. Il possesso di tipo inalienabile

2.1 I possessivi encl*tici nella letteratura linguistica

Le strutture possessive con aggettivi encl*tici hanno ricevuto una certa attenzione da parte degli studi linguistici, sia da un punto di vista tipologico che da una prospettiva più prettamente teorica. A livello tipologico, tali costrutti interessano due aree romanze specifiche: l’area italo-romanza centro-meridionale (Pellegrini 1975, 1977, Marcato 2007 e altri) da un lato e l’area geo-linguistica rumena (Dumitrescu & Saltarelli 2001 e altri) dall’altro. Diversamente, i possessivi encl*tici sono generalmente assenti dalle varietà gallo-romanze. Come già indicato in precedenza, il fenomeno della marcatura del possesso inalienabile con nomi di parentela o parti del corpo è abbastanza diffuso nelle lingue del mondo.

Da un punto di vista formale i possessivi encl*tici sono stati spesso analizzati considerando come elemento centrale la definitezza che caratterizza i sintagmi nominali a cui essi si associano (Giusti 1994, 2002, Longobardi 1996, Manzini & Savoia 2005, Bernardini & Egerland 2006, Ledgeway 2009 e altri). Tale proprietà, specificamente legata ai nomi di parentela, sarebbe espressa a livello sintattico dalla presenza di un tratto sintattico dedicato (tavolta definito [kin] dal termine inglese kinship, “famiglia”, cfr. Penello 2002), sempre definito. Secondo la tradizione stabilita da Longobardi (1996), se un nome è definito esso “sale” nel sintagma fino ad occupare una testa che esprime la definitezza. Essendo i nomi di parentela tra i più definiti in assoluto, essi salgono nel sintagma fino ad occupare la testa D, di definitezza (movimento N-to-D). Con questo movimento, il nome scavalca l’aggettivo possessivo, posizionandosi alla sua sinistra, come indicato nello schema seguente:

(19) [D [poss [N ]]]

[mammə [-mə mammə

Le analisi dei possessivi encl*tici fanno tutte più o meno riferimento a questo schema che, ripetiamo, considera come centrale la definitezza del nome inalienabile. L’analisi in (19) inoltre spiega l’assenza del determinante nelle costruzioni con possessivo encl*tico (come in (20): il determinante è infatti un elemento prototipicamente definito, che compare quindi in D. Poiché una testa può essere realizzata tramite un solo elemento, la posizione D può essere occupata dal determinante o dal nome inalienabile, ma non da entrambi. La presenza del determinante proibisce dunque la salita del nome, come si evince dall’agrammaticalità dell’esempio (20).

(20) *la mammə-me

DET.F.SG mamma(F)-1SG.POSS

Si noti che quest’ultima affermazione trova alcune significative eccezioni in alcune varietà meridionali. In tali dialetti, infatti, è perfettamente grammaticale avere un determinante con un possessivo encl*tico, come negli esempi in (21). Questa co-occorrenza, tuttavia, è più frequente al plurale che al singolare3.

3Tali varietà mostrano, dunque, lo stesso comportamento dell’italiano standard, in cui determinante e possessivo possono cooccorrere solo nel caso del plurale:

(i) a. *il mio fratello b. mio fratello c. i miei fratelli

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(21) Arielli a. li 'fritə-mə DET.PL fratello(M)\PL-1SG.POSS ‘I miei fratelli’ b. li 'sɔrə-mə

DET.PL sorella(F)-1SG.POSS ‘Le mie sorelle’

c. li 'tzijə-tə DET.PL zio-2SG.POSS ‘I tuoi zii’

Nonostante l’adeguatezza esplicativa di questa analisi, ci sembra di poter affermare che il fenomeno non vada considerato in isolamento. In altre parole, questa analisi si sofferma su una particolare costruzione, senza considerare il fatto che nelle stesse varietà esistano anche altri costrutti possessivi particolari, come si è già notato. Di conseguenza, non sembra corretto trattare i possessivi encl*tici come un fenomeno isolato, trascurando la significativa coesistenza di possessivi encl*tici, costrutti con genitivo apreposizionale e costruzioni possessive copulari nelle stesse varietà. Per questa ragione, nel presente contributo, essi verranno esaminati anche in relazione a questi altri costrutti. 2.2 Il possesso inalienabile come frase ridotta

In diversi studi linguistici è stato dimostrato che il possesso alienabile e quello inalienabile hanno strutture sintattiche distinte e che tale distinzione è valida a livello interlinguistico (Alexiadou 2003, Cheng & Ritter 1987 e molti altri autori). Secondo lo studio di Alexiadou (2003), le strutture possessive di tipo alienabile sarebbero sintagmi completi, in cui il bene posseduto occupa la posizione di specificatore del possessore. Nel caso del possesso inalienabile, il possessore e il posseduto sarebbero invece in una relazione predicativa. Nella frase francese in (22), Vergnaud & Zubizarreta (1992) ravvisano una costruzione predicativa. Secondo Alexiadou, lo stesso avviene nei possessivi inalienabili in greco che codificherebbero una costruzione predicativa.

(22) francese

la gorge aux enfants DET.F.SG gola(F).SG DET.M.PL.DAT bambino.PL ‘La gola dei bambini’

Sulla base di questa osservazione si formula l’ipotesi in (23):

(23) Nelle varietà meridionali le costruzioni possessive relative al possesso inalienabile hanno

una struttura predicativa di frasi ridotte.

La definizione di frase ridotta è da intendersi nei termini di Williams (1975) e Stowell (1995) e indica, dunque, un sotto-insieme del costrutto che esprime la relazione soggetto-predicato. Tale predicato può essere costituito da un aggettivo, una preposizione, un verbo non flesso o un nome. La struttura sintattica della frase ridotta è esemplificata in (24):

(24) [FR bene posseduto possessore]

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Per i costrutti con possessivo encl*tico si propone, dunque, una struttura come quella in (24), in cui il possessore è in una relazione predicativa con il posseduto. In generale, le strutture predicative sono state spesso analizzate come frasi ridotte (Contreras 1995, Moro 1993, 1995, 2000). Una proposizione come quella in (25) ha, dunque, la struttura sintattica schematizzata in (25), con movimento di uno dei due sintagmi in posizione di soggetto (25c).

(25) a. Queste ragazze sono simpatiche

b. sono [FR queste ragazze simpatiche]

[FR DP AP ]

c. [ST queste ragazze sono [FR queste ragazze simpatiche]]

L’ipotesi avanzata suggerisce che tale struttura sintattica soggiaccia a tutti i costrutti che in queste varietà esprimono il possesso di tipo inalienabile, tanto le costruzioni con possessivi encl*tici quanto quelle con genitivo apreposizionale e quelle di tipo copulare, che differiscono tra loro solo nella realizzazione morfofonologica. L’esempio (26a) corrisponderebbe, dunque, a (26b):

(26) a. 'mammə-mə b. 'mammə ___ a 'me

mamma(F)-1SG.POSS mamma(F) COP a 1SG.OBL ‘mia madre’ ‘mia madre’

a'. [FR mammə-mə] b'. [ST mamma è [FR mamma a me]]

Da questo punto di vista, il fatto che le forme equivalenti con copula esplicita siano ampiamente presenti nelle varietà in questione offre ulteriore evidenza per questa ipotesi. La frase (27) è infatti perfettamente grammaticale, ed equivalente a (28).

(27) Arielli

Ma'rijə jε 'mammə a me Maria(F).SG COP.3SG mamma(F) a 1SG.OBL ‘Maria è mia madre.’

(28) Ma'rijə jε 'mammə-mə Maria(F).SG COP.3SG mamma(F)-1SG.POSS ‘Maria è mia madre.’

La differenza tra (27) e (28) sta nella composizione dei tratti del possessivo: mentre il possessivo in (27) contiene un tratto D ed è quindi pronominale, il possessivo in (28) non lo contiene, ed è dunque un semplice insieme di tratti-φ. Per questa ragione, il possessivo in (28) non può essere accentato, a differenza di quello in (27).

La proposta del presente contributo è di analizzare tutti i costrutti per il possesso inalienabile come frasi ridotte. Di seguito si presenteranno i test diagnostici che sono stati sviluppati per questo tipo di struttura e si applicheranno alle strategie possessive in analisi per verificare questa ipotesi.

2.3 Test per individuare le frasi ridotte

Al fine di verificare lo status di frasi ridotte delle strutture in disamina, in questa sezione si applicheranno i test che, nella letteratura, sono stati utilizzati per individuare questa struttura

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sintattica, caratterizzata da proprietà specifiche. Infatti, per le frasi ridotte si apprezzano generalmente le seguenti caratteristiche:

• Comportamento asimmetrico dei sintagmi componenti rispetto al movimento (le

costruzioni copulari inverse non sono sempre possibili, Heyco*ck 1995, Moro 2000) • Comportamento asimmetrico dei sintagmi componenti rispetto all’estrazione (Heyco*ck

1995 e altri autori) • Comportamento asimmetrico dei sintagmi componenti per quel che riguarda la

subordinazione. • Flessione impoverita o nulla (Cardinaletti & Guasti 1992, Contreras 1995).

Il comportamento delle frasi ridotte per quel che riguarda l’analisi in costituenti è largamente dibattuto (Cardinaletti & Guasti 1995 e altri). Di conseguenza, i test relativi a questo aspetto non sono parte di questo studio, in quanto non forniscono evidenza conclusiva. Inoltre, non si applicherà il test relativo alla passivizzazione (Heyco*ck 1995), dal momento che le varietà in disamina sono generalmente difettive per quel che riguarda la coniugazione passiva. Si noti, inoltre, che nessuno di questi test può essere applicato alle costruzioni con possessivo encl*tico, richiedendo esse sintagmi indipendenti e passibili di movimento. Sosterremo in ogni caso che si tratta di strutture identiche (in cui varia la composizione dei tratti del possessore, difettivo e non pronominale nel caso dei cl*tici) basandoci su considerazioni tipologiche.

2.3.1 Inversione

Le costruzioni copulari predicative possono a volte sottostare all’inversione dei costituenti. Ciò non è sempre possibile: l’inversione è di solito lecita in costruzioni copulari predicative non possessive, come mostrano gli esempi (29) e (30):

(29) La sciatteria del presidente è stata la causa dell’incidente.

(30) La causa dell’incidente è stata la sciatteria del presidente.

Per le costruzioni possessive oggetto del nostro studio l’inversione è a volte possibile. Ciò suggerisce che si tratti effettivamente di frasi ridotte di tipo predicativo. Il comportamento asimmetrico dei due sintagmi per quel che riguarda il movimento può essere apprezzato per i costrutti con genitivo apreposizionale e per i costrutti possessivi con copula. Questo test non può essere, invece, applicato nel caso dei possessivi encl*tici che, a causa della loro natura, non possono sottostare ad operazioni di movimento. Genitivo apreposizionale

(31) a. a 'kasa jɛ u 'swinnəkə

DET.F.SG casa(F).SG COP.3SG DET.M.SG sindaco.SG ‘La casa è del sindaco.’ b. *u 'swinnəkə jɛ a 'kasa DET.M.SG. sindaco.SG COP.3SG DET.F.SG casa(F).SG

Costruzioni copulari con genitivo “locativo”

(32) a. la 'kasə jɛ (dǝ) lu 'mɛ DET.F.SG casa(F).SG COP.3.SG di DET.M.SG. 1SG.OBL

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b. *lu 'mɛ jɛ la 'kasə DET.M.SG. 1SG.OBL. COP.3.SG DET.F.SG casa(F).SG

Il test sull’inversione mostra che, almeno in alcuni casi e per alcune costruzioni possessive, l’ipotesi che esse siano frasi ridotte sembra plausibile. 2.3.2 Estrazione Le frasi ridotte permettono generalmente l’estrazione dal secondo costituente, ma non dal primo, nelle strutture “dirette”, ma non nelle strutture inverse (Heyco*ck 1995). Nell’esempio (33) l’estrazione del costituente postcopulare è accettabile nella frase diretta (33b), ma non in quella inversa (33d).

(33) a. La sciatteria del presidente è stata la causa dell’incidente. [DIRETTA]

b. Di cosa credi che la sciatteria del presidente sia stata la causa? c. La causa dell’incidente è stata la sciatteria del presidente. [INVERSA] d. *Di chi credi che la causa dell’incidente sia stata la sciatteria?

Nel caso delle costruzioni con possessivi encl*tici non è possibile applicare questo test per la natura ridotta dei cl*tici, che non permettono estrazione. Le costruzioni con genitivo apreposizionale non permettono l’inversione, ed è dunque impossibile controllare l’estrazione nelle strutture inverse. Nel caso dei costrutti copulari, infine, non si è in grado di valutare il comportamento dei componenti rispetto all’estrazione dal momento che dai pronomi non si può effettuare estrazione. Questo test non è quindi applicabile alle strutture in disamina.

2.3.3 Subordinazione Le frasi ridotte, se subordinate a verbi come considerare, presentano delle asimmetrie riguardo all’ordine dei costituenti. Se per esempio la frase (34), equivalente a (34) secondo l’analisi di Moro (2000) ed Heyco*ck (1995), è perfettamente grammaticale come complemento del verbo considerare (si veda (35)), la sua versione inversa non lo è, come mostrano le frasi (36) e (37).

(34) a. è [FR Gianni un buon medico] b. Gianni è un buon medico.

(35) Considero Gianni un buon medico.

(36) a. è [FR un buon medico Gianni] b. È un buon medico, Gianni.

(37) *Considero un buon medico Gianni

Per le costruzioni possessive copulari vale la stessa asimmetria che per le frasi ridotte copulari appena esaminate, come mostrano gli esempi qui di seguito.

(38) a. la 'kasə jɛ də lu 'mε

DET.F.SG casa(F).SG COP.3SG di DET.M.SG 1SG.OBL ‘La casa è mia.’

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b. kun'tsidər-ə la 'kasə də lu 'mε considerare-1SG DET.F.SG casa(F).SG di DET.M.SG 1SG.OBL

‘Considero la casa mia.’ (39) a. jɛ də lu 'mε, la 'kasə

COP.3SG di DET.M.SG 1SG.OBL DET.F.SG casa(F).SG ‘È mia, la casa.’ b. *kun'tsidər-ə də lu 'mε la 'kasə considerare-1SG di DET.M.SG 1SG.OBL DET.F.SG casa(F).SG

Per le costruzioni encl*tiche, il problema rimane quello di non poter isolare né muovere il cl*tico possessivo. Questo test conferma, quindi, che alcune costruzioni possessive sono, a livello strutturale, frasi ridotte. Tuttavia, non è possibile reperire ulteriori informazioni riguardo alle costruzioni encl*tiche.

2.3.4 Conclusioni

In base ai risultati dei test sintattici, che costituiscono la nostra evidenza sincronica, sembra plausibile poter affermare che alcune costruzioni possessive siano frasi ridotte. D’altra parte, l’estensione di questa analisi ai possessivi cl*tici non è facilmente dimostrabile tramite test sintattici. Nonostante ciò, un’indicazione ci è offerta dall’osservazione di dati diacronici provenienti dalle lingue romanze. 3. Argomenti diacronici: varietà romanze antiche Dal punto di vista diacronico è possibile reperire un significativo riscontro all’ipotesi proposta esaminando il sistema dei possessivi in italiano antico (secoli XIII-XIV). Anche in italiano tardo-medievale, infatti, le strategie impiegate per esprimere possesso di tipo inalienabile erano sia gli aggettivi possessivi encl*tici, sia i costrutti con genitivo apreposizionale. La situazione dell’italiano antico è esemplificata in (40) e (41):

(40) Italiano antico

a. ma, per la colpa tua, egli lo torrà al figliuolto (Novellino, sec. XIII in Penello 2002: 339)

b. va’ racconsola figliuolto (Canz. 23, 5, sec. XIV-XV) c. non adirare figliuolti (Tre trattati, 22, sec. XIII)

d. figliuolmo m’aiuterà in vecchiezza (Var. St., 2, sec. XIV) e. e venendo al fiume passòe con fratelmo (Dec. 77, 16, sec. XIV)

f. piacciate che così fatta donna, madonna e matrema (Cronica, sec. XIV)

g. patremo e fratemo m’aono facto forte bactere (St. Tr. 103,12, sec. XIII)

h. fratelmo torna di Francia (Rett. 46,47,22, sec. XIII)

i. m’ai fatto mettere fratelmo in ceppi (Ing. Lucc. 43,27,4, sec. XIV)

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(41) Italiano antico a. in casa i Frescobaldi (G. Villani, Nuova Cronica 8, 49, sec. XIV, in Poletto 2013:13) b. Darius lo figlio Arsami (Tes. Volg. I 88, sec. XIII) c. Anchises lo padre Enea (Tes. Volg. I 33, sec. XIII) d. Nicholao nipote Formondo del Pusio (Doc. Sen. 332,13, sec. XIII) e. Donisdeo di casa Iacomo Ubaldini (Doc. Sen. 99, 10, sec. XIII) f. cittadino nipote Martini (Doc. Sen. 120,6, sec. XIII) h. si donaro ala nepote sere Visconti (Mattas. 39r,12, sec. XIII) i. la madre s[er] Maghinardo (Doc. Fior. 483,1, sec. XIII)

Gli esempi in (40) e (41) mostrano che entrambe le strategie erano presenti e largamente impiegate a questo stadio della lingua (Delfitto & Paradisi 2009, Penello 2002, Poletto 2013 e diversi altri autori). Tale aspetto rappresenta, dunque, una significativa differenza rispetto all’italiano standard moderno, in cui non è disponibile nessuna di queste costruzioni possessive. In tal senso, l’italiano antico può essere compreso come uno stadio di transizione tra il sistema flessivo del latino e il sistema preposizionale che caratterizza gran parte del panorama linguistico romanzo. Questa significativa fase avrebbe, dunque, visto dapprima l’emergere delle strutture con possessivi encl*tici e genitivo apreposizionale e, successivamente, la loro scomparsa (Rohlfs 1968, Silvestri 2013). Si noti, inoltre, che alla stessa epoca cronologica è possibile osservare anche la presenza dei possessivi tonici e del genitivo preposizionale, il che sembrerebbe indicare la transizione da un tipo di struttura ad un altro:

(42) a. vogliolo sapere da mia madre (Novellino, sec. XIII, in Penello 2002: 339)

b. onde mio padre ha offerti duomila marchi (Novellino, sec. XIII, in Penello 2002: 339)

(43) a. la madre di Guiduccio orafo (Doc. Fior. 120, 11, sec. XIII) b. la madre di Feo Cione (Doc. Fior. 231, 22, sec. XIII)

Le strutture possessive encl*tiche e con giustapposizione erano, dunque, presenti nello stesso momento e la loro scomparsa fu anch’essa quasi simultanea. Ciò suggerisce che la struttura soggiacente alle due fosse la stessa, e l’unica differenza fosse nella composizione dei tratti dei possessivi. Un ulteriore argomento a sostegno di tale parallelismo viene fornita dal confronto con altre varietà romanze antiche, in particolare con il francese antico, in cui il genitivo apreposizionale era largamente impiegato, a differenza del francese standard moderno che non presenta tale costrutto (Gamillscheg 1957, Foulet 1930, 1968; Delfitto & Paradisi 2009, Jensen 1986, Gianollo 2005 e altri):

(44) francese antico

a. la niece le duc DET.F.SG nipote(F).SG DET.M.SG duca.M.SG ‘La nipote del duca’ (Vergi 376, in Delfitto & Paradisi 2009: 296)

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b. la Mort le Roi Artu DET.F.SG morte(F).SG DET.M.SG re.M.SG Artù.M.SG ‘La morte di re Artù’ (Mort Artu, in Delfitto & Paradisi 2009: 296)

c. le fil Sainte Marie DET.F.SG figlio.M.SG santa.Maria(F).SG ‘Il figlio di Santa Maria’ (Roland, 1634 in Anglade 1965: 155)

d. un dent Saint Pierre DET.M.SG dente(M).SG san Pietro(M).SG ‘Un dente di San Pietro’ (Roland, 1634 in Anglade 1965: 155)

I dati dell’antico francese sostanziano l’ipotesi che il genitivo apreposizionale costituisca una fase diacronica intermedia tra il sistema del latino e quello preposizionale delle lingue romanze e si pongono, dunque, sullo stesso piano dei dati dell’italiano antico. Da questa prospettiva, le varietà meridionali in disamina presentano, dunque, uno stadio più antico rispetto all’italiano standard e sembrano, quindi, confermare il carattere conservativo delle aree linguistiche periferiche (Bartoli 1945 e altri).

3. Conclusioni

Nel presente contributo sono state prese in esame le strategie per l’espressione del possesso nei dialetti italiani meridionali. In primo luogo, è stato mostrato che tali varietà hanno una codifica dedicata per quel che riguarda il possesso di tipo inalienabile. Si è, quindi, proposta e vagliata l’ipotesi che tale codifica possa avere sempre la stessa struttura sintattica, ossia una frase ridotta. In tal senso, la compresenza degli aggettivi possessivi encl*tici, dei costrutti a genitivo apreposizionale e dei costrutti possessivi copulari nelle stesse varietà non sarebbe casuale, ma rappresenterebbe l’espressione della stessa struttura soggiacente. È stato mostrato, inoltre, come tale ipotesi sia sostanziata dai dati empirici, sia a livello sincronico che a livello diacronico.

Infine, è stato illustrato, grazie al confronto con altre varietà romanze antiche, che la presenza di tali strategie possessive corrisponde ad una fase diacronica di transizione tra il sistema flessivo del latino e quello preposizionale, successivamente sviluppatosi nelle lingue romanze. In tale prospettiva, l’analisi proposta sembra, dunque, fornire anche un’adeguata spiegazione a livello diacronico: la scomparsa dei costrutti in disamina nello stesso momento storico riflette semplicemente la perdita della stessa ed identica struttura sintattica. La presenza di una frase ridotta per marcare il possesso di tipo inalienabile costituisce, dunque, a livello romanzo, un tratto conservativo di queste varietà dialettali.

Ringraziamenti e riconoscimenti Scrivere un articolo in onore di Maria Grossmann è per me (Roberta) un’impresa immane. Prima di tutto perché conosco bene, per averli provati sulla mia pelle, gli standard di Maria. Per lei meno della perfezione non è abbastanza, e la perfezione non esiste. Poi, perché ricordo perfettamente la delusione nei suoi occhi quando, di ritorno dalla scuola estiva della LSA, nel 1997, le comunicai che volevo specializzarmi in sintassi generativa. Maria mi disse che andava bene, che avrebbe trovato qualcuno che mi seguisse (lo fece, gliene sarò per sempre grata). Mi fece anche giurare che non avrei mai dimenticato di prendere sul serio i dati linguistici.

Sarebbe dunque impossibile per me scrivere un articolo che possa soddisfare le aspettative di Maria Grossmann. Dopo averci ragionato un po’, e dopo aver valutato altre opzioni, ho deciso di scrivere un articolo di sintassi, che è l’area che conosco meglio. Ho pensato

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allora di buttare giù alcune idee che avevo presentato in vari convegni con la mia ex studentessa, ora collega, Laura Migliori. Insieme abbiamo voluto rendere omaggio a Maria, la nostra “capostipite linguistica”.

Non riuscirò mai a esprimere a parole quello che Maria rappresenta per me. Credo di poter affermare che la cosa più importante che mi ha trasmesso, oltre all’amore per la linguistica, è la disciplina. Cara Maria, sappi che ho imparato la lezione; metterla in pratica, però, è un’altra cosa! Spero che vorrai accettare dunque questo articolo imperfetto che ti ricorderà sempre, purtroppo per te, che hai generato delle generativiste!

Entrambe vorremmo anche ringraziare Adam Ledgeway, Delia Bentley, Michele Loporcaro, e tutti i partecipanti al CIDSM 7 di Cambridge per i commenti alle precedenti versioni di questo lavoro, e i due reviewer anonimi per i commenti e i suggerimenti. This project has received funding from the European Research Council (ERC) under the European Union's Horizon 2020 research and innovation programme (grant agreement n° 691959/Microcontact). Riferimenti bibliografici

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La segunda gran expansión de la lengua española

Adolfo Elizaincín Abstract According to the Instituto Cervantes, about 559 million people use the Spanish language all over the world. This implies a sort of “quantitative pressure” on the world population, granting prestige and popularity to the lan-guage, while at the same time imposing a great responsibility. The Spanish language -formerly known as castellano- is experiencing what can be denominated a "second major expansion". The first expansion took place in the XVI century, after the so-called “discovery” of America. At that time, the expansion was accompanied by a notorious standardization process which included, among other things, the making of important cultural artifacts such as the publication of works on language (e.g. Nebrija´s Gramática Castellana), and, in more general terms, the flourishing of Castilian literature. The second great expansion, which took place by the end of the XX century and the beginning of the XXI, is similar to the former in that works on language continue to be published, such as the Nueva gramática de la lengua española, or the surprising culmination of the literary creation currently known as the boom of Spanish American literature. The main difference between the first and the second expansion, however, lies in the fundamental role the Americas played in the latter. This new role assigned to the Americas caused both the incorporation of new speakers into the Spanish speaking population and the arousal of conflicts and misunderstandings in the realm of international relationships between Spain and the other Spanish speaking countries. KEYWORDS: Spanish language • XVI - XXI Centuries • Expansion • The role of America 1. Introducción

El español se ha consolidado como una de las lenguas con origen europeo más habladas del mundo. En efecto, según datos del Anuario del Instituto Cervantes (Madrid, 2015, p. 21 y passim) usan hoy el español unos 559 millones de personas, entre los cuales los hablantes con dominio nativo, los grupos de com-petencia limitada, y los estudiantes de español como lengua extranjera.

Esto significa un 6,7 por ciento de la población mundial. Según las mismas estimaciones, en un siglo, el 10 por ciento de la población mundial se entenderá en español. Hoy se expande, como lengua nacional, generalmente oficial, a través de veintiún países; en otros tantos, que no tienen el español co-mo lengua nacional, existe como lengua de amplio dominio. Estos países se ubican en Europa, Améri-ca, África, y Asia.

Una situación como la que acabo de mostrar transforma al español en una lengua de gran ex-tensión mundial, sometida a una gran cantidad de contactos e influencias, y, por esta misma razón, exi-gida y presionada desde varios puntos de vista a los efectos del cumplimiento de las funciones que una lengua de este tamaño y expansión debe cumplir.

Obviamente, no es lo mismo una lengua con estas dimensiones que otra que se hable, ponga-mos por ejemplo, en un solo territorio que corresponda a un mismo país (una sola unidad política), que solo utiliza esta lengua para todas sus manifestaciones sociales, y culturales, sin contacto con otras len-guas y otras culturas.

No solo su devenir histórico, sino su propia configuración y conformación interna serán muy distintos en ambos casos. No es difícil, claro, imaginar ambas situaciones a la luz del mapa lingüístico mundial actual. Quiero decir que una lengua de las dimensiones cuantitativas del español actual es un activo muy poderoso (cultural, económico) entre quienes lo poseen como un bien, ya que la comunica-bilidad, en muchas (no todas) las circunstancias posibles de interacción globales están garantizadas. Pe-ro, por otra parte, esa dimensión desmesurada que ha adquirido provoca serios problemas de adapta-ción y de manejo, sobre todo considerando que se trata de una lengua acostumbrada a la planificación y

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a la ‘legalización’ de sus formas lingüísticas a través de la acción de las academias de la lengua disemina-das por todo el territorio hispánico. Se desencadenan entonces una serie importante de acontecimientos político-lingüísticos en el mundo actual, que ejercen fuertes presiones sobre ella desde diversos puntos de vista.

Esa es la realidad actual del español. Pero claro, como todo objeto histórico, sometido también a la dimensión del tiempo, esta circunstancia actual llegó a ser de esta manera luego de la actuación de diferentes factores a lo largo de muchos siglos de existencia.

2. Breve historia

El actual español nace, como es de sobra conocido, junto a tantos otros romances, por la adaptación a tierras castellanas del norte de la Península Ibérica del latín impuesto por la colonización romana. Fue, desde temprana época, como lo corrobora la historia de la región, una lengua guerrera y conquistadora, instrumento de un reino, el de Castilla, que tuvo un protagonismo decisivo en épocas complejas rela-cionadas no solo con las guerras con otros reinos similares del norte peninsular (es decir, nacidos bajo las mismas circunstancias), sino, y sobre todo, con los invasores árabes que estaban en la península des-de comienzos del siglo VIII. Esta lucha, llamada Reconquista, contra los ‘moros’ (denominación popular en base al color de la piel de los árabes) insumió ocho siglos, pues se los considera definitivamente de-rrotados en 1492, con la caída de Granada en manos de los Reyes Católicos. Y en todo este período fue el reino de Castilla quien llevó la delantera, luchando y conquistando los territorios ocupados, y acre-centando además su poder y su extensión. Y la lengua que acompañaba a estos guerreros castellanos era, por cierto, el antecesor de lo que mucho más adelante fue llamado español. Salvando las diferencias entre los procesos históricos propiamente dichos, el proceso es bastante similar, en cuanto a los nom-bres involucrados, al que sufrió el toscano, la lengua de la Toscana, al pasar a ser reconocido como ita-liano. 2.1 Algunos ejemplos

El protagonismo castellano en el proceso de Reconquista puede observarse, entre otros hechos,

en la conquista de dos grandes ciudades en manos de los árabes. Valencia fue reconquistada en 1094 por Rodrigo Díaz, castellano, el ‘Cid Campeador’, cuyas ha-

zañas y vicisitudes fueron inmortalizadas en el poema épico anónimo Poema de Mio Çid; y hacia el final del ciclo, Granada lo fue por los Reyes Católicos, Isabel de Castilla y Fernando de Aragón, en, como ya dijimos, 1492.

Por otra parte, el rey castellano Alfonso X, ‘el Sabio’ (1221-1284), también muy activo en la lu-cha contra los moros, (su reinado abarco los años 1252-1284), quien escribió importantes obras cientí-ficas, legales, históricas en castellano, prefirió el gallego-portugués para expresarse en el género lírico, por ejemplo en las conocidas Cantigas de Santa María, piezas líricas acompañadas de su correspondiente partitura musical, en alabanza de la Virgen María. El rey prefirió esta lengua, que no el castellano, para la expresión de este tipo de experiencia lírica. Seguramente veía al castellano más adaptado a otros gé-neros, como la historia y el derecho, y no a este tipo de poesía. Como dije antes, un castellano muy aso-ciado al mundo bélico.

Para la época de los Reyes Católicos (fines del siglo XV, comienzos del XVI), época de grandes transformaciones en la región, se daba inicio al Imperio Español, enorme organización política que uni-ficó a gran parte de España bajo su señorío e incluyó, luego del descubrimiento de América, en 1492, ingentes territorios y proporcionó inmensas riquezas (efímeras) a la corona española.

3. Castellano > Español

Por esta época ya es necesario comenzar a designar a esta lengua con el nombre de español, de manera de poder distinguir una etapa hasta 1500, cuando aun se justifica, de alguna manera, la designación de castellano, y, otra etapa desde entonces hasta nuestros días, donde ya no se justifica el uso de castellano,

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sino que es mucho más adecuado español. De esta manera podemos distinguir entre la lengua medieval, desarrollada y expandida en la península durante cinco o seis siglos, y su heredera, una lengua que ya no es propia solo de un pequeño reino cristiano, conquistador y guerrero, sino que es la lengua del inmen-so imperio que se abre a partir de 1492, fecha, como dije, del ‘descubrimiento’ de América.

4. 1492

Ese 1492 es un verdadero annus mirabilis como acostumbran decir los manuales e historias de España y de la lengua española, pues por no tan extraña coincidencia, se dan cita en ese período de doce meses el ‘descubrimiento’, la caída de Granada en manos de los Reyes Católicos, Isabel y Fernando, lo que mar-ca el fin (es una forma de decirlo) del predominio árabe en la península, y, además, la expulsión de los judíos por decreto de la propia Isabel, lo que supuso una fuerte conmoción interna de inusitadas conse-cuencias sobre todo en el ámbito de la lengua, que hablaban y aun conservan, y que llevaron hacia las regiones (cercano Oriente, Grecia) donde migraron, y, no por fin, y también de inestimable valor en la historia de la lingüística, la publicación de la primera gramática española de autoría de Antonio de Ne-brija, celebrado humanista y filólogo. No son pocas cosas para un exiguo lapso de doce meses.

A ello debe sumarse un florecimiento inusitado de la literatura, que venía insinuándose desde los siglos anteriores pero que culmina en este siglo XVI, normalmente conocido en la historia cultural de España como el Siglo de Oro. Efectivamente, con la obra de Garcilaso de la Vega (para señalar un límite, arbitrario, sin duda) hasta las culminaciones líricas, dramáticas y novelísticas de autores como Góngora, Quevedo, San Juan de la Cruz, Gracián, Calderón de la Barca, Cervantes, Lope de Vega, Fray Luis de León, Santa Teresa de Ávila, y tantos otros, se llega a un nivel excepcional pocas veces visto en la historia de esta literatura.

Y lo que es más interesante aun, como consecuencia (¿o causa?) de ese esplendor artístico de las letras españolas asistimos también a una culminación de la lengua española que concluye un proceso de estandarización y de adecuación a las necesidades expresivas, de la mano de la obra de importantes gramáticos y teóricos del lenguaje entre los cuales el antes citado Antonio de Nebrija. Pero no es el úni-co. Junto a él es de justicia recordar a Francisco Sánchez de las Brozas, el ‘Brocense’, Gonzalo Correas, Mateo Alemán, el Licenciado Villalón, o Bartolomé Jiménez Patón (Lope Blanch 1983).

5. Primera expansión

Y, finalmente, esta es la época de la primera gran expansión de la lengua española, hecho que venía in-sinuándose desde hace varios siglos cuando el castellano, como ya lo señalé antes, se derramó desde su Cantabria natal al resto de la península, se transformó en español y emprendió su conquista de nuevos espacios: América, fundamentalmente, sin olvidar aquellas regiones de África y Asia donde también se afincó, hasta nuestros días.

De manera que se trata de un proceso in totum, donde, a la maduración política del estado (reino) que la hace su instrumento oficial de comunicación, se suman todos estos acontecimientos que involucran a la historia social en sentido amplio, pero, en detalle, a cuestiones de economía, sociales en sentido estricto, demográficas, culturales, lingüísticas y literarias.

Para poner el ejemplo más conspicuo de esta expansión, debe considerarse la situación ameri-cana, donde la lengua española se expandió por un territorio mucho más amplio del que hoy posee. La mayor parte de California, el sur y sureste de Estados Unidos fueron inicialmente colonizados por es-pañoles, es decir, a nuestros efectos, por la lengua española. Los acontecimientos históricos posteriores quitaron a España el control de estas tierras, pero al igual que lo que sucedió con la presencia de la len-gua árabe en la Península, aunque en un lapso muchísimo más breve, el español no desapareció de esas tierras: mas aun, hoy, con la emigración hacia Estados Unidos de centenares de miles de hispanoha-blantes, esa presencia larvaria se está reactualizando, de manera que en estos momentos Estados Uni-dos es una región en la que viven más de 40 millones de hispanohablantes, lo que convierte al español en la segunda lengua del país, después del inglés, y la segunda comunidad hispana mundial.

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6. Situación actual

Quiero decir que esta situación actual es resultado de la primera gran expansión del español, la del siglo XVI, a la que se suma la segunda gran expansión, que estamos viviendo, propia del último tercio del si-glo XX y los primeros años del XXI.

Es evidente que una presencia tan contundente del español en el mundo occidental no puede pasar desapercibida desde ningún punto de vista. El avance y desarrollo de la lengua motivados por su enorme expansión, no puede sino favorecerla desde muchos puntos de vista, dotándola de una vitalidad y de una dinamicidad comparables a otras lenguas también utilizadas por millones de individuos, como por ejemplo, el portugués o el inglés, para poner ejemplos cercanos a nuestra realidad en esta parte del planeta.

Por cierto no son idénticos los procesos de desarrollo y, sobre todo las causas y características de los procesos del español comparados con los que han sufrido y sufren las otras dos lenguas nom-bradas, sobre todo porque en la conciencia lingüística española existe una importante conciencia nor-malizadora en el sentido de que todos y cada uno de los usuarios del español medianamente sensibles a las cuestiones del lenguaje, sienten la necesidad de alguna forma de regulación o, mejor dicho, de legis-lación de la lengua. Pero volveré más adelante sobre esta cuestión, pues es decisiva para entender la si-tuación actual de esta lengua.

Es necesario ahora comparar los dos grandes momentos de expansión del español, como anoté más arriba, el acaecido en el siglo XVI y el que asistimos ahora, de fines del siglo XX, comienzos del XXI. (V. Elizaincín 2016).

En ambos momentos históricos se dieron dos acontecimientos de historia cultural que, por su coincidencia, llaman mucho la atención, y dicen, además, mucho sobre la interrelación lengua-je/sociedad.

En efecto, la primera gran expansión fue precedida por, o fue simultánea a la culminación litera-ria de la lengua española en el período ‘de oro’ de esa literatura, a la que ya me referí antes. De la misma manera, la segunda gran expansión, la actual, es precedida por, o es simultánea al, gran florecimiento de la literatura hispanoamericana, movimiento que suele ser conocido como el boom de esa literatura. En esta oportunidad, hay que nombrar a creadores de la talla de Jorge Luis Borges, Juan Carlos Onetti, Jo-sé Donoso, Arturo Roa Bastos, Mario Vargas Llosa, Gabriel García Márquez, Carlos Fuentes, Juan Rul-fo, Alejo Carpentier, José Lezama Lima, y tantos otros; entre los poetas, Pablo Neruda, Pablo de Ro-kha, Juan Gelman, Ernesto Cardenal, Gonzalo Rojas, Nicanor Parra, etc., quienes conforman este par-naso excepcional de la literatura en lengua española producida fuera de España en el siglo XX.

Y la otra coincidencia se relaciona con la lengua misma. Ya dije antes que en el siglo XVI con-cluye un proceso de estandarización iniciado algunos siglos antes, lo que llevó a una cúspide innegable de la lengua misma. De ahí en más la lengua pudo contar con los instrumentos imprescindibles para su legitimación como lengua, a saber, gramáticas y diccionarios y otras obras de reflexión filosófica sobre la misma lengua o sobre el lenguaje en general. De manera que este proceso, interno, de algún modo, apoyado en el esplendor de la expresión poética de la época, configura un panorama excepcional.

Exactamente lo mismo (salvando la distancia de tiempo y espacio) con lo que acontece hoy. Se puede hablar de una segunda estandarización del español, que la está convirtiendo en una lengua uni-versal, de alcance global. Y ello se logra, por un lado, por el aumento incesante de sus hablantes, o usuarios; por otro por la aparición de espléndidas obras de descripción lingüística del español, en un ni-vel comparable al del siglo XVI, sin más. Y me refiero, fundamentalmente, no a la labor de los lingüis-tas profesionales, que describen la gramática de la lengua, y la explican, sino a la producción de investi-gación promovida por la Asociación de Academias de la Lengua Española (ASALE).

6.1 La producción bibliográfica académica sobre el español

Entre otras, que nombraré más adelante, sobresale nítidamente la Nueva gramática de la lengua española (Real Academia Española/Asociación de Academias de la Lengua Española 2009-2011) de responsabi-lidad principal de Ignacio Bosque (el ponente del magno proyecto, según la tradición terminológica aca-

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démica española). Poco después, esta obra fue continuada con una adaptación a los efectos de la ense-ñanza, el Manual de la Nueva Gramática de la lengua española y aun con otro libro más pequeño, adaptado para las necesidades escolares, Nueva gramática básica de la lengua española.

Se trata del proyecto más ambicioso jamás realizado de descripción y explicación in totum del es-pañol. En ella se dan cabida no solo todas las orientaciones lingüísticas más interesantes en materia de descripción gramatical, sino todas las variedades del español, todos los niveles y, muchas veces, aun la dimensión diacrónica. La magna obra, que había sido precedida por el libro en tres volúmenes del mis-mo Ignacio Bosque en colaboración con Violeta Demonte (eds.), Gramática descriptiva de la lengua española, marca un antes y un después en la historia de los estudios sobre el español y es tal su significación e im-portancia (quizás nos cueste aun ver su real valor por el hecho de ser tan cercana a nosotros) que puede sin duda compararse, por su impacto y por su carácter de iniciadora de una época nueva, con la gramá-tica castellana de Antonio de Nebrija de fines del siglo XV (1492).

La ASALE publicó además una ortografía del español (Real Academia Española/Asociación de Academias de la Lengua Española 2010) en dos versiones, una más extensa, detallada y erudita y otra para usos prácticos y escolares que vino a plantear en forma muchas veces discutible, pero seguramente con buen criterio, una posición novedosa de cómo establecer la ortografía de una lengua, en el difícil equilibrio entre la tradición, lo conservador, y lo nuevo, lo más moderno, y quizás mejor adaptado a las necesidades de quienes escriben en español.

No puede olvidarse que el ámbito ortográfico es aquel más nítidamente normativo en una len-gua, ya que se trata de la formulación de reglas estrictas sobre cómo escribir, reglas que deben ser aprendidas en forma específica por quien aprende el idioma. Y ello crea hábitos muy arraigados de los cuales es muy difícil deshacerse. De ahí que el cambio de regla ortográfica es normalmente resistido por el usuario de esa lengua, de manera tal que suele pasar mucho tiempo antes de que se adapte un cambio de una grafía determinada.

Y ello es mayormente visible en el español ya que se trata de una lengua muy extendida geográ-ficamente que mucho más que otras, manifiesta y acepta con necesidad y hasta urgencia la autoridad en materia lingüística, ni qué decir en materia ortográfica.

Ha habido también en el ámbito de la ASALE una producción muy interesante en materia de diccionarios, de diferente tipo y utilidad. Sobresale la actual revisión del hasta ahora llamado popular-mente ‘Diccionario de la Real Academia Española’, o ‘Diccionario de la RAE’ que luego de la gran revi-sión que se procesa en estos momentos pasará a llamarse ‘Diccionario de la Lengua Española’ (DLE).

Sea como sea, esta gran producción científica (insisto que me refiero solo a la producción aca-démica en el sentido de proyectos llevados adelante por las academias, no a la producción de los lin-güistas y filólogos de todo el mundo sobre el español) sumada al boom de la literatura hispanoamericana de la segunda mitad del siglo XX motivan y dan pie a esta segunda gran expansión de la lengua, ahora a escala universal.

7. Alcances y limitaciones de la situación actual

Se trata entonces de un nuevo proceso de estandarización, que lleva a que el español ocupe la posición que disfruta hoy en el ámbito internacional. Sin embargo, no se trata de un proceso concluido total-mente, y es materia de discusión saber si logros más amplios y ambiciosos pueden ser alcanzados aun por esta lengua.

Veamos el caso de los siguientes ámbitos de uso: la diplomacia internacional, Internet y la acti-vidad científica.

Muchos, pero no todos los organismos internacionales, tienen al español como una de sus len-guas oficiales. Tomemos el caso de las Naciones Unidas (UN) que tiene al español como una de sus lenguas oficiales, es decir que, legalmente, puede usarse sin más. Pero otra cosa diferente son las len-guas de trabajo de todo el sistema de organismos dependientes de las Naciones Unidas, donde el espa-ñol no puede compararse a las dos lenguas que prevalecen desde siempre con esta función, (es decir, lengua en la que, por ejemplo, se redactan los documentos oficiales), el inglés en primerísimo lugar, y el francés. De manera que, en este ámbito, hay un potencial de desarrollo enorme todavía. Por cierto, el

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español es lengua oficial en todos los organismos internacionales, de ámbito regional en Hispanoaméri-ca, como la Organización de Estados Americanos (OAS, por su sigla en inglés).

En cuanto a Internet, su posición es también muy destacada. Según datos del Instituto Cervan-tes, alrededor del 8 por ciento de los usuarios de la red se comunican en español; teniendo en cuenta los c. 2.500 millones de internautas en el mundo (cifra que crece día a día), se trata de una cifra muy esti-mable. Aun cuando es alto el número de páginas de Internet creadas en español, no supera, ni mucho menos, a las creadas en inglés.

En forma general, y en relación a este ámbito de uso, están por delante del español el inglés y el chino; pero, si se razona como el Instituto Cervantes, que acota con razón que si se toma en cuenta que el chino es hablado por los nativos mayoritariamente, podremos considerar al español inmediatamente después del inglés. Deberá considerarse también la situación, hacia fines del siglo, del francés con la in-corporación de hablantes nativos en el continente africano

Y en cuanto a la actividad científica, nuevamente es el inglés el que lleva la delantera, en todos sus aspectos. La preeminencia de la actividad científica en este idioma, que lleva aparejado el hecho de que la gran mayoría de los descubrimientos científicos y tecnológicos nacen en inglés, lo que no necesa-riamente significa que lo hagan en territorios donde el inglés sea la lengua oficial o de uso corriente, la dota de un gran prestigio y la transforma en una necesidad inocultable para todos aquellos que deseen comunicar científicamente sus hallazgos e invenciones.

Ello se ve a simple vista, la gran mayoría de las revistas científicas, como también los foros, congresos, simposios, encuentros en general entre científicos de diferentes procedencias lingüísticas se dan en inglés, y solo en inglés.

Quizás el campo de las humanidades, de la filosofía y de las ciencias sociales pueda ser un poco diferente. Por ejemplo, hay una gran producción de estudios sobre la lengua y la cultura españolas escri-ta en español, lo que no deja de tener su lógica. Pero no es un hecho que pueda desequilibrar la actual balanza, que se inclina favorablemente hacia el inglés.

Considero estos aspectos un freno al impulso expansionista del español, que he llamado su se-gunda gran expansión.

8. El ‘hispanismo’

Debo todavía dar cuenta en este lugar de un fenómeno que es propio del español, a saber, el hispanismo. El Diccionario de la Lengua Española consigna este sentido en la acepción 4. del vocablo: ‘Afi-ción al estudio de las lenguas, literaturas o cultura hispánicas’. Se trata de una corriente general de afini-dad intelectual, académica, artística, cultural en general, con todo lo que represente o se refiera a estos aspectos de la civilización afincada en el espacio geográfico español e hispanoamericano. Puede tratarse de una afición, como define el Diccionario antes citado, pero puede ser más que eso, y referir también a aspectos científicos y académicos de estudio e investigación llevados adelante sobre temas como los es-bozados antes.

Creo que su origen se encuentra en la ciencia filológica alemana del siglo XIX, cuando florecie-ron en las universidades de ese país las diferentes filologías relacionadas con las principales lenguas eu-ropeas derivadas del latín, a la luz de la también nueva Romanística.

Contribuyó, además, el movimiento artístico del romanticismo, también del siglo XIX, que tuvo como una de sus fuentes de inspiración a España y su cultura. Baste citar por ejemplo, el caso emble-mático, por varios motivos, de la pieza teatral Hernani del poeta francés Víctor Hugo.

En la jerga académica, hoy, un ‘hispanista’ es alguien que se dedica a los estudios hispánicos. Y si bien algunos de los miembros de la familia léxica que esta palabra integra se comparten con las pro-venientes de otras culturas neolatinas (se habla de un ‘lusitanista’, un ‘italianista’, un ‘catalanista’) el pro-pio sustantivo hispanismo no tiene correlato con otros cercanos. No se habla del ‘lusitanismo’ para re-ferir a todos los aspectos, populares y académicos, relacionados con la lengua portuguesa, ni de ‘italia-nismo’ para referir a lo propio de la lengua italiana. Los posibles y existentes (pero no recogidas en el Diccionario que vengo citando) ‘Lusitanística’, o ‘Italianística’ están reservados solo para cuestiones es-trictamente académicas, como, por cierto también ‘Hispanística’. Como cultores de estas disciplinas

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surgen los nombres, ‘italianista’, ‘lusitanista’, ‘hispanista’; todo muy parecido entre las lenguas que cito, excepto la existencia y el contenido de hispanismo, que junta en su significación cuestiones relativas al es-tudio e investigación de las lengua y culturas de este origen, y la afición más o menos pintoresca a los aspectos más evidentes de la cultura popular hispana. Y eso, creo, hace la diferencia, y establece ese plus a la hora de justificar, en su justa medida, la expansión actual del español en el mundo.

El español ha avanzado tanto en base a las circunstancias explicadas antes, relacionadas direc-tamente con la lengua, o su estudio en contexto amplio, como también por causa de otras circunstan-cias indirectas.

9. El papel de América en el proceso

Y a este propósito hay que observar el papel que cumple América en este proceso, protagonista inocul-table de este estado de cosas; por un lado, su crecimiento demográfico, mucho mayor, naturalmente, que el de España, la cuna del idioma; hoy son muchos más los hablantes americanos de español que los propios españoles Y, por otra parte, el descubrimiento contemporáneo de América, digamos, como campo propicio para los negocios e inversiones internacionales que han mostrado la conveniencia del conocimiento del español para la interacción propia de las negociaciones de este tipo.

También contribuye a esta situación el gran desarrollo a nivel mundial de la industria de la ense-ñanza de español como segunda lengua, o extranjera. Prácticamente todos los países americanos hispa-nohablantes han desarrollado, a través de sus sistemas universitarios, o por otro tipo de iniciativas, pro-gramas de enseñanza de español como segunda lengua dirigidos especialmente a jóvenes que desean una rápida incorporación de la lengua (también España, por cierto). Se trata, asimismo, de una forma de la actividad turística, el ‘turismo lingüístico’, que suele ser reconocida, y a veces hasta fomentada y par-cialmente financiada por los diferentes estados, conscientes del importante flujo de divisas que esas ac-tividades representan.

En el escenario mundial de lo que he llamado la industria de la enseñanza de lenguas, y en for-ma concreta, de la lengua española, sobresale por su gran expansión mundial el Instituto Cervantes, una dependencia del estado español, concretamente del Ministerio de Exteriores y que cuenta con centros e institutos en todo el mundo, desde China a Estados Unidos, de Brasil a Finlandia. Creado a imagen y semejanza de otras instituciones, también oficiales, de países europeos que tienen como objetivo la di-vulgación de la lengua y la cultura de sus respectivos países en el mundo, tales como la Alliance Française, el Goethe-Institut, el Instituto Camões, más recientemente el Instituto Confucio etc., el Cervantes cumple una intensa, ingente, y no desprovista de crítica, tarea en todo el mundo. No se limita a la enseñanza de la lengua española sino que ha creado vastos y ambiciosos programas de formación de profesores de es-pañol como segunda lengua, ha creado exámenes de competencia de español estandarizados que pue-den aplicarse en cualquier lado en principio, y desarrolla una labor promocional de la cultura hispánica, y del hispanismo en general, muy importante.

No por fin, debe estimarse también el papel que juega el turismo y el negocio de los viajes en general ya que América es un destino apetecible, variado y atrayente. Ello conlleva la promoción y la consecuente popularidad de la lengua, las culturas y las tradiciones nativas que este tipo de actividad económica turística (muy rentable, por otra parte) promueve y jerarquiza.

Dentro de este estado de cosas, entonces, si bien la posibilidad de equipararse con el inglés es por ahora remota, el español goza, en el concierto de las restantes lenguas con hablantes que se pueden contar por decenas de millones, un lugar muy privilegiado, y a ello contribuye, sin duda, la presencia de Hispanoamérica como territorio de inestimable valor desde este punto de vista.

A su vez, dentro de este grupo de lenguas cuyos hablantes se cuentan por decenas de millones (exceptuando el inglés por las razones antes referidas) el español es la que se extiende por más países, lo que hace una diferencia muy significativa, por ejemplo, con el chino, o el hindi, utilizados mayoritaria-mente en el marco de una sola unidad política territorial.

Este aspecto da al español una riqueza y una versatilidad muy grande, ya que es vehículo de muy variadas culturas, tradiciones, visiones de mundo, políticas, ideologías, etc. Todo lo contrario a una len-gua que, por más hablantes con los que cuente, si es vehículo de limitadas visiones, o ideologías, o polí-

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ticas, corre el riesgo de parcializarse, unificarse, uniformizarse. No es este el caso del español, por cier-to, y ahí radica una de sus fortalezas más importantes.

10. Conflictividad interna en el mundo hispánico.

Esa enorme diversidad, sin embargo, es también fuente de conflictividad en el ámbito hispánico.

Anoté antes una de las características de la comunidad lingüística hispanohablante, a saber la necesidad manifiesta en sus usuarios sensibles a cuestiones del idioma (grupo que suele coincidir con el de aquellos que más educación formal - esencialmente libresca y basada en el lenguaje - han recibido) de contar siempre con un marco de referencia para legitimar su uso del lenguaje, sobre todo en su variedad escrita. Nada extraño, por cierto. La teoría lingüística conoce este hecho como una de las funciones que cumplen las lenguas estándar, a saber, la de funcionar, precisamente, como un marco de referencia y, de esta manera, aclarar las posibles dudas del usuario en cuanto a los usos lingüísticos (V. Garvin y Ma-thiot en Fishman 1968).

Pero no todas las comunidades lingüísticas similares a la que conforma el español, son iguales en este aspecto. Solo basta comparar esta situación con la que predomina en el portugués, donde dicha función existe sí, pero mucho más laxamente. Lo mismo que en la comunidad anglohablante.

Y esta función de referencia es cumplida, en el ámbito hispánico, por las academias de la lengua, creadas en todos los países hispanohablantes a imagen y semejanza de la Real Academia Española, de 1713, creada, a su vez, a imagen de la Académie Française (1635) y, anterior a esta, la Accademia della Crusca (1583).

Esta situación, se relaciona, a su vez, con el hecho de que España fue la metrópoli del inmenso imperio que difundió la lengua española en América. La época colonial, es decir, la vida de América como colonia de España, duró algo más de trescientos años, mientras que la vida independiente de las colonias, liberadas de España a lo largo de todo el siglo XIX (desde 1810 las más tempranas hasta 1898 la última, Cuba), tienen una vida de doscientos años. Es decir que América, colonizada por Espa-ña/Europa ha vivido más tiempo bajo la égida de la metrópoli que de forma independiente. Y ello no es un dato menor.

La conflictividad y las acciones bélicas que separaron (y fragmentaron) a las excolonias españo-las en una multitud de países independientes crearon situaciones, estados de ánimo, cosmovisiones, la mayoría de las veces encontrados.

Y aun cuando las excolonias siguieron usando la lengua española luego de su liberación de Es-paña, y quizás precisamente por ello, en realidad, el vínculo con la metrópoli no se disolvió nunca y si bien atravesó diferentes tipos de vicisitudes en el relacionamiento, la idea de que el centro era Madrid pervivió y pervive, sobre todo en materia lingüística.

En realidad, se trata de una lengua que, debido a su gran expansión, ha admitido más de un tipo de proceso estandarizador. Se habla entonces de un proceso de estandarización policéntrica, ya que pueden (y de hecho, son) varios los centros urbanos que han desempeñado este papel en la historia del español. Sin duda, aparte de Madrid, cumplen ese rol centros de indudable gravitación en el mundo hispánico como México, o Buenos Aires, o Lima (no por casualidad coinciden con las antiguas capitales de los virreinatos coloniales).

Pero volviendo al momento histórico más trascendente de la vida de América: la liberación de España durante el siglo XIX. Fue un movimiento independentista (inspirado por ideales liberales deri-vados de la Revolución Francesa y de la Revolución norteamericana) que, como dije antes, duró casi un siglo, si se fecha comienzo y fin del proceso en 1810 y 1898, respectivamente. Tan largo proceso estuvo colmado, como es fácil imaginar, de numerosísimas complejidades, avances, retrocesos, y finalmente, soluciones, aunque aquellas finalmente logradas no fueran por cierto, de igual aceptación por todos quienes estuvieron de parte del propósito general y hasta cierto punto abstracto, de lograr la liberación del imperio español (muy debilitado por la irrupción de las fuerzas napoleónicas en España y el adve-nimiento de las nuevas ideas en los episodios de las cortes de Cádiz).

En efecto, todo el proceso de liberación de España puede verse como una mera sustitución de clase dominante, que pasó de una clase española (aunque ya con nativos americanos) privilegiada en es-

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te aspecto, a otra, de cuño más nativo, o con intereses más radicados en América por lo menos. Por lo que la revolución, con ese nombre, lo fue hasta cierto aspecto.

Las clases dominadas (que coinciden básicamente con la población indígena) no modificaron un ápice su situación, como no lo han hecho, a grandes rasgos, hasta ahora. También es relativa la cuestión de la continuidad o no de los patrones culturales y lingüísticos de la época colonial. Como anoté antes, ningún nuevo estado americano adoptó alguna lengua indígena como lengua oficial del país, al contra-rio, se continuó utilizando la lengua del conquistador, el español. Apenas en el siglo XX algunos esta-dos (Paraguay, Perú) han consagrado la lengua indígena como oficial o cooficial con el español, pero ello, en la mayoría de los casos, no es más que un decreto en el papel. De ahí a la práctica concreta de reivindicación y pleno usufructo de los derechos ciudadanos a través de la lengua nativa, media un abismo.

A mediados del siglo XIX surgieron en América algunas voces de intelectuales, escritores, poe-tas, políticos (en el Río de la Plata, por ejemplo) que propugnaron una suerte de independencia cultural de América con respecto a España para completar o culminar la liberación política y, hasta cierto punto, económica. Promovieron una idea de modificación de la ortografía, por ejemplo, que por cierto no prosperó; obviamente, las posibles modificaciones a la forma de escribir no afectarían mucho la lengua en cuestión, que de todos modos iba a seguir siendo el español.

De manera que la liberación de España es algo relativo. Sí en términos políticos, menos en los aspectos económicos y sociales (las clases privilegiadas siguieron siendo las mismas), y nada en los as-pectos culturales y mucho menos lingüísticos.

Hacia finales del siglo XIX, sin embargo, y en el ámbito de la creación literaria, surge un impor-tante movimiento americano, el Modernismo (iniciado por el nicaragüense Rubén Darío, uno de los poetas más extraordinarios que haya dado jamás la lengua española) de amplia difusión luego en España que, sin embargo, tiene sus raíces fuera de América, como el mismo Darío lo reconoció en diferentes oportunidades. Fue un atisbo de independencia en el ámbito cultural y más específicamente en el de la creación literaria, complementado luego con el extraordinario boom de la narrativa latinoamericana de la segunda mitad del siglo XX, al que me he referido más arriba.

11. Resumen

Todas estas cuestiones ya anotadas tienen que ver con el asunto central de esta situación actual de la lengua española, que trataré de resumir; por un lado, una prodigiosa expansión a lo largo y ancho del mundo, expansión motivada por las causas y circunstancias de las que di detenida cuenta antes; esa ex-pansión actual (la segunda de su historia) no es suficiente aun, y hay dudas de que llegue alguna vez a serlo, para poder parangonarse en todas sus funciones con el inglés, por ejemplo; debido a ciertas carac-terísticas específicas de las culturas y mentalidades hispanas (si es que algo así existe) el hablante medio español exige de quien corresponda que le facilite herramientas para evacuar dudas que le surgen cons-tantemente en relación, sobre todo, con la escritura; las comunidades hispanas, desde hace muchísimo tiempo, y comenzando en 1713, han decidido confiar el rol de planificación y legislación de la lengua a las instituciones denominadas ‘academias’; en el contexto de la independencia de las colonias españolas, durante el siglo XIX se plantearon cuestiones relativas a la independencia cultural de América con res-pecto a España, ideas que no llegaron nunca a concretarse, limitándose la independencia a aspectos po-líticos, económicos, pero de ninguna manera a cuestiones sociales, culturales y mucho menos lingüísti-cas; por esta razón, si bien los lazos políticos con la metrópoli se esfumaron, no sucedió lo propio en materia cultural y lingüística, lo que hace pervivir el relacionamiento, además de otras razones, de Espa-ña con sus viejas colonias.

Y, desde algún punto de vista, esta situación promueve ciertas dificultades y contradicciones,

reales o imaginarias, en el relacionamiento de las comunidades hispanohablantes americanas con la co-rrespondientes de España, que deben contabilizarse (aunque no haya estadística posible para medirlas; más aun, hay quienes ni siquiera las advierten) como uno de los frenos seguramente indeseables al im-puso expansivo del español en esta primera mitad del siglo XXI.

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cl*tics or affixes? On the relevance of illocutionary level in the controversial categorization of a series of interrogative morphemes

in Central Veneto and other north-eastern varieties

Elisabetta Fava Abstract Data and arguments brought forward in literature sometimes locate the same examples in rather different or even opposite frameworks. The analysis of the systematic correspondences between speech acts and grammatical forms offers one case which has highlighted several contradictions in the categorization of a series of morphemes, characterizing prototypically, but not exclusively, both direct yes/no and wh-questions in Central Veneto, as well as in many other north-eastern Italian varieties (Fava 1993, 2014). Diachronically, these interrogative morphemes, as well as procl*tic subjects, derive from the non-cl*tic nominative forms of ancient medieval dialects, continuing the forms of the Latin nominative (Renzi & Vanelli 1984). Synchronically, the representations of these markers, which involve distinctions of gender, number and person, have been dealt with controversially, ranging from cl*tic inversion (Brandi & Cordin 1989; Rizzi 1986) to NP in SpecAgr inversion (Poletto 1993) or to the affixing of an interrogative conjugation or mood, a definition going back to nineteenth-century grammars (Nazari 1876; Pajello 1896; Rohlfs 1968; Fava 1993, 2001; Loporcaro 2009). These variations and contradictions in the categorization of this illocutionary device deserve a theoretical approach that takes into account the different weight given to different levels of empirical generalizations. The aim of this paper is to defend the methodological importance of semantics and pragmatics research in verifying and controlling linguistic stipulations. Starting from meanings and functions involves a change in perspective in the evaluation of data, including independently observed phenomena, which forces us to unify them in order to offer a coherent grammatical description. Grammatical research on illocutionary force devices, which requires a comparison of several levels of grammatical description – phonology, morphology, syntax and lexicon – and has a unifying explanation in function, calls for an assessment of their organization and interaction. Reconsidering some of the major proposals for north-eastern varieties, I will bring to light some of their common inflectional features by pinpointing the properties that have structural relevance and require systematic reconsideration. Moreover, crosslinguistic considerations of Vicentino and Italian grammatical illocutionary devices highlight the relevance of inflectional variation strategies in expressing illocutionary force variations in both languages. KEYWORDS: north-eastern Italian varieties • Central Veneto • cl*tics • affixes • illocutionary force 1. Introduction Research into the systematic correspondences between speech acts and grammatical forms, which involves different levels of analysis (syntax, morphology, lexicon) and has a unifying functional explanation in expressing illocutionary force, has brought to light a series of contradictions in the categorization of a series of morphemes belonging to Central Veneto, with its Vicentino, Paduan and Rodigino ramifications, as well as to other north-eastern varieties, such as Pagotto (Alpago area), Bergamasco and Trentino. These peculiar illocutionary devices involve complex distinctions of gender, number and person. Attested as early as the sixteenth century, they are still very much alive and characterize prototypically, but not exclusively, both direct yes/no questions and direct wh-questions. Diachronically, these interrogative morphemes, as well as procl*tic subjects, derive from the non-cl*tic nominative forms of ancient medieval dialects, continuing the forms of the Latin nominative (Renzi & Vanelli 1984). Synchronically, their grammatical descriptions are rather controversial, both in pre-theoretical and in theoretical terms, as they are considered either affixes of an interrogative conjugation (and sometimes as interrogative mood or even particle), inverted subject cl*tics or even inverted NP in specAgr position. This disagreement on their interpretation constitutes grounds for analysis in itself, as

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it has consequences not only on the descriptive adequacy level, but also seems to have some bearing on the explanatory principles of linguistic theory. To provide descriptively adequate analysis of these interrogative morphemes, the structures of declarative and interrogative sentences need to be classified within a variety of syntactic, semantic and pragmatic contexts. Then, appropriate semantic characterization, verified in a variety of semantic and pragmatic contexts, is necessary. A contrastive framework, moreover, highlights the relevance of semantics and pragmatics not only in checking linguistic stipulations, but also in allowing wider generalizations and in abstracting properties of language. Although these interrogative morphemes derived from the enclisis of subject pronouns, synchronically they are inflectional affixes rather than cl*tics. This paper first presents various inventories of these two series of procl*tic subjects and of interrogative morphemes (§2). It then offers some arguments to defend the affix interpretation, which allows some generalizations concerning these varieties and unifies some seemingly unrelated features: the morphophonological processes of the affixes, their extension with respect to the corresponding procl*tic subject series, and the defectiveness of the interrogative paradigms (§3). The attribution of an interrogative mood to north-eastern varieties may constitute a rather interesting and prominent case of the difficulties in deciding, to rephrase John Austin, “when a mood is interrogative and when it is not” (Austin 19752: 59-60). In a number of languages, the interrogative mood fits formally into the modality system (Palmer 1986, Sadock & Zwicky 1985). Accepting the bipartite distinctions between moods and syntactic types, I will try to defend firstly the existence of an interrogative mood as a characterizing feature of interrogative sentences in the north-eastern varieties considered herein, and secondly to illustrate the wide range of mood variations both in Central Veneto and in Italian (Fava 1999, Lyons 1997). If grammatical illocutionary force devices are to be treated as clusters of grammatical features, they need to be illustrated on two levels, i.e. by type-defining a set of features and their variations thereof (Fava 1995a, 1995b, 2005). In both these varieties and Italian, mood variations, together with other features, contribute to express illocutionary force. This proposal provides a unified explanation of the nature and organization behind the strategies for expressing illocutionary force (§4). 2. Central Veneto and north-eastern interrogative morphemes: a controversial analysis While it is uncontroversial that these interrogative morphemes, as well as cl*tic subjects, both derive from the non-cl*tic nominative forms of medieval dialects, continuing the forms of the Latin nominative, their synchronic descriptions have received contradictory grammatical representations and categorization. Three main categories have been identified: affixes of an interrogative conjugation (or mood), cl*tic pronouns postposed by syntactic inversion, and inverted NP subjects in Agr position. These fluctuations in the categorization of these series of interrogative morphemes are not only problematic on a pre-theoretical level, but also relevant to theoretical analysis. The problems raised by the different categorizations of this illocutionary force device do not simply reflect terminological problems, but are rooted in the theory of grammar. According to Gerhard Rohlfs (1968: 257), the interrogative conjugation is widespread in northern and central dialects and is found in areas such as Turin, Milan, Bologna, Parma, Emilia Romagna, and as far as south as Lunigiana in Tuscany. His thesis on an interrogative conjugation or mood was first developed for the Central Veneto varieties by Zamboni (1974) and reconsidered for Vicentino by Fava (1993, 2014). It was extended to Bergamasco by Bernini (1987), to Pagotto by Zörner (1997), and to Trentino by Loporcaro & Vigolo (2000) and Loporcaro (2003, 2009). The interpretation of the Vicentino affix is consistent with nineteenth-century grammars (Nazari 1876; Pajello 1896; Pittarini 18842). The categorization of affixes contrasts with the cl*tic inversion found in the same areas as the so-called interrogative conjugation. According to Renzi & Vanelli (1984: §2), the areas of subject procl*tic varieties without inversion are limited to three non-bordering areas only: one in the West of Italy as far as Lombardy, one in the South West (Tuscany), and one in the East.

Table 1 summarizes various proposals for inventorying and categorizing the two series of procl*tic subjects and interrogative morphemes. The idiosyncratic morphophonological processes of affixation justify the solutions proposed by Loporcaro & Vigolo for Trentino and by Zamboni for

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Central Veneto to describe the interrogative affixes of the verb nar ‘to go’ and kantar ‘to sing’ not as isolated morphemes, but as complete verbal conjugations of the PRS.IND.

cl*tic inversion in the northern Italian varieties has been discussed since Lambrecht (1981), Safir (1982, 1986) and Haiman (1991). According to them, while NP inversion in standard French is like that in Surselvan and English, non-standard French (Marie elle dit) and northern Italian varieties (Maria la dise) are both characterized by the presence of the obligatory subject cl*tics with the full subject.

TABLE1:Inventoryofprocl*ticsubjectsandinterrogativemorphemesinsomenorth-easternvarieties

Person, number and gender features

1SG 2SG 3SG.M 3SG.F 1PL 2PL 3PL.M 3PL.F

Padovano, Vicentino, Polesano (Zamboni 1974) Verbal morphology go te ge el ga gemo / gavémo gavì i ga Interrogative conjugation

kantoi kantito kanteo (kantelo)

kantemoi kanteo kante(l)i (kanteli)

Vicentino: Valdagnese (Fava 1993; Loporcaro 2009) cl*tic pronouns Ø te el la Ø Ø i le Affixes Ø/-i/ ti -to -lo -la Ø -o, Ø -(l)i -le Paduan (Haiman 1991) Atonic subject pronouns el la li le Postverbal atonic subject pronouns

i to el la i u li le

Paduan (Poletto 1993); cfr. Rovigo: Loreo dialect (Poletto 2000) Subject cl*tic pronouns Ø te el la Ø Ø li le Interrogative subject cl*tics (generalized inversion)

i to lo la i o li le

Trentino (Brandi & Cordin 1981, 1989; Rizzi 1986) Non inverted subject cl*tics

te el/l la

Inverted subject cl*tics t lo la Trentino: nònese (Loporcaro & Vigolo 2000; Loporcaro 2003, 2009) cl*tic pronouns Ø Ø el la Ø Ø i le Interrogative affixes vonte vas val vala nante nau vai vale Pagotto (Zörner 1997) cl*tic Pronouns te al/l la li le Interrogative particles e tu lo la e o li le Bergamasco (Bernini 1987) Procl*tic subjects Ø te [a]l la an/am/’im Ø I Suffixes -i/ Ø -t/ Ø -l -la -i -f/ Ø -i -le

Inversion proposals, however, consider interrogative morphemes as cl*tics, cl*tics in INFL position, or even NPs in Spec Subject position. Both cl*tic and cl*tic in INFL proposals argue that there is a movement of pronouns from a pre-verbal position to a post-verbal position. According to Brandi & Cordin (1981, 1989) and Rizzi (1986), although inversion characterizes both (standard) French and northern Italian dialects, French subject pronouns are cl*tics in NP position, while Northern Italian subject procl*tic pronouns are cl*tics in INFL. Thus, the inversion characterizing these Italian varieties could be considered parallel to standard French only on the surface (disela?, dit-elle? ‘does she say?’). According to Rizzi (1986), this inversion strategy is only seemingly identical, since the distribution of the obligatory pronouns with the presence of the full subject NP is different. Although subject cl*tics in French and in northern Italian dialects pattern alike, the pronoun is moved from the Subject NP position in French and from INFL in northern Italian varieties. French and Northern Italian cl*tics differ in their categorical status and structural position. For Rizzi, the same inversion ‘result’ can be obtained regardless of whether the pronoun is moved from a subject NP position (French dit-elle?) or from INFL (Trentino disela?).

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FIGURE1:ThedifferentcategorizationsofFrenchandNorthernItaliansubjectcl*tics(Rizzi1986)

French subject cl*tics Northern Italian subject cl*tics

IP IP

NP I’ NP I’

I VP I VP

elle Dit la dize

In Rizzi’s approach, however, “‘the very notion ‘subject cl*tic’ thus turns out to define a spurious syntactic class; still the notion of cl*tic appears to be linguistically significant elsewhere, in that it seems to define a genuine natural class in the Phonetic form” (Rizzi 1986: 414). In contrast, a different categorization is proposed for Paduan by Cecilia Poletto (1993). She observes that the Paduan inventory of subject cl*tics and interrogative subject cl*tics is different and only the interrogative cl*tics are complete for all six persons. According to this author, Paduan is a case of generalized inversion, analogous to the root phenomenon of English and French interrogative inversion. She proposes a distinction between the two classes of Paduan cl*tics: while subject procl*tics of declarative forms are treated as part of the INFL node according to Rizzi’s proposal (1986), Paduan’s generalized inversion morphemes are considered NPs in SpecAgr position. The NP in the SpecAgr inversion proposal requires the interrogative subject cl*tics inventory to be complete (six persons), and Paduan satisfies this condition. This generalized inversion in Paduan is parallel to French and English in that Paduan interrogative cl*tics are not heads, but NPs. While Poletto maintains, as do Brandi & Cordin (1981, 1989) and Rizzi (1986), that Northern Italian subject procl*tics are cl*tics syntactically in INFL, Paduan interrogative cl*tics are considered NPs in SpecAgr position, as proposed for French by Rizzi & Roberts (1989). They are not heads adjoined to Agr, as subject cl*tics are, but NPs in SpecAgr; therefore the Paduan series of interrogative subject cl*tics is parallel to French subject cl*tics. To update Rizzi’s analysis, “they are not heads adjoined to Agr, as assertive subject cl*tics are, but NPs in SpecAgr” (Poletto 1993: 216). The difference between assertive cl*tics and interrogative cl*tics in Paduan is, according to Poletto, the same as that found between two languages such as standard Italian and French, namely pro drop. The interrogative series is complete because, for Poletto, no pro can be licensed. In other words, “Paduan is a pro-drop language only in assertive and embedded interrogative clauses: in direct questions the structure is such that a pro-drop results ungrammatical” (Poletto 1993: 216). However, Poletto’s analysis poses major problems in the acquisition of these early varieties, considering how widespread bilingualism (or diglossia) is in Veneto (Fava 1978, 2011; Fava & Vigliocco 1993), in that two pro-drop varieties, Italian and Central Veneto, would present one non pro-drop structure only for the generalized NP inversion of interrogatives. Although Poletto (2000: 51-55) later rejected her former proposal after Kayne (1994) banned right adjunction, she seems to maintain her descriptive analysis of Paduan as a case of generalized inversion, and it is attributed to Loreo, a dialect of the Rovigo area.

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FIGURE2:FrenchandPaduaninterrogativestructures(Poletto1993:216) CP

Spec C’

Quand C IP

I Spec I’

V+cl. t1 I VP

t2

A summary of some major proposals for the north-eastern area follows:

Affix (Rohlfs 1968; Fava 1993; Loporcaro 2003, 2009) > Inverted subject cl*tic pronouns (Renzi & Vanelli 1984, Vanelli & Renzi & Benincà 1985) > NPs in INFL position (Brandi & Cordin 1981, 1989; Rizzi 1986) > NP in SpecAgr position (Poletto 1993)

3. cl*tics vs affixes. Synchronic and diachronic considerations The nineteenth-century terms interrogative conjugation and interrogative mood highlight both the unit created between the verbal and pronominal forms, and the relation between these morphological markers and the ‘question’ act. The terms ‘interrogative cl*tics’, ‘inverted cl*tics’ or ‘cl*tic inversion’, however, highlight a series of partial parallelisms between procl*tic subjects and interrogative morphemes, which both derive from the non-cl*tic nominative forms of medieval dialects and continue the forms of the Latin nominative. However, the inventories set out in Table 1 illustrate the vast range of microvariations in the descriptions of the number and form of these two series of procl*tic subjects and interrogative morphemes and, in some cases, the different descriptions for the same variety could be ascribed to a lack of descriptive adequacy. A first step towards reconsidering the different proposals in a unified way lies in trying to identify a few common properties by focusing on major features that have structural importance and must thus be reconsidered. A first major common unifying point among the different categorizations is that in the majority of analyses the inventory is not isomorphic. Furthermore, although cl*tic inversion proposals should set up a one-to-one correspondence between the two sets (procl*tic subjects and interrogative morphemes), interrogative morphemes are not in parallel distribution with the procl*tic subjects; they are greater in number and the affixation thesis does not postulate an isomorphism between the two series. According to the seminal research by Renzi & Vanelli (1984), there are several asymmetries between encl*tic and procl*tic pronouns, as well as several implicational generalizations holding of Northern Italian subject procl*tics and encl*tics. For Renzi & Vanelli, the number of encl*tic pronouns found in interrogative sentences is equal to or greater than the number of procl*tic pronouns found in declarative sentences, and their generalization fits the varieties considered in Table I very neatly. Manzini & Savoia (2005, vol. I: 69- 121) provide a few classes of systematic counterexamples to Renzi & Vanelli’s analyses, but they do not discuss any of the varieties considered in Table I, nor do they systematically consider the relationship between declaratives and interrogatives (Loporcaro 2007). The asymmetry between the number of procl*tics and encl*tics needs to be explained, as does the fact that

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there are more interrogative morphemes than the corresponding procl*tic forms. Consider Vicentino, one of the 10 varieties of the 27 analyzed in Renzi & Vanelli (1984), where the distribution of subject procl*tics displays a rather common pattern: 2SG, 3SG and 3PL, while the interrogative morphemes have two more elements, the 1SG -i and 2PL -o, derived from the Latin ego and vos respectively. Synchronically, these two morphemes are unrelated to any procl*tic forms. While a primary condition for identifying cl*tic pronouns is their recognizability as partially independent pronouns, the -i and -o morphemes have no correspondence with any procl*tic forms, nor are they identifiable, at synchronic level, with the pronominal procl*tic forms. While the other interrogative morphemes are in parallel distribution with procl*tic subjects (-to/ te, -lo/ el, -la/ la, -(l)i/ i, and -le/le respectively) and are partially recognizable as pronouns, the -i and -o morphemes are no longer identifiable, at synchronic level, with any pronominal procl*tic form. If a primary condition for identifying cl*tics is their recognizability as partially independent pronouns, either in preverbal or in postverbal position, the 1SG -i and 2PL -o morphemes have recognizability only in a diachronic perspective. 3.1 The split of the interrogative paradigm and its paradigmatic extensions The inventories of procl*tic subjects and interrogative morphemes present the asymmetries between the two series, but they also provide common ground for a number of generalizations, namely that interrogative morphemes are morphologically different from procl*tic subject inventories, and that there is a split between the declarative and the interrogative paradigms that requires consideration. The extensions of interrogative morphemes may be constructed on a paradigmatic relation within the interrogative paradigm. Rohlfs (1968: 258) notes a case where the interrogative morphemes are derived by an extension constructed by analogy within the interrogative paradigm. He observes that in the texts of the eighteenth century playwright Carlo Goldoni there are 1PL.IND forms, such as semio? or andemio?, derived by an extension of the 1SG -o (from the Latin ego) to 1PL. There are other cases where interrogative morphemes are extended in number and forms compared with the procl*tic forms on the basis of the interrogative paradigm per se, not in relation to the procl*tic paradigm. In Bergamasco, where interrogative morphemes are greater in number, there is only one 3PL.SBJ procl*tic i, both for masculine and feminine, while the corresponding interrogative morphemes split into two forms: the 3PL.M -i and 3PL.F -le, in a parallel way to the 3SG.M -lo and 3SG.F -la. A further example is the Bergamasco interrogative morpheme 1SG -i, which is present only in oxytone forms (fo-i? ‘do I do?’), while the interrogative 1PL -i is extended to verbs with either oxytone or non-oxytone syllabic structures: an fa-i? ‘do we do?’, an fenése-i? ‘do we finish?’. Moreover, note that the procl*tic subject an co-occurs in these forms with the interrogative morpheme 1PL -i (Bernini 1987). Allomorphs of the stems are another case of interrogative paradigmatic extensions. A case in point is offered by the conditional forms, a hybrid partly constructed by the periphrastic type infinitive + habebam and partly by the imperfect subjunctive, whose forms adopt those of the ancient plus-perfect. They are partially, but systematically differentiated in Central Veneto. For instance in Vicentino, which is characterized by the lateral realization of the phoneme l as central, a feature differentiating it from other Veneto varieties, the declarative and interrogative 3COND diverge in their stems (Table 2). The allomorphs of the stem of the 3SG.COND and 3PL.COND interrogatives are systematically different from the corresponding declaratives. When compared with the 3SG.COND.F la saria ‘she would be’, the interrogative 3SG.COND.F sarissela ‘would she be?’ reveals an extension of the 3SG.COND and 3PL.COND by paradigmatic analogy with the 2SG.COND stem sarissito. This interrogative 3COND form cannot be described as derived from an inversion from the declarative form (la saria ~ *saria-la or *sariela), but has to be reconsidered within the paradigmatic context of the interrogative forms (sarissi-to, sarisse-la), where the interrogative stem, marked for sequential simplification, is modified on the basis of analogical internal pressure from the interrogative paradigm and is excluded by the corresponding declarative paradigm. The split of the two paradigms provides some evidence that the process of univerbation between the verbal and pronominal forms has taken place in the interrogatives. Evaluations centred on the word, in its paradigmatic relations, highlight the affixal and no longer agglutinative character of this

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interrogative illocutionary force device. The interrogative conditional forms are extended on the basis of the interrogative paradigm per se, and not in relation to the procl*tic paradigm.

TABLE2:Vicentinodeclarativeandinterrogative2pl.mand3pl.fconditionalverbalforms DECLARATIVE INTERROGATIVE

2COND.SG 2COND.SG. te torissi you would take torissito? would you take?

3COND.SG.M 3COND.SG.M el toria he would take torisselo? would he take?

3COND.SG.F 3COND.SG.F la toria she would take torissela? would she take?

3COND.PL.M 3COND.PL.M i toria they would take torisseli? would they take?

3COND.PL.F 3COND.PL.F le toria they would take torissele? would they take?

The extension of interrogative morphemes may also affect syntactic distribution. Many cases where the interrogative morpheme is not syntactically expected are discussed in the Pagotto analysis described by Lotte Zörner (1997: 92-97). Pagotto’s rather complex distribution of interrogative morphemes is sensitive to verbal tenses, to moods and to different syntactic contexts on the basis of its interrogative paradigmatic relationship. Meteorological verbs or constructions, for instance, do not present subject cl*tics in the declarative form, but interrogative forms do present interrogative morphemes: nevigéa ‘it snows’~ nevigéelo ‘does it snow?’. In the same way, in sarà bel tempo ‘it will be good weather’ ~ sarilo bel tempo? ‘will it be good weather?’, -lo is not in relation to the corresponding declarative form, but it is presumably reanalyzed by speakers only as a marker of the interrogative mood. The same observation may be made in cases where the interrogative morpheme -lo coexists with an indefinite pronoun kwándo ñeralo kwalkedun? ‘When someone will he come?’. The morpheme -lo no longer has any referential value, but functions only as an interrogative marker. Moreover, there are other contexts where Pagotto presents the interrogative -lo where no procl*tic subjects are allowed in the corresponding declarative. This is an aspect of a grammatical construction where the feature of referential meaning in the interrogative morpheme is lost. This lack of complementarity between declarative and interrogative forms also appears in the Bergamasco 1PL interrogative sentences where both the procl*tic subject an and the interrogative morpheme -i co-occur: an kanta ‘we are singing’ ~ an kantei? ‘are we singing?’ (Bernini 1987: 95). 3.2 Morphophonological processes in interrogative paradigms There are more arguments providing further evidence for the different status of the interrogative morphemes compared with the procl*tic subjects. While subject conditions on distribution have some of the properties of independent words, interrogative morphemes belong to the class of affixes. The two series of interrogative morphemes and procl*tic subjects differ in their distribution with respect to the verbal host. The degree of selection of the two series with the word they accompany is different. While subject cl*tics establish a low level of relationship with the host, interrogative morphemes demonstrate a high degree of selection with the stem and its extension. cl*tics can be attached to other cl*tics, while interrogative morphemes cannot, and they occur only after the finite verbal form (or the auxiliary, in compound forms). cl*tics have a stable phonetic form, are not modified by the structure of their hosts, have properties of independent words, and do not lead to any modification of the host’s phonetic structure (Zwicky 1995, 1992; Miller & Sag 1997; Zwicky & Pullum 1993). In Northern Italian, for instance, the voicing of intervocalic z in V_V at boundaries of words does not apply with the object cl*tic lo: lo sapeva ‘she knew it’ and not *lo zapeva. cl*tics can be attached only to materials containing other cl*tics. In Vicentino, procl*tic subject el may be clustered with the preceding negation: Nol lo dize (NOT.SBJ IT.ACC says). cl*tic clusters admit only register alternation with word

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reduction and they may affect only the cluster of the cl*tics (me ne /min togo ‘for.me.of.it. I take’, te ne/tin toi/tui ‘for.you.of.it you take’). In contrast, interrogative morphemes may occur only after the finite verbal forms, or the auxiliary, in compound forms. There are some arguments proving that interrogative morphemes have effectively become affixes and constitute part of the inflected verbal system. Consider some contrasts between procl*tic subjects and interrogative morphemes in the Altovicentino variety of Valdagno. a) The 3PL.M procl*tic subject is always i, with both monosyllabic or polysyllabic hosts: i ga ‘they

have’, i fa ‘they do’, i dize ‘they say’, i zmorosa ‘they kiss each other’. However, the corresponding 3PL.M interrogative morpheme alternates -i or -li, according to the host’s syllabic structure. The interrogative morpheme -i characterizes monosyllabic hosts only: gai? ‘have they?’, fai? ‘do they do?’, zei? ‘are they?’, dai? ‘do they give?’, while the interrogative morpheme -li systematically characterizes bisyllabic and polysyllabic hosts: dizeli? ‘do they say?’, vienli? ‘do they come?’, zmorozeli? (do they kiss each other?).

b) Interrogative morphemes behave differently in monosyllabic and polysyllabic hosts ending in

-a, such as in the 3PRS.IND and 3IPFV.IND of -are verbs. The monosyllabic hosts are the only ones not to modify the vowel -a when there are the interrogative morphemes 3SG -lo, -la and 3PL -li, -le: the open vowel -a is maintained in the monosyllabic host: la va ‘she goes’ ~ vala? ‘does she go?’, la ga ‘she has’ ~ gala? ‘does she have?’, la lo fa ‘she does it’ ~ lo fala? ‘does she do it?’. In polysyllabic hosts, however, the 3SG -lo, -la, and 3PL- li, -le determine the systematic closing of the vowel in proparoxytonous contexts with penultimate preceding syllable with the open vowel - a. Consider 3PRS.IND and 3IMP.IND of the verb kantar ‘to sing?’: la kanta ‘she sings’ ~ kantela? ‘does she sing?’, la kantava ‘she was singing’ ~ kantavela? ‘was she singing?’. Such systematic closing of the unstressed vowel is a word phenomenon of the Central Veneto area. It characterizes lexical phonology as in the stylistic variants of anara/anera ‘duck’ or even arna, with metathesis and weak vowel syncopation.

An analogous systematic phenomenon of closing the - a vowel is found in Trentino (te kánta ~ kántitu), in Pagotto (al kanta ~ kantelo) and in Bergamasco (al kanta ~ kantel, an kanta ~ an kantei).

c) Lateral + vowel and vibrant + vowel stems present modifications that offer an argument for the

existence of a complete univerbation of the stem and its extension. Table 3 illustrates the contrast between declarative an interrogatives the PRS.IND 3SG and 3PL M and F declarative and interrogativel lateral + vowel and vibrant + vowel stems. Interrogative morphemes lead to the dropping of the unstressed vowel of the internal syllable and consonant dissimilation with the passage from continuous lateral to non-continuous vibrant. Vowel dropping and consonantal dissimilation cause a resyllabification, whereby morphological transparency is only partially lost. The split of the two declarative and interrogative paradigms provides some evidence that the process of univerbation between the verbal and pronominal forms has taken place in the interrogatives.

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TABLE3:Vicentinolateralandvibrantstemmodificationsandresyllabification

DECLARATIVE INTERROGATIVE 3IND.SG.M 3IND.SG.M

el vole he wants vorlo? does he want ? el more he dies morlo? does he die?

3IND.PL.F 3IND.PL.F. la vole she want vorla? does she want? la more she dies morla? does she die?

3IND.PL.F. 3IND.PL.F. le vole they want vorle? do they want? le more they die morle? do they die?

In Pagotto, the shift is reversed, from bisyllabic to polysyllabic structures, with -i or -e insertion: te kapís ‘you know’ ~ kapísi-tu? ‘do you know?’, la kapís ‘she knows’ ~ kapísela? ‘does she know?’.

d) Some interrogative forms ent the complete forms, as well as some allophonic lexicalized

variants. These non-automatic phenomena are characterized by rapid rhythm and syllable reduction and generally reveal sensitivity to style (Table 4). The obscuring of the vowel from volito? to vuto? offers some evidence of univerbation based on a paradigmatic process that reduces a diphthongization from a vuotu attested in the history of Vicentino lexicon. The interrogative forms attested since the sixteenth century include no puoto ti (Maito 1947).

TABLE4:Vicentino2prs.sgallophonicinterrogativelexicalvariants

INTERROGATIVE REDUCTION dizito?/dito? tolito?/toto? volito?/vuto? credito? crito? (rural) do you say? do you take? do you want? do you believe?

e) Another case of lexicalized variants is offered by the interrogative morpheme -i, which is no

longer productive, but is present at the 1SG.PRS.IND of the auxiliaries esar ‘to be’ and gaver ‘to have’ in simple and compound forms. These auxiliaries have various interrogative allophones: soi?/sonti?/sinti ‘am I?’ and onti?/gonti?/goi?/ginti? ‘have I?’ respectively. They may also appear in compound forms, such as soi/sonti/sinti ben vestio? ‘am I well dressed?’ and onti/gonti/ghinti/goi rason? ‘am I right?’. These interrogative forms are in stylistic variations and constitute minimal pairs with the 1SG.PRS.IND declarative go ‘I have’ and son ‘I am’. The forms with analogical -t are rather rural varieties and are the result of a series of processes of analogical change attested in ancient Trentino and Veronese (Loporcaro & Vigolo 1998; Loporcaro 2003). In Vicentino, they may lead to an attraction towards the articulation of the preceding vowel, which closes further: gonti?/ginti? and sonti?/sinti?. The affixation of the -i leads to a metaphonic attraction towards the articulation of the preceding vowel, which closes, and also includes the almost exclusively rural idiosyncratic stems farinti/faremoi? ‘shall we do?’ registered in Pittarini (1884)2 and still attested. This closing of the medium high /e/ and /o/, which shift to /ì/ and /ù/ through /i/ is very important morphologically in the structure of Vicentino. Non-morphologized metaphonic phenomena are not limited ‘to a few leftovers’, but they are still productive and fairly widespread even in the urban Vicentino variety. They have systematic positions and constitute one of the criteria for determining whether this variety belongs to Central Veneto (Zamboni 1974: 39; Trumper 1972). This metaphonic opposition, which characterizes bisyllables and trisyllables, the penultimate syllables of which are open, always applies within a word unit. It concerns verbal-based lexemes, such as the -ire stem presenting 2SG affix of indicative forms in (mi) koro ‘I run’, (ti) te kori/ kuri ‘you run’, (mi) togo ‘I take’, and te toi/te tui ‘you take’; and nominal-based lexemes, as in the variation between SG and PL nouns, e.g. fazolo

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‘bean’ fazoi /fazui ‘beans’, ovo ‘egg’ ovi/uvi ‘eggs’, and tozo ‘boy’ tozi/tuzi ‘boys’. It also occurs in derivative forms, as in tozeto ‘little boy’, which presents a secondary effect of the metaphonic rule that may also lead to the closing of the unstressed vowel in tusiti ‘little boys’.

The shift to ì and ù through u characterizes Pagotto: te ol ‘you want’ ~ utu? ‘do you want?’, te se ‘you are’ ~ situ? ‘are you?’.

Summarizing, various conditions govern the combinability of procl*tic subjects and interrogative morphemes. While distribution of subject procl*tics is governed by syntactic rules, that of interrogative morphemes is governed by the stem and its morphological and lexical extension, in that it concerns the structure of parts of an independent word. 3.3 Idiosyncratic morphophonological modifications and defectiveness in interrogative paradigms The interrogative inventories proposed by different authors in Table 1 refer in some cases to the present indicative only. While there are no arbitrary gaps in the set of host-cl*tic combinations, however, interrogative morphemes may fail to occur depending on tenses, moods or other grammatical or phonological features of the verb. There are cases where an interrogative morpheme may present itself in one context with important morphophonological processes but, in another context, be defective. In these cases morphophonological processes combine with another well-known test in linguistic literature, the whereby arbitrary gaps in the set of combinations are characteristic of affixed words rather than of cl*tic groups (Zwicky 1985: 283; Zwicky & Pullum 1983: 504; Sims 2015). Vicentino provides a case of defectiveness in some verbal forms and important morphophonological processes of affixation in other forms. Consider the 1PRS.IND.SG: while the 1PRS.IND.SG auxiliaries present the interrogative morpheme -i and are characterized by important morphophonological processes (§3.2 d), defectivity occurs in the 1PRS.IND.SG interrogative form of main verbs (zugo ‘I play’~ zugo? ‘do I play?’) as well as the other tenses and moods of the main verbs. Defectivity characterizes the not only the 1PRS.IND.SG interrogative form of main verbs, but there are other tenses and moods where no interrogative morphemes occur. Defectiveness of the paradigm also affects 2PL INTERROGATIVE -o, which is productive only in the PRS.IND of both auxiliaries and main verbs. It constitutes a minimal pair with the corresponding declarative form in the present tense of magné ‘you eat’ ~ magneo? ‘do you eat?’, tazì ‘you are silent’ ~ tazio? ‘are you silent?’, and in the compound forms with auxiliaries gavì tasesto ~ gavio tasesto?, while other tenses and moods have hom*ophonous 2PL declarative and interrogative forms. This is the case of the IPFV.2PL.IND declarative and interrogative omophonous forms: tazevi ‘you were keeping silent’ ~ tazevi? ‘were you keeping silent?’, gavevi sé? ‘you were thirsty’ ~ gavevi sé? ‘were you thirsty?’, or in PRS.COND. gavarissi sé? ‘you would be thirsty’ ~ gavarissi sé? ‘would you be thirsty?’. These gaps in combinations characterize affixes, but do not characterize cl*tics. Subject cl*tics do not present any restrictions based on tense, aspect or person distinctions of the main verb or the auxiliary. Once the inventory of procl*tic subjects is provided, they always occur in the appropriate syntactic contexts, except through interaction with other syntactic rules. These irregularities and defectiveness in the occurrence of forms through different tenses and moods and other semantic and phonological features systematically characterize both Pagotto and Bergamasco. Defectivity of the interrogative paradigm according to various tenses and moods is described by Lotte Zörner for Pagotto and by Bernini for Bergamasco. For example, in Pagotto, the 2PL morpheme -o is productive only in the PRS and in the FUT (kanté ~ kantéo?, kanteré ~ kanteréo?), while the IPFV and the COND declarative and interrogative forms are hom*ophonous. In Bergamasco, the IPFV and COND 2SNG verbal forms are also hom*ophonous (te fae ‘you were doing’ ~ fae? ‘were you doing?’ te farèset ‘you should do’ ~ farèset? ~ ‘should you do?’). In contrast to these north-eastern varieties, a very different pattern characterizes other Eastern varieties, such as Ferrarese, where important morphophonological processes affect the interrogative conjugation, which is fully productive, but at the expense of making the relationship between the declarative and the interrogative verbal forms less transparent (la kanta ~ kantla?, la kantava ~ kantavla?), or even completely blurring them (i kantava ~ kantavi?).

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4. Moods as features of illocutionary force The presence of an interrogative series of affixes, or an interrogative conjugation or mood according to Nazari (1876), poses some problems in grammatical theory. Although it is well-known that the illocutionary force devices may involve a number of elements, including word order variation, special particles and conjunctions, and intonation, mood is one of the grammatical categories which seems to have received a great deal of attention in speech acts theory. It is, however, far from being a well-established grammatical category, and is adopted in rather different ways, depending on the language and theoretical framework being used (Palmer 1986). There are interesting passages in Austin where he seems to leave wide open the problem of how to deal with this grammatical category, the mood, in his research into the criteria, or rather the set of criteria, simple or complex, which involve both grammar and vocabulary, and which permit the interpretation of an utterance as an act of a certain type, of a certain type such as an order, a question, or an assertion. He notes that “... both grammarians and philosophers have been aware that it is by no means easy to distinguish even questions, commands and so on from statements by means of the few and jejune grammatical marks available, such as word order, mood and the like: though perhaps it has not been usual to dwell on the difficulties which this fact obviously raises. For how do we decide which is which? What are the limits and definitions of each?” […] “[…] this leads, however, to many troubles over, for example, when a verb is in the imperative mood and when it is not […]” (Austin 19752: 1-2, 59-60). While he is fully aware of the complexity of identifying the categories and strategies used to indicate particular types of acts, his few and cautious observations have been taken up in subsequent literature in a rather oversimplified way. Despite the diversity of solutions proposed in literature, many current formulations of illocutionary force devices sometimes reveal a conception that systematically overlooks the possible scope for variation within the different devices. There has been a tendency to limit the correlation of grammatical structure and illocutionary force either to just one single feature, mood, or to group them into types, leaving them undefined or organizing them into broad categories. In both cases, variations and microvariations are not discussed. In the literature about speech acts in relation to grammatical structure, there sometimes seems to be a prevailing notion which would be better expressed with the notion type of sentence, in that declarative mood, exclamative mood or interrogative mood very often indicate a cluster of syntactic markers corresponding to an act rather than a verbal inflectional feature. According to Davidson, for instance, “we have on the one hand the syntactic, and presumably semantic, distinction among moods (such as: indicative, imperative, optative, interrogative) and on the other hand the distinction among uses of sentences (such as: to make assertions, to give orders, to express wishes, to ask questions). The moods classify sentences, while uses classify utterances” (Davidson 1979: 9). However, these modal distinctions inherited from Ancient Greek grammars, in which the indicative, optative, imperative and subjunctive (categories) are well-represented in their verbal system, have to be reconsidered in a language-specific approach. In this perspective, the current terminology is rather unsatisfactory. As observed by John Lyons (1977), the term imperative to indicate a syntactic type is inappropriate, since it suggests that there is a specific mood, such as a category of verb inflection, in correlation with a type. For Lyons, moods do not necessarily characterize syntactic types. Terms such as indicative or imperative indicate aspects of a grammatical category, mood, which, like time and aspect, characterizes verbal structure. On the other hand, terms such as declarative and interrogative refer to syntactic types and concern the sentence. Finally, terms such as assertion, question or command are semantic and pragmatic notions concerning the type of act, and pertain to the utterance. Three distinct levels are therefore established (Table 5).

Lyons’s proposal comprises no interrogative mood. “In none of the languages with which traditional grammar has been concerned, and possibly in no attested language, is there a distinct mood

that stands in the same relation to questions as the imperative does to mands” (Lyons 1977: 748).

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TABLE5:Lyonstripartitedistinctionsofmoods,typesandutterances mood: indicative --- imperative type of sentence: declarative interrogative jussive utterance: assertion question Mand

The attribution of an interrogative mood to north-eastern varieties may constitute an interesting and highlighting case of the difficulties in deciding, to rephrase Austin, “when a mood is interrogative and when it is not”. Accepting, with Lyons, the bipartite distinctions between moods and types, I will try to defend, contrary to Lyons, firstly, the existence of an interrogative mood as a feature of type in north-eastern varieties, and secondly, to illustrate the richness of mood variations both in Vicentino and in Italian. Interrogative morphemes characterize prototypically both direct yes/no and wh-questions, but they may also characterize exclamative, counterfactual and jussive structures as in examples (1)a – e: (1) a Quanto sio cresù!

how much be.2PL-o grown ‘How much are you grown!’ b Savessito tuto, te=sarissi un maestro. you know.2SG.SBJV.to all you=should_be a teacher ‘If you knew everything, you should/would be a teacher.’ c Varda, se-to, de studiar ben. look know.2SG.PRS.IND-to, to study properly ‘Try, mind you, to study properly.’ d Vardé, savi-o, de studiar ben. look know.2PL.PRS.IND-o to study properly ‘Try, mind you, to study properly.’ e Tento, se-to, de studiar ben. careful know.2SG.PRS.IND-to to study properly ‘Careful, mind you, to study properly.’

While the first two structures, exemplified in (1)a and b, exclamatives and counterfactuals respectively, are syntactically productive, the interrogative forms in (1)c – e, are constructions whose syntactic, semantic and pragmatic properties may be described within a syntax-lexicon grammatical continuum (Fillmore et al. 1998). The two interrogative morphemes 2SG-to and 2PL-o are in construction within the context of a parenthetical of a semifactive predicate such as ‘know’, seto, or savio, with main ‘attention’ predicates such as IMP varda ‘look’, or adjectives such as tento ‘careful’. This extension of interrogative morphemes to non-question acts characterizes other languages where the interrogative morphemes fit into a modality system. Parallel problems exist in Menomini, Hidatsa, Huichol and Ngiyambaa, where interrogative mood may express larger categories, but is still related to questions, such as the speaker's ignorance of the facts, or doubt (Derbyshire 1979; Frantz 1971, 20092; Palmer 1986). A structural property both of Veneto varieties and of Italian is the absence of a one-to-one correlation between mood as a category of verbal inflection (indicative, subjunctive, conditional) and syntactic type. Moreover, there are mood co-occurrence restrictions in Italian canonical forms whereby the indicative and the conditional may characterize a declarative, exclamative or interrogative syntactic type, as in (2)a, b, or c: (2) a Adesso stanno/starebbero bene.

now they-be.IND/be.COND well ‘Now they are/should be well.’

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b Come stanno/starebbero bene adesso! how they-be.IND/ be.COND well now

‘How well they are/should be now!’ c Adesso come stanno/starebbero? now how be.IND/be.COND ‘How are they/should they be now?’

The imperative aside, the present or past subjunctives in the main clause also affect the structuring of various Italian sentence types; they may be a feature of a jussive sentence, such as the order in (3)a, the permission in (3)b, or a counterfactual exclamative referring to the ability to reflect on past events in order to imagine how things could have turned out, as in (3)c: (3) a Venga qui subito! come.3.PRS.SBJV here immediately ‘Come in at once!’ b Venga pure dentro come.3.PRS.SBJV please inside ‘Please, do come in.’ c Fosse venuta in tempo! be.3.PRS.SBJV.IPFV come.PAST.PRT.SG.F in time ‘If she had come in time!’ In the same way, both north-eastern varieties and Italian main interrogative clauses may present subjunctives or infinites. Their presence is limited to non-canonical or marked constructions, e.g. the Vicentino and Italian optative-dubitative, as in (4)a, and the rhetorical interrogative, as in (4)b, both of which are linked to variations in the type of act associated with them (optative-dubitative questions, rhetorical questions). In other words, variations in the mood in relation to canonical-interrogative type involve variations in the corresponding act: (4) a Ke la=vegna doman? Che venga domani?

that 3SG.F=come.3.PRS.SBJV tomorrow that come.3SG.SBJV tomorrow? ‘Might she come tomorrow?’ b Offenderme mi? Offendermi io? offend.INF=myself I offend.INF=myself I ‘Would I be offended?’

The presence in the main clause of che together with PRS.SBJV or IPFB.SBJV mood is associated with an optative-dubitative. The PRS or PST.INF in the main clause is associated with both wh- rhetorical questions, as well as with yes/no questions, which do not introduce new themes, but refer to events or situations already known about in some way. They can express doubt, incredulity or uncertainty by referring to the necessity, probability or improbability, possibility or impossibility of the event (Table 6). Echo questions, whose characterization is omitted in Table 6, permit a definition in sequential terms by repeating all or part of what has just been said. They also present a large spectrum of variation in inflectional constraints. Moreover, their variations in form and function do not only concern a relaxing of the constraints on the inflected features of the verb. In echo questions the relaxing of other conditions and properties may concern properties of the wh- pronouns, such as the absence of movement (wh in situ), violations of island constraints, and presence of multiple wh-. Non-canonical forms are related to the structure of the interaction and concern both what follows (rhetorical questions do not need a follow-up answer from

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another speaker) and what has already been said (in echo questions, by another speaker). The correlation form-function does, of course, have its limits, and marked forms are probably the only means of performing marked acts. Rhetorical or echo questions can be asked by using grammatical structures with no particular linguistic markers. Whereas the canonical forms can always, or nearly always, be used, the non-canonical forms are only used to perform a particular function. Since the former can substitute the latter, but not vice-versa, the correlation form-function only goes one way; if the form is marked, the function is marked, but not vice-versa. Specification of canonical illocutionary acts, expressed by canonical syntactic type, and of the non-canonical illocutionary acts with the same illocutionary force such as in the case of the relaxing of certain conditions and properties, constitutes a second level, where the information conveyed by the syntactic type may be further specified by further convergence or divergence from the latter. This second level also includes the specification of the non-canonical illocutionary acts with the same illocutionary force. These correlations of form and function that characterize speech acts are better described by an approach in which mood, in the strictest sense of the word, is treated as a feature of type, thus permitting some kind of variation. To deal with variation, each type may contribute to the specification of the literal force of an utterance on at least two different levels of representation. On the first, the constraints of co-occurrence of a series of features define a class of syntactic types of canonical form as abstract constructions characterized by systematically interrelated features (Fava 1995a, b).

TABLE6:VicentinoandItalianinflectionalvariationsinyes/nocanonicalandnon-canonicalinterrogatives (echointerrogativesomitted)

Vicentino Italian

Inflectional features Questions Canonical forms

Non-canonical

forms Canonical forms

Non-canonical forms

IND.INT canonical question

Viento? ‘do you come?’

COND.INT vegnarissito? ‘should you come?’

IND mitigated and echo question

te vien? ‘you come?’

COND mitigated and echo question

te vegnarissi? ‘you should come?’

IND canonical question vieni?

‘do you come?’

COND canonical question

verresti? ‘should you come?’

che SBJV optative/dubitative question che la vegna?

‘would she come?’ che venga? ‘would she come?’

INF

rhetorical question taser?

‘to be silent?’ tacere? ‘to be silent?’

INF [+context of nominative assignment]

rhetorical question vegner lu?

‘to come he?’ venire lui? ‘to come he’

This characterization offers wider generalizations when a one-to-one correspondence between features and forces is assumed, and enables an initial grouping of illocutionary acts with the same force, expressed grammatically (Fava 1999). The second level of representation is characterized by variations

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in one or more features of the canonical type, which in turn are related to variations in the function of the associated act. Both in Italian and in Vicentino, a series of variations in form and function between mood and type affects the relations between canonical and non-canonical interrogatives. Indeed, the subjunctive in the optative-dubitative, the imperative mood in the echo-interrogative, and the infinite form in rhetorical interrogative are all possible and do occur in Veneto or in Italian main clauses, but their presence is limited to non-canonical or marked constructions. Inflectional variations also characterize strategies conventionally associated with orders and prohibitions, both in Central Veneto and in Italian. Table 7 illustrates how these variations have a wealth of persons and moods to distinguish reverential and non-reverential orders and prohibition. It also includes constructions in semifactives and strong assertive predicates. Vicentino has the interrogative 2PRS.INT semifactives seto and savio ‘do you know?’ in parenthetical with attention predicates that are used to intensify orders and prohibitions. Italian semifactives and strong assertive predicates are constructions in complementary distribution, and while the 2PL.SBJV.PRS sappiate is a construction characterizing positive contexts only, the 2PL.SBJV.PRS non crediate and non pensiate characterize negative contexts only.

TABLE7:VicentinoandItalianinflectionalvariationsinexercitives

Inflectional features Vicentino Italian Reverential

Orders

2.SG.IMP Falo! ‘do it’ Fallo ‘do it’ - 2PL.IMP Felo Fatelo -

3SG.SBJV El lo fasa deso La lo fasa deso Lo faccia ora +

3PL.SBJV I lo fassa deso! Le lo fassa deso! Lo facciano ora +

INF Farlo sempre Farlo sempre

Construction 2.PRS.SG.INTERR parenthetical saver ‘know’ in attention predicates

Varda, seto, de -

Construction 2.PRS.PL.INTERR parenthetical saver ‘know’ in attention predicates

Vardé, savio, de -

Construction 2PL.SBJV.PRS semifactive assertive saver ‘know’ in positive contexts

Sappiate *Pensiate che *Facciate

+

Prohibitives

Not + infinitive Non farlo Non lo fare! -

IMP a infinitive No sta a farlo - IMP a infinitive No ste a farlo -

3SG.SBJV.PRS Nol lo fassa No la lo fassa Non lo faccia +

3PL.SBJV.PRS No i lo fassa No le fassa Non lo facciano +

Construction 2PL.SBJV.PRS strong assertives pensare, credere ‘think’ in negative contexts

Non pensiate Non crediate *Non telefoniate *Non sappiate

+

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Although moods may be considered just one of the features that characterize syntactic type – others being wh- pronoun properties, word order phenomena, non-subject cl*tic ordering and special particles – they constitute a major strategy both in north-eastern varieties and in Italian. When grammatical illocutionary force devices are interpreted as clusters of grammatical features, a representation on at least two levels of grammatical description, which considers the features defining type, with some possible variations from the latter, provides a unified explanation of the character and organization of these phenomena. 5. Conclusions In this paper, I have discussed aspects of the controversial categorization of a range of interrogative morphemes in north-eastern varieties, covering several persons, tenses and moods described at varying times as if they constituted an inflected feature in the word (conjugation or mood), a subject cl*tic pronoun, or even an NP in SpecAGR. The nineteenth-century terms interrogative conjugation and interrogative mood highlight the unit created between the verbal and pronominal forms, as well as the relation between the particular morphological marker and the ‘question’ act. This peculiar morphological feature of the verb bears witness to the shift from a strategy that uses the movement of subject cl*tic pronouns from a preverbal to a postverbal position to signal question acts to one that uses variations in the inflected form of the verb. Although interrogative morphemes now belong, at a synchronic descriptive level, to the verbal form and have become affixes, the relative ‘transparency’ with which the interrogative conjugation is formed by subject cl*tic inversion explains why these forms are commonly treated as pronouns. In the discussion of the inventories proposed in the different frameworks, I advocate the relevance of semantics and pragmatics within linguistic research. If some north-eastern varieties and Italian illocutionary force strategies are to be established, their organization of and interaction with interrogatives need to be assessed as they involve a comparison of several levels of grammatical description: phonological, morphological, syntactic and lexical. The number and importance of inflectional variations in north-eastern varieties and Italian, as well as within a given variety, mean that the relation between their different grammatical features, including mood, which can function as a feature of illocutionary force, are to be reconsidered. An adequate descriptive analysis of the morphosyntactic criteria which have developed around the notion of linguistic illocutionary force devices, intended as the linguistic elements that enable an utterance to be interpreted as a particular act, e.g. a request, a question, an assertion or an urge, gives argument for interrogative morphemes to be categorized as affixes. Within a tradition of research which associates grammatical properties with types of speech acts, the appropriate characterization of interrogative morphemes is relevant not only to descriptive adequacy level, but also appears relevant to the explanatory principles of linguistic theory. The affix interpretation and its extension through the interrogative paradigm allows some generalization concerning these different varieties, thus unifying some apparently unrelated features into a common structural description. There are, however, certain inadequacies in the solutions proposed in the current literature. These solutions often deal with the problems posed by Austin by considering only one of the various devices, i.e. mood, or by grouping them into main types or moods, without considering either the possible variations between types of act and types of sentences in different languages, or their possible variations within the same language. However, an adequate description of grammatical illocutionary force devices, or candidates for the role, i.e. for giving an utterance its literal force, leads to a discussion of some of the best known positions and stipulations about levels of representation for speech acts. The question as to whether speech acts are produced in a linguistically conventional way can be tackled once we have found a more linguistically adequate description of the sentences uttered to perform speech acts and, in particular, of the features which function as illocutionary force devices. The representation of an utterance’s literal force, one which unifies a series of generalizations regarding form and function, would enable a more precise evaluation of certain widespread theoretical positions on the integration of the linguistic level of representation (which according to the conventionality theory gives the utterance literal force) with other levels of representation. My proposal

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of a two-level representation for illocutionary force devices offers an explanation as to the character and the organization of a series of variations, thus allowing for the descriptive adequacy of grammatical descriptions within a series of distinctions of form and function, where inflectional variations, or moods, constitute a rich and articulated strategy for expressing illocutionary force, both in north-eastern varieties and in Italian. References Austin, John. L. 19752. How to do things with words. Cambridge, Massachusetts: Harvard University Press. Bernini, Giuliano. 1987. Morfologia del dialetto di Bergamo. In Sanga, Glauco (ed.), Lingua e dialetti di Bergamo e

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Morphologische Differenzierung: Schubkraft oder Mitnahmeeffekt?

Livio Gaeta Abstract Morphological differentiation is defined as the development of morphological variants which can be inferred by the speakers to shape the passage to a new, different category. In particular, the paper will focus on the particular change of the demonstrative or relative pronoun in German which happened to develop morphological variants with respect to the article. The variants can be taken to aim at easing the process of identification of the new category portraying a classical instance of push chain insofar as the change is driven by the development of a different function. Accord-ingly, they reflect an active Principle of Maximal Differentiation helping the speakers detect the units belonging to the new categories from the others. KEYWORDS: Morphology • Language change • Grammaticalization 1. Einführung Als Prolog im Himmel gelte folgendes Zitat aus einem Standardhandbuch zum Sprachwandel:

The big question in historical linguistics is how the individual speakers who acquire a community language can know or infer all the multifarious parameters of variation that they need to master in order to function as full-fledged members of the community. It seems that the orderly progression of [...] well-documented changes [...] holds the answer to this question. The progression can be modeled as a series of step-by-step modifications of variable rules, and hence it pre-supposes the formation and existence — in each speaker’s competence, at any time during the progression of the change — of a comprehensive network of association [...] in part without regard to the substantive character of the cat-egories, in part, apparently, constrained by reference to the substantive content of some categories. In supposing that such a network of association is part of every speaker’s competence, let us acknowledge that we are not going beyond what has traditionally been assumed. For this has been the standard assumption of grammarians and linguists since an-tiquity (Andersen 2001: 36).

In dem Zitat wird Wert darauf gelegt, dass der Sprecher imstande ist, Inferenzen aus der Sprachvariabilität zu ziehen, die ihm erlauben, das variable Sprachsystem zu meistern. Dabei wird die sich ergebende stufen-weise Entwicklung einzelner Sprachwandelphänomene einerseits in Verbindung mit der Ausarbeitung spe-zifischer Kategorien von der Sprecherseite her gesetzt, und andererseits in Verbindung mit einem übergrei-fenden Netzwerk von Assoziationen, die über die individuelle Sprechereinstellung weit hinaus laufen und allgemeine Prinzipien der Sprache als kognitives System ins Spiel rufen. Obwohl über diese Dialektik zwi-schen spezifischen „lokalen“ Faktoren und allgemeinen Prinzipien seit der Antike geforscht wird, ist aller-dings erst in der modernen Sprachwissenschaft das epistemologische Bewusstsein der Sprachwissenschaft-ler reif genug geworden, dass wir imstande sind, Prinzipien und Faktoren explizit zu nennen, die bei dem Folgerungsverfahren der Sprecher eine kausale Rolle spielen können. In diesem Aufsatz wird der Fokus auf das Phänomen der morphologischen Differenzierung gelegt, die im Grunde genommen in der Entwick-lung morphologischer Varianten besteht. Insbesondere werden wir versuchen zu verstehen, ob sich hinter der morphologischen Differenzierung eine tiefere Motivation versteckt, die mit der im spezifischen Falle vorkommenden Umkategorisierung zusammenhängt. In §2 wird die morphologische Differenzierung in Zusammenhang mit dem Schubkraft-Prinzip gesetzt, das dann in §3 anhand des deutschen Demonstrativ-pronomens erörtert wird; im §4 werden Schlussfolgerungen gezogen.

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2. Morphologische Differenzierung als Schubkraft-Prinzip Während morphologische Differenzierungen überall stattfinden (vgl. Andersen 2001 für eine Übersicht), wird hier besonders auf jene Fälle achtgegeben, die mit dem gesamten Bereich der Grammatikalisierung di-rekt oder indirekt zu tun haben. Es ist in dieser Hinsicht wohlbekannt, dass die Grammatikalisierung – als diachroner Übergang eines Morphems von einem lexikalischen zu einem grammatischen Status bzw. von einem weniger grammatischen zu einem stärker grammatischen Status – einen gewissen Verlust an mor-phologischen Eigenschaften aufweist, der die Umkategorisierung reflektiert (vgl. Hopper & Traugott 2003: 106). In diesem Zusammenhang wird normalerweise die erfolgte morphologische Differenzierung als Kennzeichen der stattgefundenen Grammatikalisierung gehalten. Zum Beispiel wird die flexionsmorpholo-gische Differenzierung des Verbs brauchen in den zwei folgenden Kontexten als Zeichen der Grammatikali-sierung von brauchen als Modalverb interpretiert (vgl. u.a. Gaeta 2002):

(1) a. Marie braucht / *brauch diesen neuen Mantel nicht. b. Marie verspricht / *versprich diesen neuen Mantel nicht *(zu) kaufen. c. Marie braucht / brauch diesen neuen Mantel nicht (zu) kaufen. d. Marie *sollt / soll diesen neuen Mantel nicht (*zu) kaufen.

Dass Modalverben stärker grammatische Morpheme als Vollverben darstellen, muss hier ohne weitere Er-klärungen bleiben. In diesem Zusammenhang sei hervorgehoben, dass sich von der älteren Form braucht, die in nicht-modaler Verwendung fortbesteht (1a) und dem morphosyntaktischen Verhalten der anderen Vollverben entspricht (1b), in der modalen Verwendung eine – wenn auch noch optionale und registerbe-zogene (vgl. Bittner 2010: 251) – Form brauch (1c) differenziert hat, die dem Flexionsmuster der Modalver-ben näherliegt (1d). Man beachte in diesem Zusammenhang, dass die alternative rein phonologische Erklä-rung, demzufolge die Form brauch sowohl für die 1. als auch für die 3.Ps.Sg. auf eine phonologische Reduk-tion zurückzuführen sei, der Tatsache nicht Rechnung trägt, dass die hom*onyme Form braucht der 2.Ps.Pl. keiner Reduktion untergeht. Dies lässt sich nur dadurch erklären, dass bei den Modalverben eine ähnliche Form müsst, sollt, usw. vorliegt, die der 3.Ps.Sg. muss, soll, usw. gegenübersteht. Nun stellt sich aber die Frage: Gehorcht diese morphologische Differenzierung einer gewissen Te-leologie? Bekanntermaßen hat die funktionale Linguistik des 20. Jahrhunderts versucht, eine positive Ant-wort auf diese Frage zu geben, die sich in den zwei unterschiedlichen Möglichkeiten der Schubkette bzw. der Ziehkette zusammenfassen lässt: Entweder erzwingt die neue Funktion, die zuerst eintritt, eine formale Differenzierung, oder umgekehrt führt die formale Differenzierung zu einer neuen Funktionalisierung. Die zwei kettenartigen Erklärungen folgen einem allgemeinen (teleologischen) Prinzip, das besagt, dass die Re-dundanz bzw. Allomorphie nur insofern erhalten bleibt, als sie eine gewisse Funktion entwickelt. Mit ande-ren Worten streben Sprachsysteme nach maximaler Funktionalisierung der Form-Bedeutung-Paare, die zu einer besseren Effizienz der funktionalen Belastung führen sollte. Einen solchen epistemologischen Hintergrund setzt das von Di Meola (2000: 144; 2002: 104) ange-nommene Prinzip der Maximalen Differenzierung (= PMD) gegenüber der Ursprungsstruktur voraus:

Prinzip der Maximalen Differenzierung „Im Zuge der Grammatikalisierung findet eine progressive Abkehr von der ursprünglichen mor-phophonologischen Struktur und semantischen Struktur sowie von der ursprünglichen syntakti-schen Umgebung der betreffenden Form statt“.

Insbesondere sollte das PMD als Schubkraft wirken, sodass die zustande gekommene Grammatikalisierung mit einer formalen Entsprechung gekoppelt wird, was zu einer „ikonischen“ Verteilung der Form-Bedeutung-Korrespondenzen führt. Die ikonische Natur dieses Prinzips lässt sich in diesem Fall auf das sogenannte Humboldt-Universal (vgl. Vennemann 1972; Gaeta i.E.) zurückführen, das besagt, dass eine

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Form bestenfalls einer Bedeutung entsprechen sollte. Das Humboldt-Universal fordert eine größere Effizi-enz des Sprachsignals, insofern als dessen distinktive Kraft dadurch erhöht wird. Demgemäß streben Sprachsysteme nach maximaler Funktionalisierung der Form-Bedeutung-Paare, d.h. nach einer größeren Effizienz der funktionalen Belastung in klassischen funktionalistischen Termini. Es muss betont werden, dass die Stärke des PMD daraus resultiert, dass die Differenzierung gegenüber der Ausgangsform „ange-strebt wird“, d.h. dass die Sprecher konkrete Sprachwandelstrategien in Gang setzen, damit zwei Formen, die sich funktional differenziert haben, auch formal differenziert werden wie im Falle von braucht / brauch. Laut Di Meola (2000: 144) „besteht also die allgemeine Tendenz, Unterschiede zu der Ausgangsstruktur zu maximieren“. Die starke teleologische Ausrichtung des PMD stellt aber auch gleichzeitig seine Schwäche dar. Man kann nämlich genau so zutreffend dafür plädieren, dass die morphologische Differenzierung von kei-nen allgemeinen Prinzipien gesteuert wird und rein „zufällig“ stattfindet. In dem Sprachsignal wären dem-zufolge einige Hinweise enthalten, die zu einer Kontext-bezogenen Umfunktionalisierung einer gewissen Konstruktion bzw. Familie von Konstruktionen führen. Die neu eingetretene Redundanz bzw. Allomor-phie werde rein über ihre Salienz in gewissen Sprachkontexten evaluiert und dementsprechend beibehalten oder aufgegeben. Die morphologische Differenzierung sei konstruktionsbezogen und habe nur indirekt mit einer größeren Effizienz der funktionalen Belastung zu tun. Stattdessen spiele die Salienz die Hauptrolle, die sich anhand oberflächlicher Faktoren wie Frequenz, Erfolgsrate in einer Kommunikationssituation, Eindeutigkeit der Leistungsbeschreibung bzw. strukturellen Analysierbarkeit, u. ä. bemessen lässt. In dieser Perspektive wird die Differenzierung gar nicht angestrebt: sie ergibt sich aus der Interakti-on der jeweils zusammenwirkenden Kräfte. In unserem Beispiel könnte die Form brauch einerseits auf die phonologische Reduktion zurückführt werden, die oft die Entwicklung von linguistischen „Routinen“ wie die Modalkonstruktionen begleitet und als Reflex ihrer Frequenzsteigerung betrachtet wird (vgl. Haspel-math 1999), und andererseits auf die Anpassung an das Flexionsmuster der Modalverben, die die struktu-relle Analysierbarkeit der Gesamtkonstruktion vereinfacht bzw. beschleunigt. Diese Anpassung gehorcht keinem spezifischen teleologischen Trieb wie dem PMD, sondern ist die Folge der allgemeinen kognitiven Tendenz zur Prototypisierung, d.h. Annäherung an den Prototyp der Modalverben, wodurch eine größere Effizienz des Sprachsystems durch die Reduktion der im mentalen Lexikon zu speichernden Variation er-reicht werden soll. Das System sei dementsprechend trotz der gesteigerten Allomorphie von brauchen öko-nomischer strukturiert, weil die morphosyntaktisch relevante Klasse der Modalverben einheitlich flektiert, nämlich mit dem Nullsuffix in der 3. Person Singular des Präsens Indikativ. Diese Optimierung lässt sich nicht unbedingt als teleologisch auffassen, insofern als sie nicht das gezielte Ergebnis einer spezifischen Sprachwandelstrategie darstellt, sondern nur eine bessere Gesamtanordnung des Sprachsystems. Wenn Te-leologie vorhanden ist, dann hängt sie direkt mit dem Sprachsystem zusammen, welches einen möglichst sparsamen Energieeinsatz anstrebt. In diesem Sinne muss man mehr von einem Mitnahmeeffekt als von einer Schubkraft des Prototyps sprechen. Auf den Konflikt des PMD mit dem Prinzip der Prototypisierung weist auch Di Meola hin. Des-wegen versucht er erstens, den Prototyp der deutschen Adpositionen zu identifizieren und zweitens die in-nerhalb des Grammatikalisierungsprozesses auftauchenden Phänomene – Kasusänderung, Wortstellung, usw. – mit Bezug auf den Prototyp zu erklären. Laut Di Meola gelten als prototypische Merkmale der Ad-positionen die Voranstellung – also die Präposition – und die Dativrektion. Dementsprechend werden die feststellbaren Entwicklungstendenzen unterschiedlich eingeschätzt (Beispiele aus Di Meola 2000, 2002):

(2) Nachstellung > Voranstellung a. Ein wenig weiter, [den Gleisen entlang]PostP, zu Fuß zu erreichen, kommt der unterirdische Karst-

fluß Timavo ans Licht. b. Am Ende der schnurgeraden Pappelallee, [entlang dem Forstmeister-Kanal]PräP, liegt ein Erho-

lungszentrum mit Restaurant.

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c. [W]as hier als Delikatesse gilt, mußte in Westberlin von den Fischern [des hochbelasteten Wassers wegen]PostP noch immer als Sondermüll entsorgt werden.

d. Allein in den letzten zwölf Monaten nahm die öffentliche Schuld um 190 Milliarden Mark zu, zum größten Teil [wegen der Zinszahlungen]PräP für die Gesamtschuld.

Dativ > Genitiv

e. [Entlang des Malecon]PräP befinden sich noch einige kleine Badebuchten, die jedoch meist nicht sehr sauber sind.

Genitiv > Dativ

g. [Wegen dem Oberleutnant]PräP, den ich hinter mir spürte, vermied ich es, in Laufschritt zu fallen. Von diesen zwei Eigenschaften wird die erste, nämlich die Tendenz zur präpositionalen Stellung in (2a-b) und (2c-d), durch das Prototypisierungsprinzip erklärt, weil Voranstellung im Deutschen eben als prototy-pisch gilt, was kaum bestreitbar ist. Die anderen zwei Tendenzen, jene zur Genitiv- bzw. Dativrektion, werden aber als entgegengesetzt betrachtet. Da Dativrektion als prototypisch gilt, erzielt die Dativrektion in (2g) Prototypisierung, während die Genitivrektion in (2e) als Prototyp-widrig eingeschätzt wird. Als Alter-native wird auf das PMD Bezug genommen, das den Kasuswechsel als Differenzierung von der Ur-sprungsstruktur erklärt. Ein Problem mit dieser Erklärung besteht nun aber darin, dass es oft nicht einfach ist, einen einzi-gen Prototyp zu erkennen, der allein imstande wäre, die angebliche Prototypisierung zu leiten. Das gilt ins-besondere im Bereich der Adpositionen, die aus einer Reihe von ganz unterschiedlichen Ausgangsstruktu-ren entstehen können und deswegen verschiedene und gemischte Eigenschaften aufweisen. In unserem Fall könnte als Auslöser der Prototypisierung das Muster der (ursprünglich denominalen) Präpositionen gewirkt haben, die normalerweise den Genitiv regieren, wie anhand, anstelle, aufgrund, infolge, usw. (vgl. Zifo-nun, Hoffmann & Strecker 1997: 2075). Darüber hinaus lässt sich auch vermuten, dass der hohe Grad an Synkretismus zwischen Genitiv und Dativ zu diesem Kasuswechsel hat beitragen können. Das gilt insbe-sondere in jenen Fällen, wo Feminina, die dank der extrem produktiven Suffixe -heit, -schaft, -ung usw. den Großteil der Abstrakta bilden, als Komplemente dieser Präpositionen verwendet werden. In dieser Hin-sicht wäre es interessant zu untersuchen, in welche Anzahl Feminina in Zusammenhang mit diesen Präpo-sitionen auftreten (und insbesondere Abstrakta in häufig vorkommenden Ausdrücken wie anhand der Mög-lichkeit, aufgrund der Leistung, usw.), um eine genaue Idee der Rolle des Synkretismus von Genitiv und Dativ im Bereich der Kasusvariation zu erhalten (vgl. Gaeta 2003). Dieses Beispiel schwächt aber die Erklärungskraft des PMD, das nur in begrenzten Kontexten wirklich einleuchtend bliebe. Im Endeffekt ist in vielen Fällen, wo eine Grammatikalisierung auftritt, eine alternative Erklärung vorhanden, weil der Übergang Lexem > Morphem normalerweise die Anzahl der ei-ner gewissen grammatischen Kategorie angehörenden Morpheme erweitert. Laut Lehmann (2015: 22) sind das typischerweise Fälle renovierender Grammatikalisierung, die aber immer die Prototypisierung als Mit-nahmeeffekt verschleiern. Seltener sind Fälle, wo eine innovierende Grammatikalisierung auftritt, die ein neues grammatisches Muster – also eine neue grammatische Kategorie – als Ergebnis hat. Es ist tatsächlich besser, die Erklärungskraft des PMD in einem solchen Fall nachzuprüfen, wo die Effekte der Prototypisie-rung dadurch gering gehalten werden, dass kein echter Prototyp für die neu zustande gekommene Katego-rie vorhanden ist. Genau das wird im nächsten Abschnitt versucht.

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3. Morphologische Differenzierung und das deutsche Demonstrativ- bzw. Relativpronomen Einen Fall innovierender Grammatikalisierung stellt die Geschichte des deutschen Demonstrativ- bzw. Re-lativpronomens im Vergleich mit dem Artikel dar, der sich bekanntermaßen aus dem Demonstrativprono-men entwickelt hat (vgl. Szczepaniak 2009: 73-78). Infolge dieser Grammatikalisierung begann seit der mit-telhochdeutschen Zeit ein Prozess morphologischer Differenzierung, der bis heute noch nicht abgeschlos-sen ist. Die morphologische Differenzierung betrifft hauptsächlich die obliquen Kasus, die in der Tab. 1 fett gedruckt sind:

TABELLE1:DerArtikelunddasDemonstrativ-bzw.RelativpronomenimälterenundmodernenDeutsch Mhd. Heute Art / Dem / Rel Art Dem / Rel M N F M N F M N F Sg N der daz diu der das die der das die G des der(e) des der dessen deren / derer D dem(e) der(e) dem der dem der A den daz die den das die den das die Pl N die diu die die die G der(e) der deren / derer D den den denen A die diu die die die Während in früheren Zeiten Artikel, Demonstrativ- und Relativpronomen die gleiche Flexion hatten, hat sich heute diese Identität nur bei den direkten Kasus erhalten. Die obliquen Kasus des Demonstrativ- bzw. Relativpronomens haben sich dagegen wesentlich differenziert: hier liegt offensichtlich keine andere Erklä-rungsmöglichkeit vor außer dem PMD, weil kein echter Prototyp für das Demonstrativ- bzw. Relativpro-nomen vorhanden war, der seine Anziehungskraft ausüben hätte können. Andererseits konnte aber trotz der Abwesenheit eines direkten Prototyps wie im Falle der Präpositionen die funktionale Nähe anderer Sprachkategorien im Lauf der Differenzierung doch eine Rolle gespielt habe. Laut Lühr (1991) ist die morphologische Differenzierung einem analogischen Muster gefolgt, das die Formen des Personalpronomens als Vorbild hatte und auf die anderen Formen erweitert wurde:

(3) i. DatPl: in : den = inen : X (= denen) ii. GenSg & [+Fem] / GenPl: inen : denen = iren : X (= deren) iii. DatSg & [Fem]: der-en ð der-en iv. GenPl / GenSg & [+Fem]: inen : denen = irer : X (= derer) v. DatSg & [+Fem]: der-er ð der-er vi. GenSg & [-Fem]: der-en ð dess-en

Der Ausgangspunkt im 14. Jh. sei die analogische Umgestaltung des Dativplurals den aufgrund der entspre-chenden Form des Personalpronomens gewesen: inen / denen. Die Erweiterung sei nach dem Parallelmuster des Akkusativ Singulars in erfolgt, der schon im 12. Jh. in alemannischen Gebieten mit der erweiterten Form inen alternierte: „Festzuhalten ist, daß es im Alem. zumindest im 12. Jh. ein Nebeneinander von Akk. Sg. mask. und Dat. Pl. in und inen gegeben hat“ (Lühr 1991: 204). Dann sei im 15. Jh. die mit -en erweiterte Form analogisch auf den Genitivsingular der Feminina bzw. den Genitivplural ausgedehnt worden, bei de-nen die entsprechende Form des Personalpronomens auch möglich war: Sie sehen die eltern und iren / deren (< der) sun (vgl. Lühr 1991: 208). Diese Form sei aber auch für die hom*onyme Form des Dativsingulars der Feminina verwendet worden. Der nächste Schritt im 16. Jh. habe in der analogischen Neubildung des Ge-

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nitivsingulars der Feminina bzw. des Genitivplurals aufgrund des Parallelmusters der Personalpronomina bestanden: irer / derer. Diese Form derer sei wiederum auch für den hom*onymen Dativsingular der Feminina verwendet worden. Schließlich habe sich das Muster des Genitivsingulars der Feminina bzw. des Genitiv-plurals auch auf die Maskulina ausgedehnt, was zur Entstehung der Form dessen unter Einfluss von deren schon im 15. Jh. führte. Im Gegensatz zu dieser komplizierten Reihe analogischer Sprachwandelphänomene schlägt Bær-entzen (1995) vor, einen ganz anderen Prototyp ins Spiel zu bringen, nämlich die Adjektivflexion. Die Wir-kung dieses Prototyps sei mit der unterschiedlichen Verteilung der Formen deren bzw. derer in Verbindung zu setzen. Im Falle von deren, wo die Stellung vor dem entsprechenden syntaktischen Kopf bevorzugt wird, sei als analogisches Muster „ein dem Adjektivparadigma entlehntes schwaches Flexiv, das wegen seiner großen Verbreitung im Adjektivparadigma keinen eindeutigen formalen Stellewert hat und somit geeignet ist, die Nonkongruenz des Pronomens zu verschleiern und eine Kongruenz mit dem übergeordneten Sub-stantiv vorzutäuschen“ (Bærentzen 1995: 208). Im Falle von derer, wo die Stellung nach dem entsprechen-den syntaktischen Kopf bevorzugt wird, zeige dagegen diese analogisch entstandene Form „volle formale Übereinstimmung mit allen übrigen nachgestellten Attributen im Genitiv Singular Femininum und Genitiv Plural, deren erstes kasusflektiertes Wort auf -er ausgeht“ (Bærentzen 1995: 209). Eine ähnliche Entspre-chung in nachgestellten Attributen stecke hinter der Form dessen, wo die Endung -en „das starke Flexiv des Adjektivs im Genitiv Singular Maskulinum und Neutrum“ ist (ebenda). Es muss betont werden, dass diese komplizierte Reihe analogischer Sprachwandelphänomene, die von Lühr und Bærentzen ganz unterschiedlich rekonstruiert werden, das gemeinsame Ziel zu haben scheint, so weit wie möglich den Artikel von dem Demonstrativ- bzw. Relativpronomen zu differenzieren. Also scheinen sie dem PMD genau zu gehorchen, indem sie Flexionsmerkmale – d.h. die erweiterte -en- bzw. -er-Form – aus anderen Sprachkategorien übernommen haben. Diese Übernahme spricht aber nicht für einen Effekt der Prototypisierung, da weder die Personalpronomina noch die Adjektivflexion einen wirklichen Prototyp für das Demonstrativ bzw. das Relativpronomen darstellen: sie konnten lediglich als formales Muster für die morphologische Differenzierung in teilweise überlappenden syntaktischen Kontex-ten verwendet werden. Andererseits muss auch gesagt werden, dass in Gegensatz zum Fall der Präpositio-nen die Differenzierung nicht die innovierenden Formen des Artikels betrifft, sondern die älteren Formen des Demonstrativs, die als seine Quelle gelten. Allerdings hat sich die analogisch entstandene morphologische Differenzierung nur zum Teil im heutigen Deutsch durchgesetzt, wobei einerseits einige Formen wie dere bzw. dero zurückgegangen sind und andererseits eine zusätzliche Differenzierung zustande gekommen ist. Wie Bærentzen (1995, 2008, 2011) gezeigt hat, entspricht heutzutage die Differenzierung zwischen deren und derer unterschiedlichen Konstruk-tionen, die folgendermaßen zusammengefasst werden können:

(4) K1: _ N’]N’’: dort begegnete man Dichterni, [dereni Werke] man kannte K2: _ [...] Q’]Q’’: Was für einen Retrieveri meinst du? Es gibt dereni ja nunmal [6 verschiedene]Q’ K3: [...] _ [...]]V’’: Die meisten Güteri, [dereni der Mensch bedarf], sind vermeidbar. K4: Präp _]P’’: Auf der Rasenflächei, [inmitten dereri] die Kirche lag, standen auch einige

Pinien. K5: N’]N’’: Martyrer steigern [die Kräfte dereri], deneni sie Vorbild wurden.

Aufgrund einer Korpus-Untersuchung konnte Bærentzen die folgenden Frequenzverhältnisse ermitteln:

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TABELLE2:DieVerteilungvonderen/derernachdenjeweiligenKontexten(Bærentzen1995)

Rel Dem Tot deren derer deren derer deren derer K1 903 93% - - 349 98% - - 1252 95% - - K2 24 3% - - 8 2% - - 32 2% - - K3 26 3% 2 11% - - - - 26 2% 2 3% K4 4 1% 16 89% - - 2 4% 4 1% 18 28% K5 - - - - - - 45 96% - - 45 69% Tot 957 100% 18 100% 357 100 47 100% 1314 100% 65 100% Der Unterschied in der Funktion als Demonstrativ- bzw. Relativpronomen scheint gar keine Rolle zu spie-len, wobei sich die Verteilung von deren und derer aufgrund der Wortstellung begreifen lässt. Wenn das Pro-nomen links des Phrasenkopfs steht, wird wie bei K1 deren vorgezogen, wo das Pronomen unmittelbar vor den nominalen Kopf auftritt. Wenn hingegen das Pronomen rechts des Phrasenkopfs steht, herrscht derer wie bei K4 und K5, wo das Pronomen jeweils unmittelbar nach einer Präposition oder nach einem nomi-nalen Kopf steht. Wie aus meiner Projektion dieser Daten in Bild 1 ersichtlich ist, wird diese fast komplementäre Verteilung nicht von den mittleren Typen K2 bzw. K3 gestört, wo das Pronomen jeweils als Genitiv eines quantitätsbezeichnenden Ausdrucks oder in der Funktion des Genitivobjekts erscheint:

BILD1:DieVerteilungvonderen/derernachdenjeweiligenKontexten

Laut Bærentzen wird in beiden Fällen deren vorgezogen, obwohl bei K3 derer als kataphorisches Demonstra-tivpronomen auch auftritt und von anderen bevorzugt wird (vgl. Duden: 291; Beispiel aus dem Internet): Tiefe Depression bemächtigte sich derer, die am alten Staat hingen. Wahrscheinlich gilt auch in diesem Fall eine Dif-ferenzierung aufgrund der Voran- bzw. Nachstellung des nominalen Antezedens. Wie hat sich nun diese morphologische Differenzierung, die angeblich als Ergebnis des PMD zu betrachten ist, herauskristallisiert? Können wir in der diachronen Entwicklung Hinweise finden, die unab-hängig von den zwei oben kurz dargestellten unterschiedlichen analogischen Erklärungen die Rolle der Wortstellung veranschaulichen? Das Thema ist wenig geforscht; so lesen wir bei Ebert, Reichmann, Solms & Wegera (1993: 220) noch, dass „[d]ie formale Differenzierung des Nhd. [...] im Frnhd. nicht [existierte]“. Im Folgenden werden wir die Ergebnisse einer kleinen Untersuchung vorstellen, die mithilfe des Bonner Frühneuhochdeutschkorpus (= BoFnhdC, etwa 480000 Tokens) durchgeführt wurde. Es sei angemerkt, dass neben deren und derer auch die Wortformen dero und dere untersucht wurden und die Daten in der fol-genden Tabelle nach Bærentzens Muster vorgestellt werden:

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TABELLE3:DieVerteilungderverschiedenenAllomorphenachdenjeweiligenKontextenimBoFnhdC

Rel Dem Tot deren derer dero dere deren derer dero dere deren derer dero dere K1 28 - 3 2 20 - 22 3 48 - 25 5 K2 37 4 - - 21 5 2 2 58 9 2 2 K3 18 - - - 7 4 2 - 25 4 2 2 K4 1 - - - 2 - 1 2 3 - 1 - K5 - - - - 12 4 - - 12 4 - - Rest 7 - 5 - 4 3 4 - 11 3 9 - Tot 91 4 8 2 66 16 31 7 157 20 39 9 Neben der relativ kleinen Menge von Tokens, die aber von der Korpusgröße abhängt, erscheint das Bild beim ersten Anblick chaotisch. Wie auch im heutigen Dt. ist deren die am häufigsten verwendete Variante, wobei derer in früheren Zeiten nur selten vorkommt, sogar seltener als andere Varianten wie dero, die später aufgelassen wurden. Wenn wir uns aber auf die zwei Typen deren / derer konzentrieren, stellen wir fest, dass langsam eine gewisse Verteilung auftaucht, insofern als derer zwar nicht häufiger als denen ist, aber stärker „polarisiert“:

TABELLE4:DieVerteilungvonderen/derernachdenjeweiligenKontextenimBoFnhdC Rel Dem Tot deren derer deren derer deren derer K1 28 31% - - 20 30% - - 48 31% - - K2 37 41% 4 100% 21 32% 5 31% 58 37% 9 45% K3 18 20% - - 7 11% 4 25% 25 16% 4 20% K4 1 1% - - 2 3% - - 3 2% - - K5 - - - - 12 18% 4 25% 12 8% 4 20% Rest 7 8% - - 4 6% 3 19% 11 7% 3 15% Tot 91 100% 4 100% 66 100% 16 100% 157 100% 20 100% Die Verteilung von derer ist nämlich im Hinblick auf den Kontext K5 und teilweise K2 und K3 besser cha-rakterisiert als diejenige von deren, das seine Arbeit mit den verschiedenen Typen teilt. Diese auf den Kon-text bezogene besser charakterisierte Verteilung von derer wird in Bild 2 erfasst:

BILD2:DieVerteilungvonderen/dererinBezugaufdiejeweiligenKontexte

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Bei K5 erscheint derer seinen Wettkampf mit deren deutlich zu gewinnen. Das gilt auch bei K3, wo allerdings das in (4) gesehene anaphorische Muster vorherrscht (5a), und bei K2, wo auch kataphorische Beispiele auftreten (5b):

(5) a. Jch bin dein Knecht vnd Su ndentreger worden / vnd habe [deine Su nde vnd vnreinigkeit]i von dir genommen / vnd dich dereri erleichtert (Jo. Mathesius, Passionale, Leipzig, 1587, Bl. 40, 26-29)

b. Es mogen wol [viele]Q’ dereri seyn / diei gern regiren mo chten (Sigm. von Birken, Spiegel, Nürnberg 1668, S. 77, Sp. B, 28-29)

Was den präpositionalen Kontext K4 angeht, ist leider die Datenlage zu dünn, um irgendeinen Schluss wa-gen zu können. Wenn man dagegen nur die gesamte Häufigkeit der Varianten im Hinblick auf die einzelnen Typen veranschaulicht, übersieht man die besser charakterisierte Verteilung von derer, weil deren insgesamt häufiger auftritt:

BILD3:GesamteVerteilungvonderen/derernachdenjeweiligenKontexten

Obwohl aufgrund dieser kleinen Untersuchung nur Spuren der Salienz von derer im Hinblick auf die links-köpfigen Konstruktionen festzustellen sind, sind aber schon alle Prämissen vorhanden für seinen weiteren Ausbau, der die heutige Verteilung erklärt. Das Bild ist also nicht konfus: es existierte eine formale Diffe-renzierung schon im Fnhd., die infolge der höheren Häufigkeit von deren zwar gering vertreten und aber genug verteilt war, um den Sprechern zu ermöglichen, Inferenzen zu ziehen, welche zum heutigen Bild ge-führt haben. 4. Fazit Differenzierung stellt zweifelsohne ein wichtiges Thema der Tektonik der Sprachsysteme dar, die sich im Lauf der Zeit infolge unterschiedlicher Sprachwandelprozesse entwickeln. Obwohl die Sprecher sicherlich imstande sind, raffinierte Inferenzen aus dem Sprachsignal zu ziehen, wie es am Beispiel der deutschen Pronomina ersichtlich wurde, bleibt die Frage nach der Angemessenheit eines aktiven Prinzips, das die formale Differenzierung morphologischer Strukturen anstrebt, offen. Einerseits muss man die angeblichen Auswirkungen eines solchen Prinzips mit Vorsicht einschät-zen, weil in vielen Fällen andere Prinzipien wie die Prototypisierung in Bezug auf eine Zielkategorie als al-ternative Erklärungen geltend gemacht werden können. Andererseits scheint die Differenzierung nicht un-bedingt Morpheme zu betreffen, die sich innerhalb eines Grammatikalisierungskanals „bewegt“ haben. Das Beispiel der deutschen Pronomina zeigt eben, dass eine Differenzierung auch von Morphemen angestrebt wird, die eher die Quelle als das Ergebnis der Grammatikalisierung darstellen. Von diesem Gesichtspunkt

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aus würde ich die Differenzierung als ein allgemeines Prinzip betrachten, das die Selbstständigkeit der grammatischen Kategorien begünstigt bzw. unterstützt. Da die Kategorien offensichtlich aufgrund forma-ler Eigenschaften ableitbar sind, wird von den Sprechern durch ihre Uminterpretation bzw. Manipulierung eine Optimierung der kategorialen Zugehörigkeit bzw. Erkennbarkeit gewonnen. Dementsprechend muss das PMD folgendermaßen modifiziert werden:

Prinzip der maximalen Differenzierung (revidierte Fassung) Im Zuge des auf den kategorialen Status einiger Spracheinheiten wirkenden Sprachwandels findet eine progressive Abkehr von der ursprünglichen morphophonologischen bzw. semantischen Struk-tur sowie von der ursprünglichen syntaktischen Umgebung der betreffenden Form statt.

Es sei in diesem Zusammenhang an Kuryłowicz’ (1945) Viertes Analogiegesetz erinnert, demzufolge die neuere Form die primäre Funktion der Ursprungsstruktur übernimmt und die ältere Form für die sekundä-re Funktion, d.h. für spezialisierte Bedeutungen, verwendet wird. Auch in diesem Fall ist die neuere Form deren bzw. derer für die primäre pronominale Funktion bestimmt, während die ältere Form der für die se-kundäre, innovierende Funktion bleibt. In dieser Perspektive scheint mir dieses Prinzip auf einer anderen Ebene als der Grammatikalisierungsschiene einen Platz zu haben. Im Endeffekt hat das Prinzip viel mehr mit der Manipulierung der vorliegenden formalen Eigenschaften der Spracheinheiten zu tun, als mit den Effekten der in einem Grammatikalisierungsfall auftretenden Ausbleichung. In diesem Licht erscheint das PMD als ein Korrelat der Umkategorisierung, das unabhängig von der Grammatikalisierung wirkt. In Gaeta (2016) sind solche „horizontalen“ Instanzen von Sprachwandelphänomenen, die der „vertikalen“ ausbleichungsbezogenen Natur der Grammatikalisierung nicht entsprechen, als Fälle von Exaptation inter-pretiert worden. Insbesondere handelt es sich im Falle der deutschen Pronomina um eine morphologische Umfunktionalisierung in Bezug auf die unterschiedlichen Konstruktionstypen. Die Exaptation der über Analogie entstandenen Allomorphie beruht auf dem morphosyntaktischen Verteilungsprinzip: Voranstel-lung (deren) vs. Nachstellung (derer). Diese Umfunktionalisierung scheint zielgerichtet zu erfolgen, insofern als sie nach dem Prinzip der Effizienz der funktionalen Belastung verläuft. Darüber hinaus wird der Exaptationsprozess durch die im Sprachsignal vorhandenen hervorstechenden Eigenschaften gelenkt, die von den Sprechern erschlossen werden. Solche Inferenzen bilden, wie im Anfangszitat angesprochen, das Wesen des Sprachwandels. Al-lerdings können sie entweder direktional interpretiert werden wie in klassischen Beispielen der Grammati-kalisierung, die über „eingeladene“ Inferenzen erklärt werden und zu einem Ausbleichungseffekt im Ver-gleich mit der Ausgangsstruktur führen: phígboum habeta sum giflanzotan, in sinemo uuingarten ‚Jemand hatte ei-nen Feigenbaum, der in seinem Weingarten gepflanzt war’ → Jemand hatte den Feigenbaum selbst ge-pflanzt’. Infolge der von der eingeladenen Inferenz geleiteten Grammatikalisierung wird das Vollverb haben als (ausgebleichtes) Hilfsverb uminterpretiert. Oder können die Inferenzen zu Umstrukturierungen im Zu-ge größerer Sprachwandelprozesse führen, die eine optimierte Erfassung der unterschiedlichen Sprachkate-gorien anstreben, wie am Beispiel des Demonstrativ- bzw. Relativpronomens gezeigt wurde. Einer solchen „exaptiven“ Teleologie scheint das hier erörterte PMD zu gehorchen. Danksagung Dieser Aufsatz geht zum Teil auf einen Vortrag zurück, der am 10.11.2015 auf Einladung des Interdiszipli-nären Zentrums Europäische Sprachen der FU-Berlin im Rahmen der Ringvorlesung: Grammar, Cognition & Language Change – Dahlem Lectures in Linguistics vorgestellt wurde. Ich bin allen Anwesenden, und insbeson-dere Matthias Hüning, Horst Simon und Heide Wegener sowie zwei anonymen Gutachtern für hilfreiche Kommentare sehr dankbar.

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What are ‘Pseudo-Relatives’?

Giorgio Graffi Abstract There is no agreement among generative scholars about the extension of the class of the so-called pseudo-relative constructions. It is also standard practice/procedure to equate them with ‘predicative relatives’ of traditional and non-generative studies, but even such studies differ as far as the extension of such a class of relatives is concerned. Our proposal is to consider the ‘subject-object asymmetry’ as the distinguishing feature of pseudo-relatives: since this asym-metry is exceptionless only after verbs of perception, we conclude that this is the only context where pseudo-relatives constructions occur. We propose that such constructions form a ‘Larsonian shell’, where the antecedent is the subject and the pseudo-relative clause is the predicate. KEYWORDS: generative grammar • ‘Larsonian shells’ • predication • pseudo-relatives • verbs of perception 1. Pseudo-relatives: ‘pseudo’ or ‘relatives’? 1.1 “Pseudo-relatives” and “predicative relatives” To my knowledge, the term PSEUDO-RELATIVES dates back to Radford (1975), to denote constructions such as that introduced by qui in the French sentence (1), or by che in the (almost) structurally identical Italian sentence (2)1:

(1) J’ai vu Paul qui fumait I have seen Paul who/that was smoking ‘I saw Paul smoking’

(2) Ho visto Paolo che fumava

(I) have seen Paul who/that was smoking

One might immediately wonder why I have glossed the element qui (and, respectively, che) introducing the pseudo-relative in two alternative ways.2 Actually, as will be seen below, there has been (and there still is) much debate concerning its nature: is it a relative pronoun (as traditional grammars of both French and Italian assume)? Alternatively, is it, in Italian, the same element (che) that introduces declarative clauses or, in French, an allomorph of it (que)? For the time being, I leave the question open; we will come back to it in §2.3 and in §3.1.3 1 In many cases, the translations of the French and Italian examples are not grammatical English sentences: they only intend to make such examples intelligible. 2 Of course, that is not even a possible option in this context, in English: I have introduced it only to stress the possibility of interpreting French qui and Italian che both as a pronoun and as a complementizer. 3 In what follows, I will use the label PSEUDO-RELATIVE (henceforth: PR) to refer to the clause introduced by this element and the label PSEUDO-RELATIVE CONSTRUCTION (henceforth: PRC) to designate the sequence NP (or DP) + PR. I will also refer to the NP as the ANTECEDENT of the PR, so resorting to the same labelling as ‘authentic’ relative clauses: this does not imply, however, that I agree with the classifications of PRs as a kind of relative clause.

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My aim is to discuss the extension of the class of PRs and their constituent structure. Namely, the questions that I will try to answer are: 1) which clauses show a set of shared features which allow us to treat them as a unitary class, whether these are called PRs or otherwise? 2) Are they only apparently relative clauses, as the prefix ‘pseudo’ suggests, or are they just a special kind of relative clause? Radford (1975) and others generative studies of the 1970s adopted the former position, but in the following decades it was stressed that PRCs also share some significant features with ‘authentic’ relatives (both appositive and restrictive). 3) A further question I intend to discuss concerns the predicative nature that is ascribed to PRCs by most scholars.4 What does it mean and to which structure (or structures) does it correspond? As will be seen, these three questions are not unrelated to each other. My discussion will be limited to the two Romance languages I am most familiar with, namely Italian (my mother tongue) and French. I leave to further research the task of checking if my analysis can also be applied to other languages, within or outside the Romance group. It is almost standard to state that PRs largely overlap with the clauses that several grammarians, working in traditional or in non-generative frameworks, call propositions relatives attributs (or attributives; remem-ber that attribut means ‘predicate’ in French grammatical tradition).5 This label (or an equivalent one) is still resorted to in most treatments of these constructions that lie outside the generative framework, and hence avoid the term ‘pseudo-relative’. I will investigate in the following sections to what extent the class of “pre-dicative relatives” (or any other equivalent label) actually coincides with the generative one of PRs. 1.2 Main features of the pseudo-relative constructions

I will first quote some features which favor the treatment of PRs as a kind of clause that is essentially different from relative ones; then, one favoring instead their classification as a special kind of relatives. Two features that clearly oppose PRs to both restrictive and appositive relatives are 1) the possibility of cl*ticizing the antecedent and 2) the fact that the introductory element can only have a subject function (the so-called subject-object asymmetry). These are respectively exemplified by sentences (3)-(5) (feature 1) and (6a) vs (6b) (feature 2); examples are from Italian (French facts are identical, as can be easily checked by consulting works such as Radford 1975 or Kayne 1975: 126-129):

(3) a. Ho visto Gianni che usciva dal cinema (pseudo-relative) (I) have seen Gianni who/that was coming out from the cinema ‘I saw Gianni coming out of the cinema’ b. L’ho visto che usciva dal cinema (I) him=have seen who/that was coming out from the cinema ‘I saw him coming out of the cinema’

(4) a. Conosco le persone che abitano vicino a Gianni (restrictive relative) (I) know the people who live near to Gianni

‘I know the people who live near Gianni’ b. *Li conosco che abitano vicino a Gianni

(I) them=know who live near to Gianni

4 For example, a recent paper (Casalicchio in press) devoted to PRCs defines them as “a predicative construction found in all Romance languages except Romanian, as well as some other language groups like Slavic and Greek”. 5 Cf. Marouzeau (1961: s.v.), which lists German Prädikat, English Predicate and Italian Predicato, as equivalents of the French term Attribut.

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(5) a. Conosco Gianni, che parla inglese (appositive relative) (I) know Gianni, who speaks English

b. *Lo conosco, che parla inglese (I) him=know who speaks English

(6) a. Ho visto Gianni che picchiava suo padre (I) have seen Gianni who/that was beating his father ‘I have seen Gianni beating his father’

b. *Ho visto Gianni che suo padre picchiava (I) have seen Gianni whom his father was beating Note that (6b) is wholly grammatical if it is pronounced with a pause between the antecedent Gianni and the following clause introduced by che: in this latter case, such a clause is interpreted as an appositive relative. This illustrates a further distinguishing feature of PRs: contrary to restrictive relatives, their antecedent can be a proper noun, but, contrary to appositive relatives, there is no pause between such antecedents and the following clause introduced by the qui/che element. Other distinguishing features commonly quoted are the impossibility for the introductory element to be of the form lequel (French) or il quale (Italian) and some restrictions on the verb of the clause, which cannot be stative and whose tense cannot be different from that of the governing verb.6

All such features are normally listed in the generative studies of PRCs from the earliest (Schwarze 1974; Radford 1975; Kayne 1975: 126-129) until the most recent ones (Casalicchio in press) and, with the exception of feature 2, also in non-generative or para-generative7 treatments of the construction. Feature 1 is already recognized in some traditional treatments of PRCs: see, e.g., Tobler (1896: 56). Feature 2 is hinted at as a possibility in Polentz (1903: 6), but it is immediately rejected. Actually, only generative studies empha-size it. I think that its discovery is the real contribution of generative grammar to the study of PRs, since it was based on the “diagnosis of wh-movement” (see van Riemsdijk 1978) as the litmus test for distinguishing them from ‘authentic’ relatives. Since wh-movement can also move elements other than the subject, the latter kind of clause, but not the former, would be derived through it. Let us now turn to the feature (call it feature 3) which both pseudo-relatives and ‘authentic’ relative clauses share. It consists in their islandhood and, in particular, in their sensitivity to the CNPC (Complex Noun Phrase Constraint) of Ross (1967). This feature was signaled by Graffi (1980) and by Kayne (1983 [1981])8, and by several other scholars as well. It can be exemplified by (7) for Italian and by (8) (from Kayne 1983: 97) for French:

(7) *Il libro che ho visto Gianni che leggeva The book which (I) have seen Gianni who/that was reading

(8) *Quelle fille l’as-tu rencontré qui embrassait? Which girl him=have you met who/that was kissing

6 As shown in Rothenberg (1979: 73) and in Scarano (2002: ch. 3), this last feature has to be somewhat qualified; in the present paper, I will not deal with this problem. 7 I will use this label to refer to works that, although taking into account some aspects of generative grammar, such as the notion of transformation, do not lie in the framework of what, pending a better term, I have called (Graffi 2001) the “Chomskian pro-gram”, and therefore are not involved in many of its typical issues, such as that of islandhood (see immediately below). 8 When the date of the first appearance of a work and that of the version quoted here do not coincide, I put the former after the latter, within square brackets.

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As can be seen from (9) and (10), the CNPC-sensitivity of PRCs wholly parallels that of relatives. (9) and (10) respectively derive from a structure underlying to Conosco Gianni, che leggeva quel libro and to Je connais Jean, qui embrassait cette fille:

(9) *Il libro che conosco Gianni, che leggeva The book which (I) know Gianni who was reading

(10) *Quelle fille connais-tu, Jean qui embrassait ? Which girl know-you Jean who was kissing

An adequate analysis of PRCs must therefore account for their simultaneous showing features 1, 2 and 3.9 I will first review some previous proposals concerning the status of PRCs (§2), without any claim of complete-ness.10 Then I will propose a new possible analysis of them (§3). 2. Previous analyses 2.1 The predicative nature of PRCs The standard reference (see, a.o., Schwarze 1974; Graffi 1980: 117) for a class of predicative relatives (relatives attributives), distinct both from restrictive (relatives determinatives) and appositive (relatives explicatives) ones is Grevisse (1975: § 1011). Actually, this distinction is much older: predicative relatives as a specific category are already recognized by some 19th and early 20th century grammatical studies on French, e.g., Mätzner (1877: 54), Tobler (1884: 492; 1896: 62-66), Lücking (1889: 187), Polentz (1903) and Sandfeld (1936: 139-159); Sandfeld’s analysis is explicitly extended to Italian by Herczeg (1959). For example, Lücking (loc. cit.) says that the relative clause is connected to its antecedent (Beziehungswort) attributively (without any comma), ap-positively (with a comma) or predicatively, “namely to the closer object of verbs of perception”. Tobler and Polentz do not consider predicative relatives as a third class besides restrictive and appositive: they instead speak of a predicative employment of relative clauses (which is only appositive according to Tobler, both ap-positive and restrictive according to Polentz).11 Tobler (1896: 55) offers one criterion for distinguishing this predicative use of relative clauses: the verb governing the antecedent of the relative clause “has one object” when the relative clause has an “adnominal” employment (i.e., it is a restrictive or an appositive one), while it “has two objects” (or a “double relationship”) when the relative clause has a predicative employment. The first object is “the entity designated by the noun”, the second “what is stated by the relative clause”; or, rather, the first object is such “insofar as it is involved in the second”. Sandfeld considers the propositions relatives dépendantes attributs (‘predicative dependent relative clauses’) as an autonomous class, distinguished from free relatives (relatives indépendantes, ‘independent relatives’) on the one hand and from both restrictive and appositive relatives (relatives adjointes, ‘adjunct relatives’) on the other. The first two classes are “prima-ries”, while the third is defined as “secondary” in Jespersen’s (1924) sense (Sandfeld 1936: xv). Predicative relatives differ from independent relatives “since they have an antecedent”, and from the other class of relatives “since they do not qualify their antecedent, but they are its predicate” (id.: 139). We turn now to some para-generative studies. Rothenberg (1979) divides Sandfeld’s propositions rela-tives attributs in two classes: propositions relatives prédicatives and propositions relatives attributives. The two kinds of 9 Of course, also other features of PRCs, such as those exemplified above, should be appropriately explained: the three features I am focusing on, however, seem to me to be the essential ones of such constructions, which no adequate analysis cannot avoid accounting for. 10 In particular, I will not deal with such studies as those by Strudsholm (1998) or van der Auwera (1993), which lie in functional or in other non-generative frameworks, but I will limit myself to some traditional, generative and para-generative studies. For other reviews of past studies on PRCs, see a.o. Prebensen (1982), Casalicchio (2013: Chapter 1) and Scarano (2002: Chapters 1 and 2). 11 Actually, Tobler (1896) is somewhat ambiguous about this subject: for this he is reproached by Polentz (1903: 3).

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clause are opposed by resorting to valency theory: propositions relatives prédicatives are equated with “obligatory complements”, propositions relatives attributives with “optional complements”. Prebensen’s (1982) starting point is the distinction between relatives anaphoriques and relatives transformées. The former class contains restrictive (déterminatives), appositive (explicatives) and predicative (attributives) relatives. The latter class contains cleft sen-tences, “presentative” relatives (e.g., il y a un homme qui vous attend, ‘there is a man waiting for you’) and “pos-sessive” relatives (Paul a les cheveux qui frisent, lit. ‘Paul has hair that curl’). Clauses of the former class can be split into two independent sentences; those of the latter cannot (cf. Prebensen 1982: 99-100). As far as the status of PRCs is concerned, Prebensen’s classification does not therefore differ from that of Sandfeld. Koenig & Lambrecht (1999) analyze predicative relatives as having two subjects, one “internal” and the other “external”: the latter is the antecedent, the former the pronoun qui (cf. Koenig & Lambrecht 1999: 201-3). The same analysis is restated in Lambrecht (2000): PRCs (here called “presentative relative constructions”) are ‘flat’ structures (i.e., the antecedent and the relative do not form a constituent), endowed with both an internal and an external subject. Scarano (2002) proposes a dual typology of relatives, keeping the semantic-informational point of view distinct from the syntactic one. From the former point of view, relative clauses are subdivided into “relatives of integration” (= appositives), “relatives of identificative modification” (= restrictives), “relatives of denotative modification” (= PRs). From the syntactic point of view, relative clauses can be appositive, attributive, or predicative. “Relatives of denotative modification” (i.e., PRs) which occur in presentative contexts or after a verb of perception are predicative, since their function is that of subject or object complement; those occurring in other contexts are attributive (cf. Scarano 2002: 161-163). In the first generative analyses of PRCs, dating back to the 1970s (Schwarze 1974; Radford 1975), their predicative nature was not explicitly stated, but it was, in a sense, implied by the derivation proposed to account for them. In fact, all these studies assume a derivation of PRCs from declarative complement clauses. Hence, a sentence like (1) would be derived from the same deep structure underlying (11) by raising the subject to the embedded clause to the position of object of the main verb voir:

(11) J’ai vu que Paul fumait I have seen that Paul was smoking

This analysis has encountered several objections. Already Schwarze noticed several semantic differences be-tween PRs (called by him relatives complétives) and declarative complement clauses: in his view, both kinds of clause share the same syntactic analysis, while their semantic analysis would be different. Later works (e.g., Ruwet 1978; Graffi 1980) argued that such a derivation of PRs is untenable, since they show many differ-ences, both syntactic and interpretive, with respect to the declarative clauses from which they allegedly derive. Graffi (1980: 130) considers them as a case of predication in Williams’ (1980) sense, with the antecedent being the subject and the PR being the predicate. This remark is framed in the analysis of PRCs as NPs, which will be discussed below (§2.2). The predicative nature of PRCs derives automatically from the analyses of both Guasti (1988; 1992) and Rizzi (1992). They analyze PRCs as CPs, on the basis of several tests which show that the construction behaves as a sentential rather than a nominal category (pseudo-clefting, clefting, equative deletion, passiviza-tion; cf. Guasti 1988: 41). Semantically, such CPs “have a predicate nature” (Guasti 1992: 62). As will be seen in more detail in the next section, Cinque (1995) proposes a threefold structure for PRCs. All three structures, despite their internal difference, share a common feature: they are all SMALL CLAUSES (SC), namely predicative structures. Cinque remarks that, for any of the structures he takes into account (see below, (22)), there exists a parallel small clause structure whose predicate is not a CP (as in PRCs), but an AP. In recent years, Cinque’s threefold analysis has been resumed by Casalicchio (2013; in press). Casalicchio’s analyses of PRCs will be presented in the next section. For the time being, it is enough to remark that the structure(s) he proposes are all of a sentential kind; hence the predicative nature of PRCs is automatically accounted for.

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2.2 Structure and derivation of PRCs

Let us now examine the three different kinds of structure which have been proposed for PRCs in recent decades. Some scholars have analysed them as a two-constituent structure (antecedent NP + PR), others as complex NPs structurally analogous to ‘authentic’ relatives, and yet others as CPs. Traditional studies did not contain any constituent structure analysis, hence it is impossible to estab-lish which structure they would assign to PRCs: it is interesting, however, to recall Tobler’s remark quoted in §2.1, according to which the verb governing predicative relatives “has two objects”, namely the antecedent and the PR. This could be equivalent to an implicit assumption of a two-constituent structure. Similarly, many non-generative or para-generative studies do not face the problem of constituent structure of PRCs explicitly. One important exception is Koenig & Lambrecht (1999): the authors state that the antecedent and the PR do not form a constituent, as is shown, among other things, by the possibility of cl*ticizing the ante-cedent and detaching it from the relative clause. This test of cl*ticization was actually the basic argument provided by Kayne (1975) in favor of a two-constituent analysis of PRCs. In general, this analysis was stand-ard in the 1970s (see also Ruwet 1978).

A two-constituent analysis of PRCs, however, does not explain why they show islandhood effects. This was the reason why some scholars assigned them a structure analogous to that of ‘authentic’ relatives. This analogy is implicit in all studies which treat PRs as a special kind of relative, namely almost all the traditional and some more recent ones, such as Scarano (2002), Donati & Cecchetto (2011) and Cecchetto & Donati (2015). Scarano’s analysis has been sketched in §2.1, above. Cecchetto & Donati (2015) assume for PRCs a derivation analogous to that of free relatives and ordinary relatives. They assume as their starting point the analysis of relative clauses in terms of “head raising” first proposed by Vergnaud (1974) and sub-sequently endorsed by Kayne (1994). In the case of free relatives, the head is a wh-D; in the case of ‘authentic’ relatives, an N; in that of PRs, a D. In Donati & Cecchetto (2011), the trigger of the head-raising operation (Internal Merge) is said to be the main verb, which is endowed with an “edge feature” D. The structure of the pseudo-relative would be the following (cf. Donati & Cecchetto 2011: 549)12:

(17) Ho incontrato [D lui [C che [T[D lui] baciava Maria]]]

(I) have met him who/that was kissing Maria ‘I met him kissing Maria’

The first explicit proposals for an analysis of PRCs as complex NPs analogous to relative constructions are those by Graffi (1980) and by Kayne (1983 [1981]), formulated independently of each other. The former paper proposes the following structure (see Graffi 1980: 132)13:

(18) Ho visto [NP[NP Giannii] [S’ che [S PROi usciva dal cinema]]] (I) have seen Gianni who/that was coming out of the cinema ‘I saw Gianni coming out of the cinema’

Kayne’s (1983 [1981]: 97) relevant example is the following:

12 In the most recent generative works, an element ‘struck through’ (as lui in (17)) corresponds to the ‘trace’ of earlier treatments. 13 The symbol S’ (read ‘S-bar’), employed in generative grammar from Chomsky (1973) until the mid-1980s, indicates the category formed by the sentence and the ‘complementizer’ (COMP) that introduces it, i.e. che and qui in (18) and in (19), respectively. S’ and S have been replaced by CP and by IP, respectively, since Chomsky (1986). The symbol e (meaning ‘empty’) indicates any syntactic category without phonetic realization.

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(19) Je l’i ai rencontré [NP[NP ei] [S’ quii [S PRO sortait du cinéma]]] I him=have met who/that was coming out of the cinema ‘I met him coming out of the cinema’

Graffi (1980) and Kayne (1983 [1981]) therefore argue that relatives and PRs have the same structural rep-resentation, although their derivation is different: wh-movement for the former, a case of control for the latter ones. Since PRCs are not a two-constituent structure dominated by VP, but complex NPs, they behave like islands. Of course, this analysis has to account for the possibility of cl*ticizing the antecedent of PRCs vs. its impossibility in the case of ‘authentic’ relatives. The solution resorted to by both Graffi and Kayne was the impossibility for relatives, but not for PRs, to have an anaphoric head, as [NP ei] would be if the antecedent were cl*ticized. An analogous analysis is proposed by Burzio (1986: 296). Burzio is not interested in PRs as such (he does not even use this term), but in the constructions, finite and infinitival, governed by verbs of perception, to both of which he assigns the structure [NPNP [S’]]. Burzio (1986: 300-304) remarks that PRs (to employ our terms) and infinitival clauses governed by perception verbs sometimes behave dif-ferently (e.g., the latter do not show island effects, in Italian at least), but he does not consider these facts as strong enough to lead him to abandon his unitary analysis. Côté (1999) analyzes PRs in a way essentially analogous to Graffi (1980) or to Kayne (1983 [1981]), the only difference being the replacement of the ‘old’ category NP by the ‘new’ DP:

(20) Ho visto [DP [DP Giannii] [CP PROi [C’ che [IP correva a tutta velocità]]]] (I) have seen Gianni who/that was running at full speed ‘I saw Gianni running at full speed’

PRCs would therefore be control structures (which accounts for the subject-object asymmetry) and complex DPs (which accounts for their islandhood). Di Lorenzo (2010: Chapter 4) ascribes to PRs the following structural properties: (a) They are DPs containing a CP which in turn dominates a S(mall) C(lause); (b) their antecedent is a single noun, not a NP; (c) their subject is a “silent copy” of the antecedent; (d) they have no INFL and therefore their tense is only apparently finite. The specific category to which the “silent” subject of the PR should belong is not specified: it is rather obvious, however, that the structure proposed by Di Lorenzo is a control structure, and this accounts for the subject-object asymmetry, as has just been seen above. The complex DP in which the pseudo-relative is embedded should also account for the islandhood of the construction, although Di Lo-renzo is not explicit on this point.

Guasti’s (1988; 1992) and Rizzi’s (1992) analyses of PRCs as CPs have already been hinted at in §2.1. According to both scholars, (1) would have the representation (21) (cf. Guasti 1988: 41; the same analysis is adopted by Rizzi 1992: 42):

(21) J’ai vu [CP Pauli [C0 qui [IP e fumait]]]

The antecedent of the PR, although contained in a CP, receives a theta-role from the governing verb, and this seems to violate the theta-criterion. Guasti and Rizzi solve this problem in two different ways. Whatever solution is chosen, the antecedent of the PR would be governed by the main verb, and this would presumably account for the possibility of cl*ticizing it, although neither Guasti nor Rizzi explicitly face the problem. To account for the island character of PRCs, Guasti notes that, in a structure like (21), an element moving from inside the PR clause would cross two bounding nodes, IP and CP. According to Guasti (1992: 64), there is another possible structure for pseudo-relatives besides (21), namely a two-constituent one, where the CP “functions as a secondary predicate of the NP object”. This second structure occurs after verbs like sorprendere

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(‘catch’) and after perception verbs, in cases where “the perceptual experience and what is described in the embedded clause do not need to share the same temporal coordinates” (Guasti 1992: 65). Verbs like ‘see’, therefore, would have a double thematic grid: they would assign three roles, as in (21) above (experiencer, event, and theme), or just two (experiencer and theme, the PR being in that case an adjunct).

In the preceding section we have quoted Cinque’s (1995) threefold analysis of PRCs. Cinque (1995: 245) states that they are “three-ways ambiguous” and then proposes a threefold structure for them:

(22i) [V’ V [SC NP [che VP]]] (cf. Cinque 1995: 256, (38a))

or, more specifically, [V’ V [CP[AGRP NP AGR [TP[CP e che [AGRP e V]]]]]] (cf. id.: 262) (22ii) [V’ [NP NP [SC PRO [che TP]]]] (cf. id.: 256, (38b)) (22iii) [VP [V’ V NP] [SC PRO [che VP]]] (cf. id.: 256, (38c))

Verbs of the sopportare (‘tolerate’) class can have both structures (22i) and (22ii). Verbs of the incontrare (‘meet’) class only have structure (22iii). Perception verbs can have all three structures (cf. Cinque 1995: 258). Struc-ture (22i) accounts for the propositional character of PRCs, which is shown by the possibility of pronomi-nalizing them with a sentential pro-form. Structure (22ii) accounts for the islandhood of PRCs, as well for the fact that the antecedent can also be pronominalized with a nominal pro-form. Structure (22iii) accounts for the possibility of cl*ticizing the antecedent. Cinque’s paper appeared in 1995, but it dates back to a workshop held in 1990, hence in a pre-minimalistic period. This could explain the assumption of a threefold structure for PRCs, which seems largely opposite to the tenets of the Minimalist Program. However things might stand, Cinque’s analysis is taken as a starting point for a recent and very detailed study of PRCs, namely Casalicchio (2013). Casalicchio refor-mulates Cinque’s analysis in the framework of the ‘cartographic’ approach of Rizzi (1997) and subsequent work, but he still adopts a threefold analysis for PRs. This analysis undergoes some important changes in Casalicchio (in press). In particular, PRs are assigned not a threefold structure, but a single one, namely:

(23) SC=ForceP[+EPP][Mariai che TopP[... TP[proi canta vP[proi canta]]]] Maria who/that sings

According to Casalicchio, this “basic structure […] occurs in any type of P(seudo)R(elative). It is the way and the place in which this structure is embedded that changes. […] The differences between PRs are there-fore not dependent on their internal structure, but rather on the context in which they occur”. We will list these contexts below (§2.5). 2.3 Qui/che and the subject of PRs

The analyses of PRCs not only differ in the structures assigned to them, but also in the representation of certain specific elements: in particular, the introductory element (qui in French, che in Italian) and the category occupying the subject position of the PR clause. Is the introducing element of PRs a pronoun or a complementizer? All traditional approaches, in-cluding para-generative approaches (cf. e.g., Koenig & Lambrecht 1999), choose the first option: the classi-fication of PRs as a particular kind of relative clauses is simply based on the assumption that they are intro-duced by a relative pronoun. This seems especially adequate for French, where there is a contrast between subject qui and object que as introducers of relative clauses. On the contrary, most generative analyses (e.g., Graffi 1980; Guasti 1988, 1992; Rizzi 1992; Cinque 1995; and so on) treat qui and che as complementizers: these are based on the epoch-making paper by Kayne (1976), which maintained that French relative qui is not actually a pronoun, but an allomorph of the finite complementizer que. This solution seemed even more

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suitable for Italian, where there is no que/qui alternation, and the ‘relative pronoun’ che of traditional gram-mars, which has both the subject and the object function, is hom*ophonous with the complementizer intro-ducing finite declarative clauses. Recently, however, the traditional analysis has been resumed in the genera-tive framework: e.g., Koopman & Sportiche (2008) and Sportiche (2011) classify qui as a pronoun, as in traditional grammar, and no more as a complementizer. If the ‘traditional’ solution is adopted, the two struc-tural elements mentioned in the title of the present section plainly coincide: the introductory element qui, being a subject pronoun, is also the subject of the PR. The analysis is necessarily more complex if the option is chosen which treats qui or che as comple-mentizers. Graffi (1980: 129) labels French qui as a “pronominal complementizer”, which is inserted in the subject position of the PR, replacing the pronominal anaphor PRO. It is not necessary to assume this special property for Italian che: in Italian, PRO would be deleted and its content would be recovered by the finite inflection. Graffi (1980) was based on Chomsky’s (1981) classification of empty categories, which did not yet represent the empty subject of finite clauses as pro, this last category being introduced only in Chomsky (1982).14 A subject pro for PRs is instead assumed by Guasti (1988). According to Guasti, the complementizer qui is endowed with [Agr] features, which it shares with the antecedent and the inflection of the PR. The empty category in (21), above, is pro: in French, it “is legitimated by C0 which governs it and, having the [Agr] feature, assigns it nominative case” (Guasti 1988: 44). In Italian, pro is directly legitimated by the [Agr] of the PR, which is always a “strong governor” (cf. Guasti 1988: 49). In both languages, the coindexing between the antecedent of the PR and its pro subject is mediated through the [Agr] of the PR. Still another analysis can be found in Cinque (1995), who assumes that “the Spec of the predicate CP [i.e., the first e in (22i), G.G.] is an A-position, hence that movement to it creates an A-chain” (Cinque 1995: 263).15 The empty category in the subject position of the PR would therefore be an anaphor in the sense of Chomsky (1981). All three analyses were worked out during the GB period of generative grammar, but they seem to violate one or another of its principles. If, as assumed by Graffi, the empty category in subject position of PRs is PRO, this would represent a case of governed PRO (the governor being the finite inflection of the PR); if it is assumed to be pro, as in Guasti, we would have a pronominal which is obligatorily coindexed with an antecedent. Cinque’s analysis, finally, seems rather ad hoc, since it assumes that a position which is normally A’, namely that of the specifier of CP, should be an A-position in this particular case.

The rigid typology of empty categories established in GB framework has undergone some important changes during the Minimalist period, although a definite new classification has not yet been formulated (to my knowledge, at least). This state of affairs could possibly account for the fact that some of the most recent works on PRs do not assign their subject position to any specific category. This is the case, for example, of Di Lorenzo (2010), as has been seen in the previous section. Possibly, it is the copy left by Internal Merge of the antecedent of the PR, as in Donati & Cecchetto (2011; see above, (17)). Other analyses, however, adopt a more definite position, resorting to some of the empty categories typical of the GB framework: Côté (1999) represents the subject of PRs as PRO (cf. (20), above); according to Casalicchio (in press), however, it is a case of pro (cf. above, (23)).

2.4 PRs and the subject-object asymmetry

The ways of accounting for our feature 2 of §1.2, above, are obviously linked to the different structural analyses proposed for them. Works such as Graffi (1980), Côté (1999), or Di Lorenzo (2010), according to

14 According to the typology of empty categories worked out in Chomsky (1982), PRO indicates the phonetically null subject of infinitival clauses, and pro the phonetically null subject of finite sentences, in languages (such as Italian) which allow it. In earlier works, PRO was employed to indicate both types of null subjects. 15 “The A(rgument) status of the Spec of CP can be seen to result from the generation of an abstract agreement morpheme in C alongside the complementizer (or of an agreeing form of the complementizer, which in Italian happens to be the same as the non-agreeing form: che […]). This is, in fact, visible in French, where C indeed takes the (agreeing) qui form […]” (ibid.).

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which the subject of PRs is a controlled PRO, provide an immediate explanation for the subject-objet asym-metry: PRO can appear only in subject position. In Guasti (1988), which represents such position as an instance of pro, the asymmetry is accounted for by the fact that the coindexing between the antecedent of the PR and the pro subject is mediated by [Agr]: since [Agr] can be coindexed only with the subject, direct and indirect objects cannot be the antecedent of the PR. We have seen that Cinque (1995) provides an explanation in terms of A-movement from inside the PR to its Spec position, which he defines as an A-position. Hence, only the subject of the PR (the lower AGR-P in (22i)) can move to it: if the direct or the indirect object would move, “its trace, an anaphora, would be free in its binding domain, the AGRP” (Cinque 1995: 263), violating principle A of the Binding Theory in Chomsky (1981). The most recent treatments of PRCs explain the subject-object asymmetry in terms of Minimality effects, which are defined in somewhat different ways. For example, Donati & Cecchetto (2011: 549) assume that D movement from the object position (cf. above, (17)) is excluded since it crosses over a DP in the subject position, while Cecchetto & Donati (2015: 167, fn. 14) consider the PR as a case of “unprobed movement” (i.e., without any wh-feature), which has to obey the “Gross Minimality” effect. This accounts for the impossibility of raising any element other than the subject. Casalicchio (2013) is possibly the only generative work that does not consider the subject-object asymmetry as a distinguishing feature of PRCs and quotes some examples that seem to invalidate it; we will turn to those in a moment. Casalicchio has plainly changed his mind in his more recent paper (Casalicchio in press), where he lists the subject-object asymmetry as a typical feature of PRCs. To account for it, he resorts to Rizzi’s (1990) notion of Relativized Minimality: “the antecedent cannot be coindexed with an object because there is an intervening element” (pro in the structure (23)).16 We have said in §1.2 that subject-object asymmetry is considered a feature of PRCs only in generative treatments, while the studies deriving from other frameworks do not even mention it. Actually, there are some exceptions: for example, a not strictly generative study such as Scarano (2002) does consider this phe-nomenon. According to Scarano (2002: 109), the subject-object asymmetry is not absolute, since there would be some examples of PRs introduced by elements other than subject che.17 I do not agree with such an anal-ysis. In my view, (124) is not a pseudo-relative, but an appositive relative; (125) is a construction not derived through wh-movement of the object or by control of a position other than the subject, but by means of the ‘resumptive pronoun strategy’; finally, (126) would not be a pseudo-relative in the proper sense. Also Casal-icchio (2013) quotes several cases of Italian PRs introduced by elements other than the subject: within abso-lute constructions introduced by the preposition con18; in some cases of ‘presentative’ constructions19; after ecco20; and an example of PR as adjunct to subject.21 In my view, all these are cases of constructions derived

16 An analogous explanation had already been offered by Belletti (2008: 10), not in terms of coindexing, however, but of movement: the antecedent of the PR (which could be externally merged or moved from inside the PR) would be endowed with an EPP feature. 17 I refer to the following examples by Scarano (with original numbering and grammaticality judgments): (124) Ieri in tv ho visto Laura a cui consegnavano il premio ‘Yesterday on TV I saw Laura who they handed the prize to’ (125) La vidi che l’accompagnavano all’uscita ‘I her=saw whom they her=led to the exit’ (126) ? Questa è ormai la situazione: Maria a cui niente va bene e Giorgio che cerca di accontentarla in tutto ‘This is now the situation: Maria to whom nothing is right and Giorgio who tries to please her in everything’ 18 E.g. Con Mario che tutti considerano ormai un fallito, perderemo sicuramente le elezioni (‘With Mario who everybody now considers a failure, we will surely lose the election’, Casalicchio 2013: 101). 19 E.g. C'è Maria che la stanno chiamando continuamente al telefono (‘There is Mary whom they are constantly calling on the phone’, Casalicchio 2013: 130). 20 E.g. Ecco Maria che la abbracciano (‘Here is Maria whom they her=embrace’, Casalicchio 2013:142). 21 Maria lasciò la stanza che la insultavano (‘Maria left the room that they her=insulted’, Casalicchio 2013: 151).

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by the resumptive pronoun strategy: hence, as is the case of Scarano’s example (125) they are not real coun-terexamples to the subject-object asymmetry. 2.5 Where do PRCs occur?

The analyses of PRCs we have presented not only differ regarding the structures they propose, but also, and in a significant way, regarding the contexts they discuss as those where PRCs occur. Such differences not only characterize generative studies, but also traditional, non-generative and para-generative ones. We can subdivide them into three groups: a) those that only consider PRCs after verbs of perception; b) those that add to those a limited number of other contexts; c) those that consider a wide range of contexts. In chronological order, the first study belonging to group a) is possibly Hatcher (1944), which is just devoted to predicative relatives as one of the three constructions following perception verbs in French, along with the infinitive and the present participle. Other studies which restrict, implicitly or explicitly, the analyses of PRCs to contexts after verbs of perception are Radford (1975), Burzio (1986: 287-302), Guasti (1988; 1992), Rizzi (1992), Di Lorenzo (2010), Donati & Cecchetto (2011) and Cecchetto & Donati (2015). Studies of group b) state that PRCs occur, besides after verbs of perception, after verbs like trouver (‘find’), rencontrer (‘meet’), in the so-called presentative contexts (e.g., Elle est là qui pleure comme une Madeleine, ‘She is there weep-ing copiously’) and in ‘absolute’ constructions, namely those introduced by the prepositions avec in French, or con in Italian (‘with’). This group contains Lücking (1889), Tobler (1896), Polentz (1903), who also includes cleft sentences under predicative relatives, Kayne (1975: 126-129), Ruwet (1978), who is the first one to explicitly quote PRCs after ‘absolute’ avec, Rothenberg (1979), Graffi (1980), and Prebensen (1982).

As studies belonging to group c), we can quote Sandfeld (1936), Cinque (1995) and Casalicchio (2013; in press). In particular, Sandfeld (1936: 140-156) lists not less than eleven contexts where predicative relatives can occur22: (i) “as direct predicate”, e.g. in “absolute” constructions (la cour d’école que les gamins désertaient à quatre heures ‘the playground that the kids were leaving at four’; id.: 141). (ii) As definitions of items in a dictionary (Insensible : qu’on ne sent pas, ‘Insensitive: that we don’t feel’; ibid.). (iii) “As indirect predicate”, in several constructions, as the following one: Un officier parut, à cheval, blessé et que deux hommes soutenaient (‘An officer appeared on horseback, wounded, and whom two men sustained’, id.: 142). (iv) “When the predicative relative clause is related to the main clause object” ([elle] le laisse au dehors qui sanglote au jardin, lit. ‘she him=leaves outside who/that is sobbing in the garden’; ibid.). (v) “As a shortened sentence” (Le « tripot » qu’il fit construire dans son jardin, n’implique pas qu’il en ouvrit l’accès au public , lit. ‘The "gambling" that he made build in his garden does not imply that he of it=opened the access to the public’; id.: 144). (vi) “After verbs that indicate perception and observation” (je le vois qui vient, lit. ‘I him=see who/that comes’, id.: 146). (vii) If “the wording formed by the noun and the predicative relative clause is employed as predicate” (C’était Pierrotte qu’on appelait au magasin, ‘It was Pierrotte whom we were calling to the store’, id.: 150). (viii) Further employ-ments are: 1. as an apposition (Quelque encombrement, peut-être un reposoir qu’on achève ‘Some obstruction, perhaps an altar which we are completing’ ; id.: 152); 2. as a standard of comparison; 3. as a prepositional object (Je ne peux pas, pour une petite amie que je voudrais avoir, me charger aussi de sa famille, lit. ‘I cannot, for a girlfriend whom I would like to have, charge me also with her family’; ibid.). (ix) “In many cases where the wording noun + relative clause is employed, one could also employ a complement clause” (ces moines que vous chassez, c’est très malheureux, lit. ‘these monks whom you chase away, it is very unfortunate’ is equivalent to que vous chassez ces moines, c’est très malheureux, lit. ‘that you chase away these monks, it is very unfortunate’, id. : 153)”. (x) In many cases, the combination noun + relative clause forms an utterance in itself (Qu’est-ce que c’est donc que ce bruit? – Des peupliers qu’on nous abat, lit. ‘What it is that noise? - Poplars which people cut down to us’; id. : 154. (xi) Similar phrases occur in exclamations, but without c’est (Monsieur Michel que je ne verrai plus! Mon 22 I emphasize in bold all examples of PRs introduced by an element other than qui, hence that have a function different from that of subject.

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ami qui est mort!, lit. ‘Mr. Michel whom I will see no more! My friend who is dead!’, id. : 155). One could rightly object that several of Sandfeld’s examples reproduced above are not really PRs, but restrictive or appositive relatives in a predicative function: this is wholly consistent with our analysis, as will be seen in §3.2.

According to Cinque (1995: 252-255), PRCs appear as 1. “complement small clauses” (Non sopporto [SC Gianni e Mario [che fumano in casa mia]], ‘I cannot stand Gianni and Mario that smoke at my home’); 2. “adjunct small clauses predicated of an object” (Mangiò la pizza [SC PRO [che stava ancora fumando]], ‘He ate the pizza that was still steaming’); 3. “adjunct small clauses predicated of a subject” (Gianni lasciò la stanza [SC PRO [che era ancora sotto gli effetti dell’alcool]], lit. ‘Gianni left the room that he was still under the effects of alcohol’); 4. “in the absolute with constructions” (Con [SC Gianni [che continua a lamentarsi]], non possiamo partire, ‘With Gianni that keeps complaining, we cannot go’); 5. “in locative contexts” (Maria è là [SC PRO [che piange più di prima]], ‘Mary is there that cries more than before’); 6. “in existential contexts” (C’è qualcuno [SC PRO [che sta salendo le scale]], ‘There is someone that is going up the stairs’); 7. “‘root’ small clauses” ([SC Carlo [che si è offerto di aiutarci]]? Non mi sembra vero! ‘Charles that has offered to help us? It does not seem real!’); 8. “small clauses subject of copulative verbs” ([SC I minatori [che picchiano degli studenti inermi]] è uno spettacolo che fa star male, ‘The miners that beat helpless students is a show that makes you sick’); 9. “as adverbial modifiers of NPs” ([SC Gianni e Maria [che ballano il tango]] sono uno spettacolo da non perdere, ‘Gianni and Maria that are dancing tango are a sight not to be missed’). Casalicchio (2013) distinguishes the contexts of occurrence of PRCs according to the syntactic function of the antecedent, which can be: A) the complement of a transitive verb; B) the subject of the matrix verb; C) the nominal predicate; D) the complement of a preposition; E) a free expres-sion. Each of these major classes subdivides into several subclasses, which I will not list in detail. For exam-ple, type A includes PRCs after perception verbs and verbs of ‘finding and knowing’; type B, those in pre-sentative contexts; type C, those within expressions such as Io ero tornata la stupida che rideva (‘I was back the stupid laughing’); type D, those in absolute constructions headed by con (‘with’); type E, headlines. Casalicchio (in press) lists the following contexts: (a) CPs, after verbs of the immaginare (‘imagine’) class; (b) complex DPs, after verbs of perception; two-constituent structures, (c1) with PRs in the adjunct position, when they are not an argument of the matrix verb or (c2) with PRs as the second member of a ‘Larsonian shell’, when they are.

The contexts of PRCs that such studies list only partially overlap: the only one mentioned by all of them is that of PRCs following verbs of perception. Possibly, this does not happen by chance: this is the only context that is exceptionless with respect to subject-object asymmetry. If we examine the whole set of Sandfeld’s (1936) examples, we find cases of PRs introduced by elements other than the subject qui in all the eleven groups listed above, with two exceptions: groups (iv) and (vi). We also find examples of PRCs intro-duced by elements not having the subject function in presentative contexts (cf. (24), from Polentz 1903: 6), in absolute avec constructions (cf. (25), from Ruwet 1978: 177; cf. also Casalicchio 2013: 101, (86), for an Italian example), namely in constructions treated as PRCs in works such as Graffi (1980):

(24) Mais le travail est là qu’on ne peut abandonner

‘But the work is there which (ACC.) we cannot give up’

(25) Avec Marie que Pierre embrasse sans arrêt, Paul n’arrive pas à se concentrer ‘With Marie whom Pierre kisses constantly, Paul cannot concentrate’

In contrast, Hatcher’s (1944) study on predicative relatives after perception verbs contains no example in-troduced by any element other than the subject qui. We therefore assume that those after verbs of perception are the only real case of PRCs. Now we are faced with at least two problems: 1) how to analyze the other cases of alleged PRCs? 2) What structure to assign to ‘real’ PRCs, which would be able to account for the three features which I have highlighted in §1.2, above? I will deal with these problems in the next section.

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3. A new proposal 3.1 PRCs as ‘Larsonian shells’

We began by noting the “goat-stag” nature of PRCs: on the one hand (possibility of cl*ticizing the antecedent and subject-object asymmetry), they show a behavior opposite to that of relatives; on the other (islandhood), they behave just like them. I think that this peculiar nature can be traced back to the fact that PRCs and relative constructions differ in their constituent structure, while the PR and the relative clause share the same introductory element, namely qui, that I consider a relative pronoun, following Koopman & Sportiche (2008) and Sportiche (2011). In an analogous vein, I will also consider the Italian element che introducing PRs as a relative pronoun. I start by capitalizing on two suggestions found in the past literature on the argument. The first dates back to Tobler (1896): when a relative clause has a “predicative employment”, the verb governing the PRCs has “two objects” (see before, §2.1). Hence PRCs would belong to the class of double-object constructions, such as the verbs of ‘giving’ and they could be assigned the same structure, namely a ‘Larsonian shell’ (cf. Larson 1988). This leads us to the second suggestion I capitalize on: Casalicchio (2013; in press) suggests a structure of this kind for PRCs selected by verbs such as sorprendere (‘catch’; see above, 2.5.). My analysis, however, differs from Casalicchio’s in some important respects. On the one hand, I widen it, since I apply it to all cases of PRCs, not only to verbs like sorprendere (which, furthermore, I consider as rather marginal and possibly requiring a different analysis; see §3.2). On the other hand, I consider as PRCs only those occurring after verbs of perception, while according to Casalicchio they also occur in many other contexts. Finally, Casalicchio, while not stating it explicitly, does not treat Italian che as a relative pronoun. I therefore propose to assign to (1), above, as well as to the analogous Italian constructions, a struc-ture like (26), generated by a Raising operation of the verb voir from its position inside the PRC to the head position of vP:

(26) [vPJ’ai vu [VPPauli [V’ vu [CP quii fumait]]]] Such a structure can account for the several features of PRCs we have discussed throughout this paper. Their predicative nature is immediately derived. As already noted by Larson (1988: 351), such structures as the VP of (26) are “clauselike”: the antecedent of the PR (Paul) is the subject, and the V’ formed by the governing verb and the PR is the predicate.23 Note, furthermore, that such a structure allows us to do away with the category of small clause, which has been widely employed in past treatments (e.g., Cinque 1995), but is una-voidably generic. The fact that PRCs show a propositional character, since they can be represented by a sentential pro-form (see Guasti 1988; 1992; Rizzi 1992; Cinque 1995)24, does not force us to treat them as CPs: as remarked by Koenig & Lambrecht (1999) and by Donati & Cecchetto (2011: 549, fn. 14), this kind of pronominalization concerns their semantics, not their syntax.

A representation such as (26) can also easily account for features 1. and 2., discussed in §1.2, above, which sharply oppose PRCs to ‘authentic’ relatives. Feature 1., namely the possibility of cl*ticizing the ante-cedent of PRs, but not that of relatives, was explained by Kayne (1975: 117; 128) as a violation of the A over A principle occurring in the latter case, but not in the former. This remark was at the basis of the two-constituent analysis of the PRCs, which was later abandoned (at least in part), as we have seen in §2.2. How-ever, assuming for PRCs a structure identical to that of relatives, as in Graffi (1980), or in Kayne (1983

23 For simplicity of exposition, I resort to an ‘old’ label such as V’. I think, however, that there should be no special problem in translating this representation in another one more consistent with the tenets of the Minimalist approach. 24 Given e.g. a sentence like Ciò che ho visto è Mario che scriveva nel sonno (‘That which I have seen is Mario that was writing while asleep’), Mario che scriveva nel sonno “is resumed by a pro-form (ciò […]) which can only resume propositions, not individuals” (Cinque 1995: 249).

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[1981]), implies a resort to rather ad hoc proposals, such as the assumption that the antecedent of an ‘au-thentic’ relative cannot be an anaphor. No problems of this kind arise given (26). The PRC is not a two-constituent structure, but at the same time its label is VP, not NP: then no A over A violation occurs. Feature 2. is the subject-object asymmetry: I think that this can be accounted for in a way analogous to Casalicchio (in press), namely as the impossibility for coindexing the antecedent with an object across a subject element. My proposal differs from Casalicchio’s as far as the nature of this subject is concerned: it is not a pro, but a relative pronoun, qui, or, in Italian, che, which is endowed with subject features. This representation seems more adequate since we are no longer obliged to assume an obligatorily coindexed pro. The anaphoric nature of the subject of the PR is what induced several scholars (Graffi 1980; Kayne 1983 [1981], a. o.) to represent it as PRO, with the ensuing difficulty of postulating a category PRO in a governed position. The present analysis avoids both difficulties: it seems reasonable to ascribe an anaphoric nature to a relative pronoun, which makes it necessarily coindexed with the antecedent.25

Feature 3. is the islandhood property, which, contrary to the two previous ones, seems to put PRs on the same plane of ‘authentic’ relatives. In this case too, I capitalize on Casalicchio’s proposal (in press), which considers PRCs as “full phases”: “other elements cannot be extracted from the PR because they can-not pass through the phase edge”.

3.2 Some residual problems

Having restricted the class of PRCs to those occurring after perception verbs, we have now to face the problem of what structure to assign to the other constructions which have been so labeled in several works devoted to the matter. Of course, terminology is always a matter of convention: no one forbids us from calling these constructions pseudo-relatives; the only relevant fact is to distinguish them from those that have the ‘Larsonian shell’ structure argued for in the preceding section. I recall that all these different constructions were classified as PRCs in generative studies such as Cinque (1995) or Casalicchio (2013; in press), or as predicative relatives in traditional studies such as Sandfeld (1936), because they show a subject-predicate structure. We have to show what structures actually implement this predicative feature. In my view, some of these allegedly PRCs are actually relative clauses, while others are adjunct clauses. In particular, the other two classes that Graffi (1980) treats as PRCs, besides that following verbs of percep-tion, could be dubbed with the traditional term of predicative relatives, or better, developing Tobler’s and Polentz’s original insights, ‘relative clauses employed predicatively’. I refer in particular to the so-called pre-sentative contexts (cf. (24), above) and to absolute constructions introduced by French avec or Italian con (cf. (25)). As has been seen, both these kinds of construction do not strictly show subject-object asymmetry: they are therefore ‘authentic’ relatives, derived through wh-movement. Their predicative nature might be ac-counted for by assuming that their antecedent is endowed with a [+aboutness] feature in the sense of Rizzi (2005): the antecedent (le travail in (24), or Marie in (25)) would therefore be the subject and the relative clause (qu’on ne peut abandonner and que Pierre ambrasse sans arrêt, respectively) the predicate. A similar analysis can also be suggested for groups 7. and 8. of Cinque’s (1995) list (see above: §2.4), i.e. “root small clauses” and “small clauses subject of copulative verbs”. Other kinds of construction that are often called PRCs seem rather to be adjunct clauses. This is the case of Cinque’s groups 2 and 3, which the author himself labels “adjunct clauses”. I would add to this class also the constructions after verbs like incontrare (‘meet’). They sound to me to be rather marginal in Italian, or rather as substandard; surely, they are less commonly in use than those that follow the verbs of perception. However the matter stands, we can hypothesize that their structure is analogous to that of the adjunct clauses (here labeled ‘CP’ for convenience) in the following examples: 25 I have still to account for why the subject-object asymmetry does not occur with ‘authentic’ relatives. A possible hint for an explanation lies in the different derivational history of the two constructions: while the antecedent of relatives is moved from its base position (namely, it is ‘internally merged’), that of PRCs is base generated (‘externally merged’).

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(27) Ho incontrato Gianni [CP che ero appena uscito di casa]

(I) have met Gianni that I had just left the house ‘I met Gianni when I had just left home’

(27) belongs to a substandard register; it can be analyzed as containing an adjunct clause with a subject PRO controlled by the NP Gianni, as in structure (22ii) or (22iii) of Cinque (1995); see above, §2.2. We have to add that the element che introducing the adjunct clause would not be a relative pronoun in this case, but the hom*ophonous complementizer. Of course, the occurrence of qui instead of que in French must be accounted for: I have for the moment no explanation. A further problem is represented by the PRs after verbs like sorprendere. Following Guasti (1992: 64), one could consider them as adjuncts and then they could be analyzed in the same way as those of the incontrare class. However, as Casalicchio (2013: 44) convincingly shows, sorprendere in the sense of ‘catch’ (unlike the same verb in the sense of ‘astonish’) is a three-argument, not a two-argument, verb: hence, the PR following its (superficial) direct object cannot be an adjunct and this motivates Casalicchio’s analysis in terms of ‘Lar-sonian shells’, which we have extended to perception verbs. I have no definite answer to this problem either, but we can remark that the behavior of sorprendere in this special usage is rather different from that of typical perception verbs like vedere. First of all, a sentence like (28) seems to me rather marginal:

(28) ?Ho sorpreso Gianni [CP che usciva dal cinema] ‘I caught Gianni coming out of the cinema’

Alternatively, if the construction following the NP object of vedere or incontrare is not a PR, but an infinitival, it is introduced by a with incontrare, while it is a bare infinitive after vedere (the opposite cases are not fully ungrammatical, but marginal nonetheless):

(29) a. Ho visto Luca rubare caramelle b. ?Ho visto Luca a rubare caramelle26 ‘I saw Luca steal toffees’ (30) a. ?Ho sorpreso Luca rubare caramelle b. Ho sorpreso Luca a rubare caramelle ‘I caught Luca Steal toffees’

One possible conjecture is that sorprendere (‘catch’) is to be classified among perception verbs27, with a some-what ‘peripheral’ status: the PR would belong to a category other than VP.28 3.3 Conclusion

We asked at the beginning if PRs are a kind of relative clause or rather a peculiar structure. The analysis presented here leads us to the latter option: PRCs are VPs in the form of a ‘Larsonian shell’ and hence essentially different from ‘authentic’ relatives. This accounts for the features that oppose the two kinds of constructions (possibility of cl*ticizing the head and subject-object asymmetry); the islandhood property that

26 From Guasti (1992: 58). 27 In fact, DISC (s.v.) defines it as “vedere qualcuno nel momento in cui sta compiendo qualcosa di nascosto, disdicevole proibito” (‘to see someone when he is doing something secretive or misbecoming or forbidden’; my italics); cf. Casalicchio (2013: 80). 28 Casalicchio (2013: 255) analyzes prepositional infinitives as those contained in (30b) as CP structures. This analysis could be extended to PRs after verbs of the sorprendere (‘catch’) class.

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they share can be explained by assuming an identical mechanism (i.e., in terms of phases), but not an identical structure. This analysis only holds for PRCs in contexts governed by verbs of perception. They form, along with those occurring in the other contexts, a spurious class from the structural point of view: the only feature they all share is their predicative nature, which justifies their standard identification as predicative relatives in traditional approaches. Acknowledgments

I thank Jan Casalicchio for his comments on a former version of the present paper, the responsibility for which is, of course, entirely my own. Probably, Jan would not agree with my analysis, but his remarks made me restate several points. Thanks are also due to an anonymous referee, who showed me many points need-ing further clarification. I am pleased to offer these reflections on a typical Romance phenomenon to Maria Grossmann, as a small sign of reverence for her impressive knowledge of Romance languages and for her work on them.

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Gli aggettivi denominali come basi di derivazione prefissale nel corpus MIDIA

Claudio Iacobini Abstract Taking the study on Italian denominal adjectives derivation presented in Grossmann (1999) as a reference base, this paper provides new data and reflections on the use of prefixes in the derivation of denominal adjectives. The availability of the MIDIA corpus allowed us to investigate the distribution of Italian denominal adjectives over time and text types, as well as to identify the most used suffixes and prefixes in this word-formation pattern. The sample of prefixed denominal adjectives extracted from the MIDIA corpus reveals important differences con-cerning the use of suffixes: almost all of the prefixed denominal adjectives are formed from bases derived with about one half of the different suffixes attested in the sample. The suffixes also differ for their use in prefixed relational or qualificative adjectives: some of them are used exclusively or preferably with either one or the other type of adjectives, some others with both types in a quantitatively equivalent distribution. The use of prefixes with relational adjectives does not seem to depend on the specific suffix of the adjectival base. Rather, it is prob-ably linked with the semantic equivalence existing among the suffixes forming relational adjectives. As for the distribution in textual genres, prefixed relational adjectives are used preferably in legal, administrative, and scien-tific texts. The most recent time phase (1841-1947) of the MIDIA corpus shows that prefixed relational adjectives have also spread in less specialized fields, due to their increased use in expository and personal texts. The most used prefix with relational adjectives is anti-1, meaning ‘against, opposite’. Prefixed qualificative adjectives are present especially in poetry. The most used prefix with qualificative adjectives is by far in-, which expresses anto-nymic meaning. Unlike relational adjectives, qualificative adjectives do not present significant diachronic trends regarding their use in the different text genres. KEYWORDS: prefixation • suffixation • denominal adjectives • diachrony • word-formation and text genres. 1. Considerazioni introduttive Questo contributo prende spunto da una pubblicazione del 1999, “Gli aggettivi denominali come basi di derivazione in italiano” (Grossmann 1999), in cui sono affrontati con la solita acutezza, passione, cu-ra documentaria e acribia due ambiti centrali della ricerca morfologica di Maria: l’analisi semantica della derivazione morfologica e l’attenzione ai dati ricavati da corpora. La recente disponibilità del corpus MIDIA1, risultato di un progetto di ricerca di cui Maria è stata fra i promotori e i più attivi partecipanti, ci ha permesso di integrare i risultati di Grossmann (1999) con alcuni dati e considerazioni riguardanti l’impiego dei prefissi nella derivazione degli aggettivi denominali. In Grossmann (1999) si possono distinguere due parti: la prima consiste di una dettagliata anali-si che mette a confronto le caratteristiche sintattiche e semantiche degli aggettivi di relazione e di quelli qualificativi, con particolare attenzione per gli aggettivi denominali; la seconda parte è dedicata allo stu-dio dei derivati nominali, verbali, avverbiali e aggettivali dell’italiano formati a partire dagli aggettivi de-nominali (di relazione e qualificativi) attestati in un corpus tratto dalle entrate del dizionario inverso pubblicato in Ratti et al. (1988), un’opera basata sull’edizione minore del vocabolario della lingua italia-na Zingarelli, che conta circa cinquantamila lemmi. Il corpus di riferimento usato in Grossmann (1999) consiste di circa tremilacinquecento lessemi aggettivali denominali selezionati a partire da una lista di circa trenta suffissi – qui riportata in (1) – che formano aggettivi da nomi. 1 Rimandiamo al §2 per una introduzione al corpus MIDIA.

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(1) -aceo, -ale/-are, -aneo, -ano, -ardo, -ario, -astico, -ato, -eo, ereccio (-areccio), -esco, -ese, -evole, -iaco, -iano, -ico, -iero, -ifico, -igno, -ile, -ino, -ista, -istico, -ito, -ivo, -izio, -oide, -olo, -oso, -uto

Numerosi aggettivi denominali ammettono sia l’interpretazione caratterizzante qualificativa sia quella classificante relazionale. Questo sia perché la distinzione fra i due tipi di significato (determinazione qualificativa vs. relazionale) non è sempre applicabile in modo univoco (si pensi agli aggettivi di mate-ria) sia perché molti aggettivi che indicano originariamente una relazione possono, attraverso un’estensione metaforica o metonimica, assumere il valore qualificativo.2 L’analisi formale e semantica dei derivati dagli aggettivi denominali formati con i suffissi in (1) operata da Grossmann allo scopo di individuare le differenze fra le basi relazionali e qualificative in rapporto alle caratteristiche dei lessemi derivati da esse si concentra sulla possibilità di ulteriore suffissa-zione. Altri fattori distintivi tra i due tipi di aggettivi sono di natura sintattica, e riguardano la possibilità di essere impiegati con funzione predicativa, la posizione prenominale, la coordinazione con un altro aggettivo, la graduabilità. Lo studio di Grossmann dimostra che la suffissazione degli aggettivi di relazione presenta mag-giori restrizioni rispetto a quella degli aggettivi qualificativi: infatti, dagli aggettivi di relazione, a diffe-renza degli aggettivi qualificativi, non si possono formare né verbi né nomi di qualità, e i soli avverbi possibili sono avverbi di frase che limitano la validità della frase al dominio del referente della base no-minale dell’aggettivo (ad esempio, la derivazione avverbiale dell’aggettivo di relazione sportivo > sportiva-mente è usata con il significato ‘per quanto riguarda lo sport’, mentre la derivazione avverbiale dall’aggettivo con valore qualificativo ha il significato ‘in modo corretto e leale’). Minore spazio è riser-vato alla derivazione prefissale, la quale si caratterizza per il fatto che gli aggettivi qualificativi possono essere derivati con un numero minore di prefissi rispetto a quanto accade per gli aggettivi di relazione. Agli aggettivi qualificativi è riservata la possibilità di essere derivati tramite i prefissi negativi. Con i prefissi a(n)-, dis-, in-, s- (asimmetrico, disumano, illegale, sproporzionato) si possono formare lessemi che entrano in rapporto di antonimia (popolare ‘molto noto e benvoluto’ > impopolare ‘sgradito all’opinione pubblica; non amato dal pubblico; di scarsa diffusione’) o di complementarità (legale ‘consentito dalla legge’ > illegale ‘non consentito dalla legge’) con le loro basi, in quanto indicano l’attribuzione della pro-prietà opposta a quella designata dalla base. Gli aggettivi di relazione si caratterizzano invece per la non polarità: l’interpretazione relazionale, ad esempio, di musica popolare entra in un rapporto tassonomico di opposizioni multiple (es. classica, jazz, rock, ecc.) che non possono essere designate tramite la negazio-ne prefissale. La caratteristica di fare riferimento a proprietà graduabili permette agli aggettivi qualificativi di essere derivati anche con prefissi che esprimono grado positivo o negativo (ipercalorico, subnormale, super-fortunato), un tipo di significato che deriva di norma da quello spaziale, secondo la metafora che identifi-ca con l’alto il grado migliore di una qualità e con il basso il grado peggiore (cfr. Grandi & Iacobini 2008).3 Gli aggettivi di relazione possono essere derivati con prefissi che coprono un più ampio spettro semantico, essi infatti possono esprimere ‘riferimenti spaziali’ (circumvesuviano, cisalpino, transalpino), ‘rife-rimenti temporali’ (precolombiano, postrisorgimentale), ‘molteplicità’ (multilaterale), ‘reciprocità, relazione’ (in-tergenerazionale). Il valore di ‘opposizione’ può essere espresso con il prefisso anti- e marginalmente con il prefisso contro- (antifascista, antinucleare, antisismico, controrivoluzionario). L’interpretazione semantica degli aggettivi di relazione prefissati si differenzia dalla più regolare costruzione semantica degli aggettivi qualificativi. Negli aggettivi di relazione il prefisso si riferisce se-

2 Sui criteri e i limiti della distinzione semantica fra aggettivi di relazione e qualificativi (e sui fondamenti filosofici di tale di-stinzione), rimandiamo a Rainer (2013: 12–15). Per un’analisi approfondita dell’uso attributivo degli aggettivi di relazione, si veda Nowaroska (2004). 3 Il numero di formazioni di questo tipo derivate da aggettivi denominali è piuttosto ridotto, e nel corpus MIDIA praticamen-te assente (prevalgono gli aggettivi deverbali iperaggressivo, ipereccitato, subvedente, superallenato, superdotato, superfavorito o non deri-vati ipercritico, superveloce).

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manticamente non alla base aggettivale, ma al suo nucleo nominale. Ad esempio, sottomarino non signifi-ca ‘sotto a ciò che è marino’ ma ‘sotto al mare’, in antimilitarista il prefisso anti- si riferisce al militarismo e ai militari. Si tratta di una costruzione che comprende, oltre ai prefissi, anche elementi formativi che esprimono gli stessi tipi di significato veicolati dai prefissi che si premettono ad aggettivi di relazione (endocranico, plenipotenziario, poliandrico, poliatomico, trilineare, unicellulare). L’interpretazione semantica di que-ste costruzioni va ricondotta non a una particolare struttura morfologica (quale, ad esempio, quella di tipo parasintetico), ma alla peculiare semantica degli aggettivi di relazione (cfr. Durand 1982; Rainer 1993: 103–104; Iacobini 2004). La funzione semantica degli aggettivi di relazione è appunto quella di indicare una relazione tra il nome testa del sintagma in cui sono impiegati e il nome da cui derivano; quest’ultimo svolge una funzione classificante in quanto restringe il campo di applicazione del nome te-sta del sintagma. Tra gli argomenti contro l’ipotesi parasintetica, e a favore della prefissazione facente riferimento alla base nominale, si può citare il fatto che uno stesso prefisso può combinarsi con aggetti-vi derivati con diversi suffissi (antiatomico, antimissilistico, antisociale) e viceversa (circumvesuviano, interafricano, transdanubiano), e il fatto che non esistono aggettivi di relazione prefissati che abbiano basi diverse da quelle attestate (cfr. costituzionale e anticostituzionale e non °anticostituzionario, rivoluzionario e antirivoluzionario e non °antirivoluzionale). L’interpretazione semantica degli aggettivi di relazione prefissati è analoga a quella delle formazioni con base nominale non suffissata di recente attestazione, quali antidroga, antifurto, antigrandine, antirughe, contraereo, controcarro (cfr. Iacobini 2004).4 È interessante notare che qualora un aggettivo di relazione (es. umano ‘che riguarda l’uomo, gli esseri umani’) assuma un’interpretazione qualificativa (umano ‘che dimostra sentimenti di comprensione e di equità che dovrebbero essere propri degli esseri umani’), la derivazione prefissale ha scopus seman-tico sull’aggettivo (inumano ‘privo di umanità, di pietà e indulgenza’), a differenza della interpretazione relazionale, in cui il prefisso fa riferimento alla base nominale dell’aggettivo (interumano ‘che riguarda le relazioni fra gli uomini; sociale’). 2. Natura e selezione del campione di aggettivi denominali prefissati tratti dal corpus MIDIA La pubblicazione in rete del corpus MIDIA (acronimo di ‘morfologia dell’italiano in diacronia’, cfr. Ia-cobini et. al. 2014; D’Achille & Grossmann (eds.) 2017) ci ha permesso di formare un campione di ag-gettivi denominali prefissati che comprende circa duemiladuecento token (995 aggettivi di relazione e 1199 aggettivi qualificativi), a partire dal quale abbiamo potuto indagare alcuni aspetti finora poco co-nosciuti o del tutto ignoti riguardanti la prefissazione degli aggettivi denominali dell’italiano. Nel para-grafo 3 presenteremo i dati riguardanti la diffusione temporale e la presenza degli aggettivi denominali prefissati in testi appartenenti a diversi generi testuali, e descriveremo l’impiego dei prefissi e dei suffissi per quanto riguarda sia i type sia i token. Questo paragrafo è invece dedicato alle caratteristiche del cor-pus MIDIA rilevanti per la presente indagine e alla metodologia di selezione del campione. MIDIA è un corpus bilanciato di testi della lingua italiana, che vanno dal dodicesimo secolo alla metà del ventesimo secolo, finalizzato allo studio della formazione delle parole dell’italiano dal punto di vista diacronico. I testi sono suddivisi in cinque periodi temporali e sette tipologie testuali. La lemma-tizzazione e la categorizzazione in parti del discorso delle circa 7.800.000 forme, assieme agli strumenti di interrogazione disponibili nel sito liberamente accessibile5 permettono vari tipi di ricerche sulle for-me, sui lemmi e sulle parti del discorso combinate con la distribuzione diacronica e per generi testuali. La datazione dei testi è stata ripartita in cinque fasi temporali, i cui riferimenti coincidono con importanti fatti di storia linguistica, letteraria e culturale, che possono essere considerati come punti di svolta nella storia della lingua italiana. I cinque periodi sono caratterizzati e delimitati nel modo seguen-te. Il periodo 1) (dall’inizio del Duecento al 1375) ha inizio con lo sviluppo della letteratura (e in genere della scrittura in volgare) in area toscana fino all’anno della morte di Boccaccio e dell’inizio dell’attività

4 Al pari degli aggettivi di relazione, queste formazioni sono usate di preferenza nelle terminologie tecniche e scientifiche, non sono graduabili e non sono di norma impiegabili in posizione prenominale né in costruzioni predicative; si distinguono dagli aggettivi di relazione per essere di norma invariabili (un dispositivo antifurto, due dispositivi antifurto). 5 Cfr. www.corpusmidia.unito.it.

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cancelleresca da parte di Coluccio Salutati.6 Il periodo 2) (dal 1375 al 1532) abbraccia l’esperienza dell’Umanesimo e del Rinascimento, si colloca quindi tra lo sviluppo del fiorentino ‘argenteo’ e la scelta in direzione classicista del fiorentino ‘aureo’ teorizzata nelle Prose della volgar lingua di Pietro Bembo (1525). Il periodo ha come data finale quella della terza edizione dell’Orlando Furioso, attuazione in poesia del-le teorie bembiane. Il periodo 3) (dal 1533 al 1691) è quello del tardo Rinascimento, del Manierismo e del Barocco. La data di chiusura coincide con la terza edizione del Vocabolario degli Accademici della Cru-sca (1691), all’indomani della fondazione dell’Arcadia (1690). Il periodo 4) (dal 1692 al 1840) comprende l’età dell’Arcadia, dell’Illuminismo e del Romanticismo. Un’epoca in cui si può collocare la nascita dell’italiano moderno. Il periodo termina con l’edizione definitiva dei Promessi sposi, basata sul fiorentino dell’uso vivo, e per tanti aspetti modello linguistico dell’italiano postunitario. Il periodo 5) (dal 1841 al 1947) comincia con la fase risorgimentale, continua con la formazione dell’Italia unita, con le due guerre mondiali, fino all’avvento della Repubblica e alla promulgazione della Costituzione. Il corpus comprende sette tipi di testi: a) Testi espositivi (es., trattati non scientifici, saggi, de-scrizioni, biografie, stampa, pubblicistica, ecc.), opere non rientranti nella categoria della prosa d’arte e disponibili ad accogliere tecnicismi e voci di matrice locale; b) Testi giuridico-amministrativi (es., leggi, regolamenti, statuti, atti amministrativi); c) Testi personali non destinati alla pubblicazione (es., lettere, autobiografie, diari, memorie, libri di conti); d) Poesia; e) Prosa letteraria; f) Testi scientifici, compren-denti soprattutto opere che hanno per oggetto le cosiddette scienze dure (matematica, fisica, biologia, chimica); per i periodi più recenti, sono compresi anche testi di statistica, psicologia e altre discipline scientifiche, mentre la fase prescientifica accoglie opere di alchimia, bestiari, volgarizzamenti di trattati scientifici classici, e altre opere del genere; g) Teatro, oratoria, mimesi dialogica. Quest’ultima tipologia include testi teatrali e altri testi scritti in vista di una fruizione orale o derivati da essa (es., prediche, di-scorsi, registrazioni di verbali di processi) e ad altre simulazioni di dialogo (es., manuali di conversazio-ne), al fine di cogliere fenomeni rappresentativi della modalità parlata. La selezione dei testi all’interno dei vari periodi è stata effettuata in modo da distribuirli (quanto più possibile) lungo l’intero arco cronologico di ciascun periodo. Al criterio storico si è affiancato quel-lo geografico. Il corpus riguarda la lingua italiana in prospettiva diacronica, e non comprende gli altri sistemi linguistici del dominio italo-romanzo. Pertanto, nei periodi 1) e 2) sono stati inclusi esclusiva-mente testi toscani o toscanizzati (es., le rime della scuola siciliana). A partire dal periodo 3) sono stati raccolti testi in italiano di provenienza geografica diversa. Il punto di partenza per la selezione del nostro campione è la lista di suffissi aggettivali denomi-nali elencati in Grossmann (1999: 407) sopra riportati in (1). Abbiamo interrogato il corpus MIDIA ri-cercando i lemmi aggettivali che corrispondessero alla stringa finale di ciascun suffisso. A partire dall’insieme di aggettivi la cui stringa finale corrispondesse a un suffisso della lista, abbiamo individuato tramite un intervento manuale gli aggettivi prefissati, ed abbiamo poi operato una successiva selezione, eliminando quelli come emisferico (da emisfero), semicolonnale (da semicolonna), e anche quelli come sradicato, sfrenato, i quali, pur avendo come radice un nome, hanno un iter derivazionale in cui è presente un verbo e in cui il prefisso non è l’ultimo processo derivazionale (freno > sfrenare> sfrenato).7 I suffissi che formano aggettivi denominali prefissati presenti nel corpus MIDIA sono riportati in (2).

(2) -ale, -aneo, -ano, -are,-ario, -ato, -eo, -esco, -ese, -evole, -iano, -ico, -ino, -ista, -istico, -ivo, -oso

Pur non comprendendo tutti i suffissi elencati in Grossmann (1999), la lista in (2) include tutti i suffissi che formano aggettivi denominali più produttivi e maggiormente rappresentati nel lessico dell’italiano (cfr. Thornton 1988; Wandruszka 2004). Ricordiamo che la selezione da noi operata prevede l’individuazione degli aggettivi denominali prefissati, i quali, evidentemente, sono un sottoinsieme degli aggettivi denominali.

6 La data finale della prima fase temporale di MIDIA è la stessa che delimita il corpus testuale dell’OVI- TLIO. 7 In un’ottica di prudenza, abbiamo adottato una versione sequenziale dei processi formativi, tipica di un orientamento teo-rico item and process, senza per questo aderire necessariamente a tale orientamento.

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I prefissi attestati in combinazione con aggettivi denominali nel nostro campione sono elencati in (3); quelli che si premettono ad aggettivi qualificativi (3a) sono distinti da quelli che si premettono ad aggettivi di relazione (3b).

(3) a. a(n)-, dis-, in-, s- b. ante-, anti-1, anti-2, circon-/circum-, cis-, co(n)-, estra-/extra-, inter-, oltre-,

pluri-, post-, pre-, sopra-/sovra-, sotto-/sub-, stra-, super-, trans-, ultra- 3. Presenza e distribuzione degli aggettivi denominali prefissati In questo paragrafo sono presentati i risultati dell’analisi del campione di aggettivi denominali prefissati individuati a partire dal corpus MIDIA. La distribuzione diacronica e diafasica degli aggettivi di relazione mostra particolari motivi di in-teresse. Come dimostrato in Lüdtke (1995), l’attuale ricchezza di impiego degli aggettivi di relazione in italiano, come anche nelle altre lingue romanze, non è una diretta conseguenza della ampia varietà di aggettivi di relazione attestati in latino.8 La fase tardo-latina e proto-romanza vede infatti la perdita di produttività del processo formativo e l’opacizzazione della composizionalità morfosemantica di molti aggettivi di relazione latini (cfr. lat. diurnu(m) ‘giornaliero, quotidiano’ e fr. jour ‘giorno’; lat. dominicu(m) ‘del Signore’ e sp. domingo ‘domenica’). L’analisi del campione da noi raccolto ci ha permesso di docu-mentare come la presenza degli aggettivi di relazione in italiano sia dovuta al continuo attingimento alla fonte latina per la ripresa o coniazione di termini di ambito tecnico a partire già dal latino medievale, per poi proseguire nel neo-latino post-rinascimentale. Una decisa affermazione del processo formativo nelle lingue romanze si ha alla fine del diciottesimo secolo con la formazione di nuove parole a diffu-sione internazionale a partire da linguaggi settoriali e scientifici (controrivoluzionario 1793, cfr. fr. contrerévo-lutionnaire, 1791). Dalla fine del XIX secolo e in misura crescente nel XX secolo fino ai nostri giorni si assiste alla coniazione di un alto numero di aggettivi di relazione, specialmente di ambito tecnico e spe-cialistico, e contemporaneamente alla diffusione di molti di essi nel lessico comune (anticlericale, extraur-bano, internazionale). Alcune tra le formazioni, pur recenti, rivelano ancora una evidente facies latina (prebel-lico 1916, circumlacuale 1986). La propensione degli aggettivi di relazione a essere usati di preferenza nella prosa settoriale e scientifica giustifica l’interesse per la loro distribuzione diafasica. La ripartizione del corpus MIDIA in sette generi testuali permette non solo di comprovare la loro predominanza nei linguaggi settoriali, ma anche di indagare la loro presenza nei diversi tipi di testo. Per quanto riguarda la distribuzione temporale, dalla Tabella 1 (che ha come valore di riferimen-to l’insieme degli aggettivi di relazione prefissati del campione) si può notare come la presenza di agget-tivi di relazione prefissati veda un forte incremento di token nelle due fasi temporali più recenti del cor-pus MIDIA, con un deciso aumento nel periodo che va dal 1841 al 1947, una fase in cui sono attestate più del 50% delle forme presenti nel campione.

TABELLA1:Distribuzionetemporaledegliaggettividirelazioneprefissati(token)Periodo 1 dal XIII sec. al 1375 4,5% Periodo 2 dal 1375 al 1532 4,5% Periodo 3 dal 1533 al 1691 8,1% Periodo 4 dal 1692 al 1840 29,7% Periodo 5 dal 1841 al 1947 53,2%

8 Sull’impiego degli aggettivi di relazione in latino, cfr. Maurel (1993).

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Il dato è tanto più significativo se messo a confronto con la distribuzione temporale degli aggettivi qua-lificativi riportata in Tabella 2 (che ha come valore di riferimento l’insieme degli aggettivi qualificativi prefissati del campione).

TABELLA2:Distribuzionetemporaledegliaggettiviqualificativiprefissati(token)Periodo 1 dal XIII sec. al 1375 5,8% Periodo 2 dal 1375 al 1532 12,4% Periodo 3 dal 1533 al 1691 27,1% Periodo 4 dal 1692 al 1840 29,4% Periodo 5 dal 1841 al 1947 25,3%

Come si può notare, per entrambi i tipi di aggettivi, le fasi temporali 1 e 2 hanno una percentuale più bassa di forme rispetto alla media attesa (la percentuale di aggettivi qualificativi è comunque doppia ri-spetto a quella degli aggettivi di relazione). A partire dal terzo periodo, la distribuzione delle forme dif-ferisce notevolmente: è sostanzialmente omogenea nel caso degli aggettivi qualificativi, mentre, come già detto, gli aggettivi di relazione hanno un’impennata nel periodo dal 1841 al 1947. Il grafico in Figura 1 rende evidente la diversa distribuzione nel corso del tempo dei due tipi di aggettivi prefissati.

FIGURA1:Confrontotraladistribuzionetemporaledegliaggettividirelazioneequalificativiprefissati(token)

La distribuzione percentuale dei type dei due tipi di aggettivi prefissati segue un andamento temporale analogo a quello dei token, come si può ricavare dai dati riportati in Tabella 3 e dal grafico in Figura 2, dove sono messe a confronto le distribuzioni temporali sia dei token che dei type dei due tipi di aggettivi prefissati.

TABELLA3:Distribuzionetemporaledegliaggettividirelazioneequalificativiprefissati(tokenetype) Agg. Rel. token Agg. Qual. token Agg.Rel. type Agg.Qual. type Periodo 1 4,5% 5,8% 3% 10,2% Periodo 2 4,5% 12,4% 8% 15,6% Periodo 3 8,1% 27,1% 15% 18,5% Periodo 4 29,7% 29,4% 26% 23,8% Periodo 5 53,2% 25,3% 48% 31,9%

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per.1 per.2 per.3 per.4 per.5

Agg.Rel.

Agg.Qual.

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FIGURA2:Confrontotraladistribuzionetemporaledegliaggettividirelazioneequalificativiprefissati(tokenetype)

La distribuzione degli aggettivi denominali prefissati nei generi testuali riportata in Tabella 4 (che ha come valore di riferimento l’insieme degli aggettivi di relazione prefissati del campione) evidenzia la dif-fusione degli aggettivi di relazione nei generi che rappresentano la prosa settoriale tecnica e scientifica (testi giuridico-amministrativi, testi scientifici), mentre in poesia e nei testi che si avvicinano alla modali-tà parlata la percentuale è molto bassa.

TABELLA4:Distribuzionedegliaggettividirelazioneprefissati(token)neigeneritestualiTesti espositivi 13,3% Testi giuridico-amministrativi 46,3% Prosa letteraria 9,5% Testi personali 10,3% Poesia 3,8% Testi scientifici 14,5% Teatro, oratoria, mimesi dialogica 2,2%

Molto diversa è la distribuzione degli aggettivi qualificativi (cfr. Tabella 5, che ha come valore di riferi-mento l’insieme degli aggettivi qualificativi prefissati del campione): abbondano in particolare nei testi poetici, ma sono presenti anche nella prosa letteraria e espositiva, significativa è anche la presenza nei testi teatrali e negli altri testi che si avvicinano alla modalità parlata. Molto scarso il loro impiego nei te-sti scientifici e giuridico-amministrativi.

TABELLA5:Distribuzionedegliaggettiviqualificativiprefissati(token)neigeneritestuali Testi espositivi 16,0% Testi giuridico-amministrativi 3,1% Prosa letteraria 16,6% Testi personali 5,8% Poesia 36,2% Testi scientifici 7,8% Teatro, oratoria, mimesi dialogica 14,5%

Nel grafico in Figura 3, è messa a confronto la distribuzione degli aggettivi di relazione e qualificativi prefissati nei generi testuali, prendendo in considerazione i token.

10

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per.1 per.2 per.3 per.4 per.5

Agg.Rel.Tok.

Agg.Qual.Tok.

Agg.Rel.Typ.

Agg.Qual.Typ.

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FIGURA3:Confrontotraladistribuzionedegliaggettividirelazioneequalificativiprefissati(token)neigeneritestuali

Se si entra nel dettaglio della distribuzione degli aggettivi prefissati nei generi testuali ripartiti nei periodi temporali, si possono osservare ulteriori interessanti differenziazioni nell’impiego dei due tipi di aggetti-vi.

FIGURA4:Distribuzionedegliaggettividirelazioneprefissati(token)neigeneritestualidistintiperperiodotemporale

Come si può ricavare dal grafico in Figura 4, l’ambito di impiego di gran lunga preferito per gli aggettivi di relazione prefissati sono i testi giuridico-amministrativi lungo tutto l’arco temporale indagato; si può inoltre notare un incremento importante del loro impiego nei periodi 4) e 5), oltre che nei testi scientifi-ci, anche in quelli espositivi e personali, a testimonianza della diffusione di tali costruzioni in ambiti d’uso meno settoriali. L’impiego nei testi teatrali e poetici è costantemente basso, anche se in lieve rial-zo nei due periodi più recenti. Anche negli aggettivi qualificativi un genere domina sugli altri per tutte le fasi temporali (cfr. Fi-gura 5), la lieve flessione che si registra nel periodo 5 nel linguaggio poetico va a favore della presenza di tali aggettivi nei generi testuali espositivi, personali, letterari e scientifici. A differenza degli aggettivi di relazione, negli aggettivi qualificativi non si notano quindi impennate nell’uso nei periodi più recenti, quanto piuttosto una convergenza della loro distribuzione nei diversi generi testuali. I testi di tipo giuri-

5

10

15

20

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50

ESP GIU LET PER POE SCI TEA

Agg.Rel.

Agg.Qual.

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per.1 per.2 per.3 per.4 per.5

esp

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per

poe

sci

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dico-amministrativo, seppure appaiano in leggero aumento nei periodi più recenti, sono costantemente quelli in cui gli aggettivi qualificativi sono meno usati.

FIGURA5:Distribuzionedegliaggettiviqualificativiprefissati(token)neigeneritestualidistintiperperiodotemporale

Fra i suffissi impiegati nella formazione di aggettivi denominali prefissati presenti nel campione, già elencati in (2) e qui di seguito riportati in (4), ci sono importanti differenze per quanto riguarda il nume-ro di formazioni attestate.

(4) -ale, -aneo, -ano, -are, -ario, -ato, -eo, -esco, -ese, -evole, -ico, -ino, -ista, -istico, -ivo, -oso

Infatti, i nove suffissi elencati in (5) in ordine di numerosità di token presenti nel campione coprono cir-ca il 99% dei token e il 92% dei type.

(5) -ale-, -ario, -ato, -ano, -eo, -aneo, -ico, -oso, -are Gli altri suffissi, elencati in (6) anch’essi in ordine di numerosità di token, sono presenti in un numero molto basso di aggettivi prefissati.

(6) -ese, -ino, -ista, -evole, -esco, -istico, -ivo C’è una larghissima sovrapposizione fra i suffissi che formano un alto numero di token e di type, infatti i suffissi che formano il più alto numero di type sono gli stessi dell’elenco in (5), a eccezione di -aneo rim-piazzato da -ista.9 I suffissi più frequentemente impiegati nel campione sono gli stessi che Wandruszka (2004) indica come quelli più usati nella formazione di aggettivi denominali, indipendentemente dalla prefissazione. Il grafico in Figura 6 rappresenta per ciascun suffisso la distinzione fra l’impiego nella forma-zione di aggettivi denominali prefissati qualificativi e di relazione in termini di type. Come si può notare, i suffissi -ale e -ico formano un numero molto simile di aggettivi di relazione e di qualità (con una leggera prevalenza degli aggettivi di relazione per -ale, e degli aggettivi di qualità per -ico). Alcuni suffissi mo-strano una più o meno netta preferenza per l’impiego relazionale (-ano, -ario, -eo), altri per quello qualifi-cativo (-oso). I suffissi -aneo, -are e -ista sono attestati solo in aggettivi di relazione, mentre -ato solo in ag-gettivi qualificativi. 9 È interessante notare che le formazioni con -ista (antimilitarista) sono attestate nel nostro campione quasi eclusivamente nel periodo 5.

20

40

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per.1 per.2 per.3 per.4 per.5

esp

giu

let

per

poe

sci

tea

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FIGURA6:Impiegodeisuffissinellaformazionediaggettividenominaliprefissatiqualificativiedirelazione(type)

I suffissi usati per formare aggettivi di relazione non si distinguono uno dall’altro per il tipo di significa-to espresso quanto piuttosto per il numero di formazioni che producono. C’è un generale consenso in letteratura ad attribuire ai suffissi che formano aggettivi di relazione un valore comune parafrasabile con ‘che ha qualcosa a che vedere con il nome di base’ privo di ulteriori connotazioni semantiche.10 La numerosità dei derivati con un determinato suffisso può dipendere da eventuali restrizioni sul tipo di basi nominali a cui si premette, o dagli ambiti settoriali in cui sono usati di preferenza, ad esempio -iano si usa preferibilmente con nomi propri, specialmente antroponimi (kantiano, marxiano), -ico è usato a partire da basi nominali terminanti con elementi formativi di origine greca, quali -fonia, -grafia, -logia, -metria, ecc. (radiofonico, biografico, meteorologico, geometrico), -ino ha un certa tendenza a derivare nomi di animali (caprino, vaccino). Sebbene sia possibile e frequente che un aggettivo di relazione assuma una lettura semantica qualificativa, e che quindi vi sia una ampia sovrapposizione fra suffissi che formano aggettivi denomina-li con valore relazionale e qualificativo, i suffissi qualificativi (o con impiego qualificativo) si distinguono da quelli relazionali per la tendenza a esprimere specifiche connotazioni semantiche. Ad esempio, tra i principali valori qualificativi del suffisso -oso c’è quello ‘pieno, dotato, munito di quanto designato dal nome di base’ (boscoso, muscoloso, sassoso). Riportiamo in (7) l’elenco dei prefissi presenti nel campione, già elencati in (3). In (7a) sono in-dicati i quattro prefissi che si premettono ad aggettivi qualificativi, in (7b) quelli impiegati nella deriva-zione di aggettivi di relazione.

(7) a. a(n)-, dis-, in-, s- b. ante-, anti-1, anti-2, circon- / circum-, cis-, co(n)-, estra- / extra-, inter-, oltre-,

pluri-, post-, pre-, sopra- / sovra-, sotto- / sub-, stra-, super-, trans-, ultra- Fra i quattro prefissi che si premettono ad aggettivi qualificativi, quello che di gran lunga forma il più alto numero di type è in-, il quale si combina con basi formate da sette diversi suffissi (-ale, -ano, -ario, -ato, -eo, -ico, -oso); in- è anche il prefisso con il più alto numero di token (inclusi anche i prefissi che si premet-tono ad aggettivi di relazione); s- forma un più alto numero di type rispetto a dis- pur combinandosi sol-tanto con due suffissi (-ato e -evole), mentre dis- è attestato con basi derivate con cinque suffissi diversi

10 Fra i contributi più recenti sull’argomento, rimandiamo a Fradin (2008) e a Rainer (2013); da quest’ultimo si possono rica-vare anche stimolanti riflessioni di natura onomasiologica riguardanti la competizione e la scelta fra la creazione e l’impiego degli aggettivi di relazione rispetto ad altre costruzioni (non solo morfologiche) che esprimono la stessa semantica di tipo classificante.

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-ale -aneo -ano -are -ario -ato -eo -ico -ista -oso

Agg.Rel.type

Agg.Qual.type

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(-ano, -ato-, -ese, -ico-, -oso); an- è attestato in un bassissimo numero sia di type sia di token, con basi termi-nanti in -ale e -ico. Per quanto riguarda i prefissi che si premettono ad aggettivi di relazione, quello di gran lunga con il maggior numero di type è anti-1 (antiguerresco, antiproletario, antireligioso, antisociale). Gli altri prefissi sono distribuiti in maniera piuttosto uniforme, e anche fra i tipi di significato che essi possono esprime-re non sembra che un tipo prevalga in modo netto sugli altri. Tra i riferimenti spaziali, sono espressi i valori ‘all’interno, in mezzo’ (intercostale), ‘fuori, all’esterno’ (extraurbano), ‘sopra’ (soprannaturale), ‘sotto’ (sottomarino, subcutaneo), ‘al di là, oltre’ (oltremontano, transoceanico, ultramondano); ‘al di qua’ (cispadano); ‘in-torno’ (circonpolare). Tra i riferimenti temporali si distinguono i valori ‘prima’ (antidiluviano, preistorico), ‘dopo’ (postcristiano). Il valore di ‘molteplicità’ è rappresentato da parole come pluricellulare, quello di ‘re-ciprocità, relazione’ da contemporaneo, internazionale, quello di ‘opposizione’ è usato in formazioni come anti-astensionista, antisocialista. Non sembra possibile individuare una preferenza da parte dei prefissi che si premettono ad ag-gettivi di relazione nel combinarsi con basi con un determinato suffisso. A riprova di tale osservazione, si notino i dati riportati in Tabella 6. La tabella è ottenuta a partire dai quattro suffissi (-ale, -ano, -are, -ico)11 che nel nostro corpus appaiono in combinazione con il numero più alto di prefissi in aggettivi denominali prefissati. Con una M sono indicate le combinazioni fra prefisso e suffisso attestate in MI-DIA, con una G le combinazioni non presenti in MIDIA ma attestate nel dizionario GRADIT, con W forme attestate nel Web, con il simbolo ° combinazioni di cui non abbiamo trovato attestazione. Come si può notare, la gran parte dei prefissi si combina indifferentemente con basi derivate con tutti e quat-tro i suffissi. I prefissi super-, stra- e ultra- sono tra i prefissi che indicano spazio quelli che più degli altri sembrano tendere verso una reinterpretazione intensificativa, ma tale valore è espresso quasi esclusiva-mente con aggettivi non derivati (strafelice, strapieno, ultrapiatto) o deverbali (strafatto, stravisto) invece che con denominali, ciò può spiegare alcune delle lacune presenti in tabella. La scarsa produttività del pre-fisso anti-2 si può spiegare con la tendenza ad evitare il conflitto omonimico con il più usato prefisso an-ti-1 e con la possibilità di impiegare al suo posto il prefisso pre- e la variante ante- (la quale anch’essa ap-pare di scarsa produttività).

TABELLA6:Aggettividenominaliprefissatiapartiredaisuffissi-ale,-ano,-are,-ico Prefissi Suffissi Esempi

-ale -ano -are -ico ante- M M G G antenatale, antelucano, antelunare, antevocalico

anti-1 M G G M anticostituzionale, antimanzoniano, antisolare, antigeometrico

anti-2 G M ° ° antidiluviano, antiscritturale

circon-/um- G G M G circumzenitale, circumvesuviano, circonpolare, circumoceanico

cis- W M G W cisequatoriale, cispadano, cislunare, cisoceanico,

co-/con- M G G M connazionale, compaesano, confamiliare, concentrico

estra-/extra- M M G G extrarazionale, extraurbano, extracellulare, extrascolastico

inter- M G G G internazionale, interafricano, interparlamentare, interetnico

oltre- W M M ° oltre-equatoriale oltremontano, oltresolare pluri- G ° M G pluriannuale, pluricellulare, pluripartitico

post- G M G G postadolescenziale, postcristiano, postconciliare, postatomico

pre- M G M M prestatale, preluterano, premilitare, preistorico

sopra-/sovra- M M G G soprannaturale, sovraumano, sopraclavicolare, sopraglottico

sotto-/sub- G M M G sottolinguale, suburbano, sublunare, sottopilorico

stra- M ° ° ° stragiudiziale

11 Il suffisso -are, pur essendo una variante foneticamente condizionata di -ale, ha una notevole frequenza (cfr. Wandruszka 2004: 388), nel nostro campione sono attestati aggettivi di relazione suffissati con -ale con otto diversi prefissi.

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super- G ° ° M superegionale, superorganico

trans- G G G M transequatoriale, transbrasiliano, transpolare, transoceanico

ultra- G M G G ultraregionale, ultramondano ultralunare, ultrabasico

4. Conclusioni Il campione di aggettivi denominali prefissati ricavato dal corpus MIDIA ci ha permesso di indagare la distribuzione nel tempo e nei generi testuali degli aggettivi denominali prefissati, e di individuare i suf-fissi e i prefissi più impiegati in tali costruzioni. Ci sono forti differenze nell’impiego dei suffissi: la quasi totalità degli aggettivi denominali pre-fissati sono formati a partire da poco più della metà dei suffissi attestati nel campione. È stato possibile individuare anche il diverso impiego dei suffissi negli aggettivi prefissati con valore relazionale o qualifi-cativo. Alcuni suffissi concorrono alla formazione dei due tipi di aggettivi in maniera simile, altri mo-strano una preferenza per l’uno o l’altro tipo, altri ancora sono usati esclusivamente nella formazione di aggettivi di relazione o qualificativi. L’analisi dell’impiego dei prefissi ha prodotto risultati per quanto riguarda sia la numerosità dei derivati prefissali sia la co-occorrenza tra prefissi e suffissi. Fra i prefissi che si premettono ad aggettivi qualificativi, in- spicca per la numerosità delle formazioni. Il prefisso più usato con gli aggettivi di rela-zione è anti-1, ma la differenza di impiego con gli altri prefissi premessi ad aggettivi di relazione è molto minore rispetto alla differenza tra in- e gli altri prefissi che si premettono ad aggettivi qualificativi. Per quanto riguarda gli aggettivi di relazione, non è stato possibile individuare abbinamenti ricorrenti fra prefissi e suffissi. Una caratteristica della prefissazione degli aggettivi di relazione sembra proprio essere il fatto che i prefissi sono indifferenti al tipo di suffisso della base, un fenomeno molto probabilmente collegato all’equivalenza semantica fra i diversi suffissi relazionali. La ripartizione in fasi temporali e generi testuali del corpus MIDIA ha fatto emergere differenze nell’impiego dei due tipi di aggettivi. Gli aggettivi di relazione prefissati sono usati di preferenza nei ge-neri testuali che rappresentano la prosa settoriale tecnica e scientifica (testi giuridico-amministrativi, te-sti scientifici), la percentuale in poesia e nei testi che si avvicinano alla modalità parlata è invece molto bassa. Nel corso del tempo, e in maniera particolare nell’ultima fase temporale (dal 1841 al 1947), si può notare la diffusione di tali costruzioni in ambiti meno settoriali, grazie all’incremento dell’uso nei testi espositivi e personali. Gli aggettivi prefissati qualificativi sono particolarmente diffusi nel linguaggio poetico. A differenza degli aggettivi di relazione, non si notano cambiamenti rilevanti della loro distri-buzione nelle fasi temporali più recenti. Riferimenti bibliografici D’Achille, Paolo & Grossmann, Maria (eds.). 2017. Per la storia della formazione delle parole in italiano: un

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Migranti e giustizia linguistica: una proposta interpretativa

Gabriele Iannàccaro Abstract The aim of this paper is to contribute to the comprehension of sociolinguistic aspects of migration and lin-guistic justice by means of introducing into the analysis a number of explicitly designed parameters. The pa-per will show and justify the motivations of these parameters and the (social) rules that control their use ar-guing that their consideration can draw important hints for a better understanding and implementations of issues of the study of migration and of linguistic justice. KEYWORDS: Sociolinguistics • Migration studies • Linguistic justice • Repertoires 1. Scopo e premesse Ci si occupa di linguistica per molti motivi, tra i quali la delizia intellettuale non è da annoverare fra gli ultimi. Tentare di capire come funziona e come si evolve il sistema forse al tempo stesso più familiare e più complesso fra quelli a disposizione dell’umanità è un’avventura scientifica alla quale è difficile sot-trarsi e che esercita il suo fascino su chiunque la incontri, professionista della linguistica o parlante con-sapevole. La linguistica permette sguardi rivolti verso strutture astratte e verso gli uomini che le usano1, e attraverso la linguistica si può fare storia, logica, antropologia, geografia, sociologia, filosofia, letteratu-ra, statistica. Personalmente mi sono incamminato nello studio della linguistica per amore della ‘chicca intellettuale’, dell’erudizione esoterica, del rigore nel ragionamento e delle lingue lontane, nel tempo e nello spazio; altri hanno senz’altro conosciuto strade diverse, di sicuro anche intellettualmente più commendevoli. Poi però ci si accorge che, stranamente, questa materia attraente per il suo armamentario tec-nico e per il potenziale di gioia intellettuale che restituisce può anche rivelarsi utile e aiutare a migliorare la vita di persone reali. E questo per almeno due motivi: uno, il più classico ma non per questo meno importante, perché contribuisce all’avanzamento generale della conoscenza dell’uomo e sull’uomo e perché, tramandata, può essere fonte di soddisfazione e crescita scientifica e intellettuale per altri; ma anche perché tramite la conoscenza linguistica si può dare una mano, forse piccola, ma concreta, a per-sone che si trovano in condizioni di disagio personale e sociale a causa della lingua che parlano. Interes-sarsi di minoranze linguistiche è un modo, così come lo è studiare l’acquisizione linguistica in situazioni non socialmente privilegiate, così come lo è approfondire le dinamiche del contatto fra lingue (e cul-ture) in condizioni di mobilità o migrazione. Le pagine che seguono sono dedicate a indagare il concetto di ‘disagio linguistico’ per come è sperimentato da parlanti in condizioni di multilinguismo.2 Ovviamente non tutte le situazioni di multi-linguismo sono apportatrici di disagio, e anzi il multilinguismo dovrebbe essere considerato la condi-zione naturale dei parlanti; il disagio appare quando le conoscenze linguistiche dell’individuo sono for-temente disallineate rispetto a quelle della comunità nella quale si trova a vivere, come accade in casi di imperfetta acquisizione della lingua ufficiale, o di minoranza linguistica non protetta o di migrazione verso una comunità dal repertorio linguistico molto differente. Questo disagio personale, già di per sé non auspicabile per i danni che comporta nella vita di relazione degli individui, diventa una vera ingiu-stizia linguistica se è ignorato, permesso o addirittura perpetrato dallo stato e dalle istituzioni.

1 Qui e altrove nel senso di Menschen e non, ovviamente, di Männer. È un peccato che l’italiano non possa fare agevolmente una tale distinzione senza ricorrere ad acrobazie lessicali che talora possono appesantire il testo. 2 Questo lavoro traduce, discute e approfondisce alcuni degli spunti presentati in Dell’Aquila, Gobbo & Iannàccaro in stam-pa. Sono grato ai due coautori dell’articolo per gli spunti e le discussioni.

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Il taglio del lavoro è teorico, anche se le notazioni che si faranno scaturiscono da un vasto pro-getto europeo sul multilinguismo in condizioni di mobilità e in particolare dall’attenta osservazione di concreti casi studio avvicinati per il progetto; perché non solo, come ci ha insegnato Maria Grossmann (per esempio in Grossmann 1980, 1983), per aiutare bisogna capire, ma perché anche la linguistica più ‘militante’ non può rinunciare alla gioia scientifica e tassonomica. Mi riferisco qui ai lavori legati all’unità italiana del progetto MIME (Mobility and Inclusion in a Multilingual Europe [www.mime-project.org]), coordinato dall’Università di Ginevra e a cui partecipano una ventina di università di molti Paesi dell’Unione Europea e studiosi di molte discipline diverse, dall’economia alla politica, alla giurispru-denza, alla sociologia. Il nostro gruppo di lavoro, il più specificamente linguistico, è composto da due cosiddetti Work Package3 e si occupa nello specifico di apprendimento e acquisizione linguistica. Il di-scorso che qui faremo prende le mosse dalle nostre riflessioni sui contesti di acquisizione non formale, spesso in ambienti duplicemente multilingui (ossia caratterizzati da multilinguismo sia nella comunità di partenza della persona mobile sia nella comunità di arrivo); in particolare abbiamo selezionato quattro casi studio, indagati mediante approfondite inchieste sul campo ad hoc:

1. Migranti dalla Ex-Iugoslavia in Alto Adige: dai contesti fortemente plurilingui del Kosovo, della Macedonia, del Montenegro al bilinguismo con diglossia regolamentato di Bolzano, Me-rano e Bressanone4; 2. Residenti portoghesi (in origine monolingui) ad Andorra: catalano, spagnolo, francese e por-toghese in condizioni di multilinguismo ricettivo (per una definizione del concetto cfr. sotto, al-la discussione sul parametro scl 1); 3. Lavoratori fortemente specializzati da diversi paesi europei nelle aziende multinazionali con sede a Vaasa/Vasa (Finlandia), città ufficialmente bilingue finlandese/svedese, con lingua di la-voro prevalentemente inglese; 4. Negoziazione spontanea delle lingue in occasioni formali e informali fra studenti europei ade-renti all’associazione AEGEE (Association des Etats Généraux des Etudiants de l'Europe); loro auto-biografie linguistiche.

Non saranno discussi analiticamente in questa sede i risultati delle inchieste, peraltro ancora in fase di studio; la loro attenta considerazione, però, è risultata fondamentale per il tentativo di sistema-tizzazione che qui si propone, dal momento che ha contribuito, insieme all’esame di molte altre situa-zioni multilingui a noi note o presenti in letteratura, a delineare un quadro il più dettagliato e usabile possibile delle condizioni reali del contatto e della mescolanza fra le lingue, in particolare in contesti di mobilità. 2. Multilinguismo e giustizia linguistica Nel campo di studi sulla migrazione e sul contatto fra lingue e culture - che sempre più si configura come terreno di confronto interdisciplinare fra linguistica, politica, economia, giurisprudenza, an-tropologia – il dibattito sul concetto di ‘Giustizia Linguistica’ (GL) è particolarmente fiorente e preve-dibilmente risente molto delle discipline frequentate dai singoli ricercatori che ad esso prendono parte. Il recente Alcalde (2015) ne è un’ottima rassegna di studi ad ampio raggio: rimando dunque senz’altro alla sua amplissima bibliografia, limitandomi ad appuntare alcune questioni chiave. Un aspetto per noi interessante sembra essere la relativa scarsa presenza, nel dibattito, di interventi propriamente sociolin-guistici: mentre non mancano vibranti e condivisibili prese di posizione sulla scomparsa di innumere-voli varietà linguistiche non protette e sui danni etnolinguistici che tale scomparsa comporta in termini 3 Nominalmente in capo uno a me e uno a Mark Fettes dell’Università Simon Fraser di Vancouver (domiciliato ai fini del progetto a Milano-Bicocca), ma di fatto entrambi operanti insieme presso l’Università di Milano-Bicocca, rimasta sede del progetto anche dopo il mio trasferimento a Stoccolma. Il coordinamento è a cura di Mark Fettes, di Vittorio Dell’Aquila e mia; partecipano al gruppo di lavoro comune, nell’autunno del 2016, Simone Ciccolone (Bolzano), Federico Gobbo (Am-sterdam), Tamara Gobbo (Vienna), Marta Lupica (Berlino), Mahbod Karamouzian (Milano-Bicocca), Maria Mazzoli (Bre-ma), Giuseppina Pani (Campobasso), Ida Stria (Poznań). 4 Per questo cfr. Lupica 2015.

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di ecologia linguistica (oltre al classico Nettle & Romaine 2000, vedi da ultimo Stibbe 2015; per una vi-sione problematizzante del concetto, Iannàccaro 2010), lo studio del multilinguismo, e nello specifico, del contatto linguistico e del rapporto fra parlanti e società multilingui non pare essere direttamente coinvolto nel dibattito – notevoli eccezioni sono Skutnabb Kangas (2000), Phillipson (2008), Bastardas i Boada (2010); vedi anche il recente monumentale Skutnabb Kangas & Phillipson (2016). Le questioni più spesso sollevate negli studi di giustizia linguistica ruotano intorno ai problemi che sorgono dalla di-versità linguistica (leggi: diversità delle lingue nazionali e ufficiali) nelle relazioni economiche e politiche e dall’ineguale distribuzione del potere nel mercato linguistico (Bourdieu 1977, 1994, 2001), a svantag-gio sia delle lingue nazionali meno favorite in campo economico o scientifico, sia dei loro parlanti nei confronti delle istituzioni. In questo senso un ‘giusto’ ambiente linguistico dovrebbe prevedere un pari accesso alle risorse linguistiche pubbliche in tutto il mondo da parte del maggior numero possibile di parlanti, in modo tale da perseguire una meno irregolare distribuzione delle abilità linguistiche nella vita quotidiana delle società umane. Così giustizia, nell’accezione qui impiegata, si riferisce solitamente all’effetto delle condizioni oggettive o dei vincoli ufficiali o delle politiche sociali che producono il con-cretizzarsi di condizioni comunicative più o meno ‘giuste’. Ci sono tuttavia due questioni chiave che il sociolinguista vorrebbe discutere, ed entrambe ri-montano in ultima analisi all’antica querelle fra Ascoli e Manzoni sulla forma da dare alla lingua e so-prattutto alla civiltà culturale del nascente Regno d’Italia. Come è ampiamente noto, e riassumendo e volgarizzando in modo brutale, Manzoni si concentrava sulla lingua comune da proporre allo stato, men-tre Ascoli appuntava le sue attenzioni sull’incremento della riflessione metalinguistica della società nel suo complesso e sul miglioramento in generale delle sue condizioni di alfabetizzazione, a prescindere dall’uso effettivo, nelle funzioni sociolinguisticamente basse, di una lingua comune o di dialetti locali. Il prevalere della posizione manzoniana, forse inevitabile data la temperie culturale dell’epoca, ha pro-dotto anche in Italia – parallelamente a quanto avveniva altrove in Europa – una situazione di diffuso semilinguismo, in cui un ampio strato della popolazione non è stato in grado di far fronte alle compe-tenze linguistiche che venivano richieste, generando diffuse situazioni di disagio linguistico (e dunque di ingiustizia linguistica), ossia di scarto fra il repertorio individuale effettivo del parlante e quello previsto dalla comunità. Un tale stato di cose perdura in gran parte ancor oggi, pur nel ‘conquistato’ monolinguismo sta-tuale dei paesi europei: se esaminiamo i parametri del Quadro europeo comune di riferimento per le lingue relati-vamente al livello C2, ci rendiamo conto che una gran parte dei cittadini di molti stati d’Europa (con l’eccezione di alcuni paesi scandinavi e slavi occidentali) non raggiunge un tale livello di competenza neppure in quella che dovrebbe essere la propria ‘lingua madre’ (o meglio, la lingua di socializzazione e istruzione primaria).5 Prendiamo per esempio i parametri di ‘lettura’:

riesco a capire con facilità praticamente tutte le forme di lingua scritta inclusi i testi teorici, struttural-mente o linguisticamente complessi, quali manuali, articoli specialistici e opere letterarie

o ‘scrittura’:

riesco a scrivere testi chiari, scorrevoli e stilisticamente appropriati. Riesco a scrivere lettere, relazioni e articoli complessi, supportando il contenuto con una struttura logica efficace che aiuti il destinatario a identificare i punti salienti da rammentare. Riesco a scrivere riassunti e recensioni di opere letterarie e di testi specialisti.

e ci sarà immediatamente chiaro che sono livelli inaccessibili (per la lingua principale dell’istruzione, non per altre L2) alla maggioranza degli studenti universitari francesi, o inglesi, o tedeschi, o italiani (Iannàccaro & Dell’Aquila 2016). Da un lato dunque società anche dichiaratamente compatte sul piano linguistico prevedono un forte tasso di inadeguatezza linguistica, e dunque di disagio, fra i propri stessi cittadini; d’altro canto, e

5 Il problema su che cosa possa o debba essere considerato ‘lingua madre’ è sterminato e particolarmente scivoloso proprio nelle situazioni multilingui, diglottiche o dilaliche; mi dispenso dal richiamarlo qui, accontentandomi di una lettura voluta-mente scorretta, ma condivisa dal parlare comune e amministrativo, che pone artificialmente l’accento sulla testa della poli-rematica.

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anche questa considerazione deriva dalle riflessioni di Ascoli, le comunità linguistiche reali sono tutt’altro che compatte, essendo caratterizzate da forte plurilinguismo interno: si pensi solo alle diglos-sie/dilalie6 fra lingue nazionali e dialetti o lingue delle minoranze della maggior parte degli stati nazio-nali, che introducono ulteriori variabili e ulteriori scarti fra repertorio individuale e comunitario. Ora, ‘mettere i propri cittadini in grado di pensare e di esprimersi’ è compito dello Stato, che idealmente do-vrebbe farlo tenendo conto dei repertori di partenza dei parlanti, incrementando realmente l’accesso al-la/e varietà ufficiali nel rispetto delle preferenze e degli usi linguistici delle diverse comunità – il che non significa ipso facto la promozione indiscriminata di tutte le varietà possibili all’uso amministrativo o scolastico, ma appunto il rispetto delle condizioni di ‘agio’ linguistico del parlante, ossia

the full social and communicative freedom of concern of the speaker in a given social interaction in-volving the use of language(s), for example in different communicative situations like chatting with friends in a pub or talking with teachers during lessons or in front of a civil servant (Iannàccaro & Dell’Aquila 2016: 49).

È di fatto frequente che le diverse comunità linguistiche scelgano di legare diverse abilità e agi comunicativi a varietà diverse, e che queste scelte siano regolate da norme sociolinguistiche piuttosto severe: nelle comunità cosiddette monolingui i parlanti si riferiscono a queste varietà come a ‘registri’ o ‘livelli’, mentre in situazioni di dichiarato multilinguismo preferiscono etichettarle come ‘dialetti’, o ‘va-rietà’, o ‘lingue minori’ (o con altre etichette ingenue che qui non discuto). Prendiamo per esempio un caso molto semplice e conosciuto di diglossia à la Ferguson, la Svizzera tedesca, dove le competenze ef-fettive abituali del parlante nella comunità sono distribuite fra lingue diverse, il tedesco letterario e lo svizzero tedesco; una tale distinzione è non solo tollerata, ma incoraggiata dalle norme del repertorio comunitario. A Zurigo, per esempio, astraendo dalle comunità migranti e dal diffuso plurilinguismo del-la stessa società svizzera, a nessun membro della comunità linguistica viene chiesto di scrivere nella stessa varietà con la quale parla, in quasi nessuna occasione che non siano testi giocosi o molto infor-mali: possedere una ‘giusta’ competenza linguistica, che non comprenda disagio per il parlante, significa acquisire livelli diversi di abilità in lingue diverse, più o meno secondo lo schema:

Parlato Scritto Schwytzertütsch C2 – Hochdeutsch B1 (→ C2) C2

Ma tutti abbiamo presenti situazioni anche assai più complesse di distribuzione dei codici e delle loro norme d’uso nelle diverse comunità linguistiche: come è chiaro, per affrontare le dinamiche del disagio linguistico bisogna tener conto dell’intero repertorio, del singolo parlante e della comunità. È in conte-sti come questi che vanno inquadrate, dal punto di vista del sociolinguista almeno, le istanze di GL rela-tivamente alle popolazioni migranti, come vedremo ora. 3. Mobilità e giustizia linguistica Il senso di disagio linguistico determinato dallo scarto fra il repertorio individuale del parlante e le aspettative della comunità linguistica è – se non proprio creato – certamente amplificato dall’istitu-zionalizzazione dei rapporti linguistici all’interno delle società; un portato, come è noto, delle forze congiunte dell’illuminismo francese e del romanticismo tedesco, che instaura, non più solo a livello let-terario, i concetti di ‘norma’ ed ‘errore’ linguistico sanzionabile. Si prova disagio quando si ha la consa-pevolezza che la propria competenza linguistica non è allineata alle richieste della situazione co-municativa in corso o quando si fa esperienza di una qualche fallacia simbolica nell’uso del linguaggio.

6 Sulla scorta di Berruto 1995, ma non del tutto in coincidenza con la sua proposta, distinguo, come ormai è normale, fra situazioni di ‘diglossia’, in cui praticamente nessun ambito comunicativo è in comune alle lingue che si ripartiscono le fun-zioni comunicative del repertorio comunitario, e di ‘dilalia’, in cui una tale sovrapposizione è ammessa dai parlanti.

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Se questo in generale accade anche nelle comunità linguistiche stabili, tanto a maggior ragione il disagio linguistico è esperienza comune, e talora lacerante, nelle situazioni di mobilità. La misura che parrebbe più ovvia - e di certo quella più praticata – per aggirare una tale que-stione, ossia l’insegnamento della lingua d’arrivo come L2, pur ovviamente fondamentale e imprescin-dibile, non è effettivamente da sola una soluzione. Prendiamo una sorta di ‘caso zero’ di mobilità, sem-plificato a piacere di tutte le variabili extralinguistiche che pure hanno grande effetto nella vita comuni-cativa del migrante: quello di una milanese colta che si stabilisce a Bolzano, sicura di buone prospettive di lavoro. Non è una ‘straniera’, l’italiano lo conosce (arriva, lei, al livello C2), parla inglese e studia con passione e profitto il tedesco, raggiungendone in breve una buona competenza. Questo non la libera dal disagio in una grande varietà di situazioni comunicative: i suoi concittadini, nel centro storico, non par-lano tedesco ma boznerisch, e le due varietà non sono immediatamente intercomprensibili; quando la no-stra immigrata si rivolge loro in Hochdeutsch, le viene risposto in italiano, a scorno dei suoi tentativi di in-tegrazione.7 Che cosa dire allora dell’immigrata senegalese, che afferma di essere parlante nativa di wolof (ma in realtà in famiglia parla lebu), alfabetizzata in francese e catapultata in un contesto come, poniamo, quello friulano? E questo anche solo limitando la nostra discussione al disagio comunicativo derivante dalla differenza linguistica, senza contare gli altri marcatori sociali, culturali, economici o raz-ziali – pur consci che gli aspetti linguistici sono a questi inestricabilmente legati. Un modo di avvicinarsi al problema può essere quello di esaminare le possibili variabili che in-tervengono nei casi di mobilità e di immaginare gli esiti che dal combinato disposto di queste variabili possono derivare: in questo modo, almeno idealmente, si può tentare di controllare tali variabili e di predisporre misure che possano evitare o almeno attenuare gli esiti più portatori di disagio e ingiustizia linguistica. Il punto di partenza sociolinguistico dovrebbe essere la considerazione che, nel processo di mobilità individuale e di popolazioni che caratterizza questi anni, migranti provenienti da posti diversi e, ciò che per noi è più importante, con repertori di partenza diversi e con diversi atteggiamenti rispetto alle lingue e alle società da cui si allontanano arrivano in comunità già di per sé multilingui, alterandone le regole consolidate di distribuzione dei codici. Chiaramente, ogni politica linguistica volta a elevare il livello di GL nella società dovrebbe tendere, anche solo per motivazioni economiche, ad includere nelle comunità di accoglienza il più alto numero possibile di parlanti; tuttavia (e questo è il punto di partenza di tutto il progetto MIME), mobilità e inclusione (linguistica) sono forze potenzialmente in conflitto. La mobilità spinge verso il cambiamento, tramite nuove e diverse varietà che entrano nel repertorio, pro-vocando spesso l’indebolimento di altre, tradizionali e importanti per le relazioni fra peers, mentre l’inclusione prevede, da parte dei migranti, l’accettazione di norme sociali e linguistiche da lungo tempo stabilite e provenienti da gruppi esterni. Le istituzioni e la società devono entrambe rispondere a queste sfide, ognuna negli ambiti che gli sono propri, e non può essere dato per scontato che da entrambe le parti, migranti e accoglienti, ci sia la possibilità o anche solo la volontà di gestire queste pulsioni lingui-stiche e il loro potenziale di conflitto. L’educazione linguistica deve essere considerata un momento cruciale nel bilanciamento fra le istanze di mobilità e quelle dell’inclusione: tuttavia, lo si accennava sopra, l’educazione formale da sola non è sufficiente, proprio in presenza di repertori complessi e multilingui. Accanto a questa bisogna considerare l’acquisizione spontanea, tenendo ben presente che tipi diversi di educazione linguistica, formale (ossia direttamente gestita dalle istituzioni), non formale (quella affidata a parti sociali) o infor-male, di strada per così dire, così come i diversi atteggiamenti di partenza e le varie motivazioni verso l’apprendimento pongono questioni differenti e portano a risultati che possono essere anche molto di-versi, proprio dal punto di vista della GL. E in questo senso il comportamento delle istituzioni e della società può divergere parecchio: in generale le istituzioni, in Europa almeno, sono piuttosto sensibili all’importanza dello sviluppo delle abilità linguistiche delle persone mobili e spesso promuovono atti-vamente una quantità di iniziative (corsi di lingua, attività culturali e così via); ma questo atteggiamento non è necessariamente rispecchiato dalla società civile. Abbiamo così di norma una serie di criteri istitu-zionali che sanciscono l’inclusione, come il livello di conoscenza linguistica richiesto per ottenere la cit-tadinanza o per iscriversi all’università e così via – supportati da iniziative per il raggiungimento di tali 7 Rinuncio qui ad una discussione delle pur fondamentali differenze fra i concetti di ‘integrazione’, ‘assimilazione’ e ‘inclu-sione’, oggetto di vasta letteratura nelle scienze politiche e educative e di ampio dibattito all’interno del progetto MIME.

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livelli; ma, appunto, la realtà linguistica effettiva delle comunità può essere assai più complicata da ac-quisire, e l’inclusione sociale più difficile da ottenere. 4. Parametri di mobilità e giustizia linguistica I bisogni linguistici dei migranti, così come quelli delle comunità di arrivo, rappresentano spesso un for-te potenziale di disagio in ogni interazione nella comunità linguistica: per questo è necessario, credo, in-dentificare nel modo più dettagliato possibile i parametri che governano le interazioni fra migranti e so-cietà di accoglienza. Le tabelle che seguono sono un primo tentativo in questa direzione, che tenteremo di discutere brevemente senza nasconderne il carattere per il momento di proposta provvisoria; sono suddivise per ‘dimensioni della mobilità’, che proponiamo come: (wrk) lavoro e condizioni di lavoro; (dir) direzioni della mobilità (all’interno dell’Unione Europea o da fuori); (lr) repertorio linguistico delle persone mobili all’inizio processo; da connettersi con (ra) repertorio linguistico della società di acco-glienza; e (scl) condizioni sociolinguistiche della società di accoglienza; e finalmente (lv), un insieme di variabili strettamente connesse con l’apprendimento o l’acquisizione linguistica, come gli atteggiamenti nei confronti della lingua, il retroterra culturale e eventuali attività di apprendimento linguistico già in-traprese prima di arrivare nella società ospite. Una dimensione conclusiva, separata dalle altre è quella appunto degli esiti (out) di tali processi combinati. Tutte le dimensioni sono articolate in sottocasi.

TABELLA1.Lavoro/condizionidilavoro

Studenti

Mobilitàpertrasferimentodellafamiglia wrk11

Mobilitàindividualeperragionidistudio

Abrevetermine wrk121

Alungotermine wrk122

Mobilitàperconseguireunlavorodesiderato wrk13

Inetàlavorativa Tipodimigrazione:quadri,lavoratorinonqualificati,incercadilavoro,perra-gioniideologicheodipercezionedellasocietà wrk2

Pensionati

Mobilitàperpiacere(eventualevariazione:provenientidaeconomiafor-te/debole) wrk31

Rientroinpatria wrk32

Non discuterò nel dettaglio ogni cella delle tabelle, ossia i singoli parametri (socio)linguistici che posso-no essere combinati per descrivere situazioni comunicative reali, ognuna con il suo potenziale di disagio o ingiustizia linguistica; spenderemo invece qualche parola sulla costruzione della struttura generale di ogni sezione e dei parametri sui quali è basata. Una prima variabile importante è costituita dall’età al momento della migrazione, e dunque dal tipo di attività che ci si immagina di svolgere nel paese di arrivo: è strettamente connessa con le princi-pali motivazioni personali alla mobilità (studio, lavoro, pensionamento, riunificazione familiare), a loro volta legate a cause molto generali di migrazione che coinvolgono gruppi interi più che persone singole (crisi economiche, guerre, persecuzioni o discriminazioni nei paesi d’origine). Abbiamo a lungo discusso se dovesse essere introdotta una condizione in un certo senso preliminare, legata a diversi livelli di vo-lontarietà rispetto alla mobilità: è evidente infatti che le condizioni di un profugo e uno studente Era-smus, per dire, sono radicalmente differenti. Al momento attuale dell’elaborazione di questi parametri si è però deciso di non farlo: dal punto di vista sociolinguistico, e naturalmente tralasciando di necessità altre considerazioni di tipo umanitario o morale, le tipologie di mobilità che proponiamo ricomprendo-no in sé le diverse possibilità di contatto linguistico e sociale, a prescindere dalle condizioni profonde che le hanno originate. Quello che può variare molto sono le motivazioni all’apprendimento e

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all’integrazione (e di converso gli atteggiamenti nei confronti dei nuovi venuti da parte della società ac-cogliente), ma appunto questi sono i parametri che qui vengono analizzati. E, di regola, è utile contene-re il più possibile le tipologie tassonomiche che si propongono in modo da comprendere in esse il mag-gior numero immaginabile di casi e non cadere nella fallacia dell’equivalenza fra tokens e types, ossia fra singole occorrenze e la loro tipologizzazione. Questa è anche la ragione per cui non compaiono esplicite menzioni di marcatori socioculturali profondi, come potrebbe essere la religione rispettiva di migranti e accoglienti: è necessario, sul piano operativo, riflettere sulla superficie delle condizioni del contatto, non sulle ragioni interne che fanno sì che un certo evento o una condizione si verifichi o che un certo atteggiamento nei confronti della lin-gua sia quello o un altro – argomento questo di studio assai importante, ma meno centrale per le consi-derazioni che qui si fanno. Cruciale per ogni processo di acquisizione o apprendimento linguistico, e dunque di integrazione e relativa GL, è l’età al momento della mobilità, che è a sua volta di massima ri-compresa nella condizione lavorativa del migrante: da qui la fissazione di questo parametro a preferenza di altri. Si sarà anche notato che alcune variabili hanno un trattamento più analitico rispetto ad altre (per esempio wrk 11-13 nei confronti di wrk 2): questo dipende dalla struttura inerentemente dicotomica o descrittiva delle variabili stesse: wrk 2, per esempio, è un descrittore di situazioni lavorative diverse che devono essere valutate singolarmente, e non una macrovariabile che può essere ulteriormente articolata. Quanto alla notazione ‘economie forti / deboli’ cfr. subito sotto.

TABELLA2.Direzionedellamobilitàattraversol’Europa8

*UE→*UEFrapaesieconomicamenteequivalenti dir11

Frapaesilecuieconomiesonosbilanciate dir12

¬*UE→*UEDapaesieconomicamenteforti dir21

Dapaesieconomicamentedeboli dir22

¬*UE→*UE→*UE… Migrazionediflusso dir3

*UE→¬*UE (possibile,maaldilàdegliscopidelprogettoMIME) dir4

¬*UE→¬*UE (possibile,maaldilàdegliscopidelprogettoMIME) dir5

Questo aspetto è fondamentale all’interno del progetto MIME, incentrato sulla e finanziato dall’Unione Europea; è tuttavia anche teoreticamente interessante, perché permette di individuare almeno due fatto-ri determinanti l’esperienza della mobilità dal punto di vista linguistico. Il primo è appunto l’accennato diverso valore delle lingue sul mercato globale: è chiaro che un madrelingua inglese avrà un’esperienza di mobilità del tutto differente – all’interno della UE almeno, rispetto, poniamo, ad un madrelingua svedese o albanese. Tuttavia il dato puramente linguistico può essere in parte fuorviante: con l’ovvia ec-cezione dell’inglese (e forse, in nicchie particolari, del francese e del tedesco), lo stabilirsi, poniamo in Francia, di un lingua madre svedese o albanese pone in teoria problemi molto simili di non comprensi-bilità linguistica fra repertorio del migrante e quello della società accogliente: una lingua meno diffusa e non molto studiata all’estero nei confronti di una delle poche lingue internazionali e diplomatiche – questo beninteso, semplificando al solito le condizioni reali legate alla definizione di ‘lingua madre’, che possono vedere per il repertorio albanese, alternanza di (varietà di) ghego e tosco (o addirittura un dia-letto greco o slavo), o per lo svedese una provenienza dalla regione della Scania o del Dalarna, i cui dia-letti sono piuttosto diversi dallo standard; e sul versante francese, grandi diversità di condizioni lingui-stiche a seconda, poniamo, del quartiere della Grande Parigi d’arrivo del migrante. Proprio la considerazione dei ‘particolari realistici’ deve portare però ad una riflessione di senso

8 Legenda minima: UE: Unione Europea; *UE: Unione Europea più paesi ad essa fortemente assimilabili, Svizzera, Norve-gia, Serbia, Albania e così via; → : direzione della migrazione; ¬: ‘non’.

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sociolinguistico: chi è di lingua madre svedese, per esempio, è sicuramente in possesso di un ottimo in-glese L2, e questo non può essere dato per scontato per una persona di lingua madre albanese. Inoltre, realisticamente, le condizioni della mobilità in termini di aspettativa lavorativa, di rapporto con la socie-tà accogliente, di disponibilità economica immediata dopo l’arrivo saranno di norma piuttosto diverse, e tali da influenzare in modo anche decisivo l’esperienza di contatto linguistico fra migrante e popolazio-ne. Per questo il parametro qui considerato riguarda l’eventuale differenza di condizioni economiche fra gli stati coinvolti – e non solo e non troppo di potere linguistico, per cui, in Europa almeno, la sola di-stinzione possibile è fra inglese e tutte le altre lingue9; l’immagine del migrante da parte della società ac-cogliente cambia molto a seconda della percepita floridezza economica e sociale del paese da cui pro-viene, e questo parametro ha un forte riflesso sui meccanismi di integrazione e GL. Un secondo aspetto notevole è la durata del periodo di mobilità, o più precisamente i progetti o le aspettative del migrante riguardo alla mobilità: l’intenzione (o la costrizione, ricordo che la volontarie-tà rispetto alla mobilità è un parametro ricompreso negli altri che stiamo discutendo) di rimanere per un breve o lungo periodo, di ritornare nel paese d’origine e così via. In particolare sono interessanti, dal punto di vista sociolinguistico, quelle che possiamo chiamare ‘migrazioni di flusso’, ossia lo spostarsi in tempi medio brevi da un paese all’altro, senza stabilirsi permanentemente in alcuno; condizione di vita, questa, sempre più diffusa. Considereremo le prossime tre tabelle in modo correlato.

TABELLA3.Repertoriolinguisticoall’iniziodelprocessomigratorio

MonolingueLinguaforte lr11

Linguadebole lr12

ConbuonacompetenzadiunaL2

Linguaforte lr21

Linguadebole lr22

BilingueDuelingueforti lr31

Lingua/eforte,lingua/edebole/i lr32

DiglotticoDiglossiainterna lr41

Diglossiaesterna lr42

TABELLA4.Tipologiasociolinguisticadelterritoriodiaccoglienza

Tendenzialmentemonolingue ra1

Tendenzialmentediglottico ra2

Tendenzialmentemultilingue

Due/piùlingueforti ra31

Lingua/eforte/i,lingua/edebole/i ra32

9 Questo, come si accennava in apertura, è un fiorente filone di ricerche sulla GL.

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TABELLA5.Condizionisociolinguistichedelterritoriodiaccoglienza

Distanzatipolo-gicafralelingue

Intercomprensioneolinguareceptivaimpossibile scl11

Intercomprensioneolinguareceptivapossibile scl12

PresenzadiunaLinguaFranca

Usataestensivamentenelterritoriodiaccoglienza scl21

Conosciutadalmigrante scl22

SocialNetwork

No/debole scl31

Denso,molteplice

Apertoallasocietàdiacco-glienza scl321

Chiusoversolasocietàdiacco-glienza scl322

Communitiesofpractice

Aperteallasocietàdiaccoglienza scl41

Cheescludonolasocietàdiaccoglienza scl42

Questi presentati sopra sono i parametri più propriamente sociolinguistici, e dunque quelli che in questa sede necessitano di una minore discussione; presi nel loro insieme tratteggiano, nelle intenzioni almeno, le condizioni effettive del contatto linguistico in situazioni di mobilità. Mi limiterò dunque a qualche cenno esplicativo di scelte particolari, lasciando che chi legge possa divertirsi a raffigurarsi esempi con-creti. I parametri lr descrivono le condizioni linguistiche previe della persona mobile: e devono dun-que prevedere la possibilità e anzi la probabilità di repertori anche fortemente multilingui in chi giunge in un nuovo territorio. Ciò sembrerebbe del tutto ovvio, ma è un fattore spesso trascurato, dalle ammi-nistrazioni pubbliche come dalla società civile; e se è in fondo scusabile la convinzione che, per il par-lante medio, i ‘cinesi’ parlano ‘cinese’, meno commendevole è per esempio la raccomandazione ufficiale di parlare russo (tramite interpreti e mediatori, beninteso) ai cittadini moldavi che si ritrova per esempio in una circolare del Comune di Milano di pochi anni fa. Pure da valutare è l’eventuale buona competen-za di L2 da parte del migrante. Come accennato sopra, per esempio, la chiave d’ingresso linguistica per i senegalesi in Europa è il francese, che li pone, fatti salvi gli altri marcatori sociali, in condizione di quasi omolinguismo con la società europea in numerose occasioni, e di decisa facilitazione all’apprendimento delle lingue romanze (cfr. anche scl 1). Ora, ovviamente una L2 come il francese è una L2 sociolinguisti-camente forte: l’immigrato in Germania che viene da Antivari, poniamo, di lingua madre albanese e che abbia come L2 anche molto ben conosciuta il serbo/montenegrino si trova in una condizione ben di-versa. Merita qualche parola il parametro lr 4 ‘diglottico’: intanto è da notare che, come altrove nelle tabelle, la dizione indica brachilogicamente sia repertori di partenza tendenzialmente diglottici (macro o microdiglottici) sia dilalici, data la difficoltà di discernere caso per caso quale sia l’effettiva condizione del parlante; ma anche perché, solo ai fini di questa tabella beninteso, la distinzione non pare fonda-mentale. Nel caso in cui per esempio il migrante sia monolingue in una società dilalica potrebbe ideal-mente entrare senza sforzo in lr 1, per quanto riguarda la competenza personale: però viene da un am-biente che conosce, comunque, la differenziazione funzionale fra lingue alte e basse. Questo è il punto che qui ci interessa di più, se mettiamo in correlazione questo parametro con il parallelo ra 2: la com-prensione previa dei meccanismi di alternanza funzionale fra le lingue da parte di un parlante lo aiuta molto a ritrovare regole simili, se queste sono in vigore, nella società di accoglienza, a tutto vantaggio dell’integrazione linguistica. Per continuare il nostro esempio fittizio della milanese colta a Bolzano, hélas non più dialettofona, ella probabilmente non immagina in partenza che là i ‘tedeschi’ non parlino ‘tedesco’, e ciò la mette dall’inizio in una posizione di svantaggio. Nella stessa ottica il parametro distin-gue fra ‘diglossia interna’, ossia contenuta all’interno di uno spazio linguistico relativamente omogeneo,

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come potrebbe essere l’alternanza tra friulano e italiano dove questa sia in vigore, e ‘esterna’, che coin-volge due spazi linguistici diversi – che diventano così entrambi a disposizione del parlante (come l’alternanza fra turco e lingue slave meridionali – il bulgaro, per esempio – in molti contesti di minoran-za, che si rivela importante in casi di trasferimento per esempio in Germania, dove come è noto il turco è lingua assai diffusa presso i migranti). Parallelamente, le condizioni del contatto, come già accennato, possono essere molto diverse a seconda delle regole sociolinguistiche vigenti nella comunità di arrivo (parametri ra): se da un lato co-munità diglottiche o multilingui possono presentare un numero più alto di codici da padroneggiare per l’effettiva integrazione, è però anche vero che tali comunità sono in genere più aperte verso la variazio-ne linguistica in generale. In questi casi, impadronirsi della lingua bassa da parte di un migrante è spesso una strategia di integrazione assai efficace (per un esempio fra i tanti, cfr. Guerini 2006). D’altro canto, le comunità monolingui (senza la capillare presenza di una L2, come può accedere in Svezia o nei Paesi Bassi per l’inglese) sono decisamente meno attrezzate per l’accoglienza di fattori di turbamento dello status quo linguistico. I parametri scl riuniscono una serie di condizioni diverse che influiscono in vario modo sul con-tatto e la commistione linguistica fra migranti e società di accoglienza. Intanto, ovviamente, la distanza tipologica fra le lingue in contatto gioca un ruolo rilevante nei processi di inclusione e di apprendimen-to; e in particolare sembra importante considerare anche la distanza strutturale percepita dai parlanti. Se questa viene ritenuta abbastanza piccola possono infatti emergere strategie di multilinguismo ricettivo, ossia quella modalità di comunicazione multilingue in cui gli interlocutori parlano la loro lingua materna (o una lingua di loro scelta) e sono in grado di capire la lingua dei loro partner, senza l’aiuto di una lingua terza aggiuntiva (ten Thije & Zeevaert 2007; Rehbein & ten Thije & Verschik 2011). La possibilità di mettere in atto tali strategie, di fatto molto utilizzate fra parlanti lingue appartenenti alla stessa famiglia linguistica, mentre da un lato sembra favorire la mobilità, o almeno la meta della mobilità, e facilitare l’inclusione, pare d’altro canto produrre fenomeni di fossilizzazione linguistica che sono contrari a una vera integrazione e tradiscono atteggiamenti non inclusivi da parte del migrante. Si può discutere se tra i parametri di vicinanza o lontananza linguistica va inserito il sistema di scrittura delle diverse lingue. Esistono di fatto contesti in cui una tale variabile può essere determinante: per esempio l’emigrazione coreana verso il Giappone o quella indiana in Cina, o la migrazione verso l’Europa da paesi arabi da parte di persone non alfabetizzate in lingue europee, come può accadere per migranti provenienti dall’Egitto, o dall’Iran, Iraq o dalla Penisola arabica – nel Maghreb o in Siria la si-tuazione può essere diversa. Anche chi viene dalla Cina può non essere abituato alla trascrizione pīnyīn. È vero che la latinizzazione del mondo è in effetti abbastanza avanzata e che l’alfabeto latino tende sempre più ad essere in un certo senso essere considerato una ‘scrittura franca’, a disposizione di (quasi) tutti, ma questa condizione non è generale. Inoltre si dovrebbe riflettere se ortografie particolarmente complesse (come quella del francese per l’alfabeto latino o del russo per il cirillico) non possono a loro modo costituire una barriera importante nel processo di inserimento. Scl 3 e 4 sono centrati sul migrante e rendono ragione del rapporto individuale/collettivo nei confronti della società di accoglienza. I casi in cui si sia del tutto isolati in un territorio di arrivo sono piuttosto rari, e spesso limitati a persone dalla mobilità breve e determinata da fattori lavorativi piutto-sto specialistici; spesso si tende a ricreare comunità di expat, la posizione del parlante all’interno delle quali e i cui rapporti con le comunità stanziali influiscono molto profondamente sull’esperienza lingui-stica della migrazione. Questo si riflette sia nella creazione e nel mantenimento di vere proprie reti so-ciali – che possono o no essere tendenzialmente aperte verso altre comunità – sia nei rapporti anche occasionali che si intrattengono nella vita linguistica quotidiana. Allo stesso modo andrebbero analizzati (in termini di network e di community of practice) i rapporti vigenti nelle società d’arrivo: ma questo è piutto-sto difficile intanto sul piano teorico, perché le società stanziali tendono ad essere sociologicamente molto più complesse rispetto ai gruppi di migranti – sui quali, fra l’altro, si appuntano la maggior parte delle ricerche – e poi anche per la necessità di tenere distinti gli atteggiamenti ufficiali, indotti o imposti dalle norme istituzionali da quelli reali e in certo senso ‘nascosti’ della società civile.

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TABELLA6.Variabilidiapprendimento/acquisizione

MotivazioniIntegrativaversolasocietàdiaccoglienza lv11

Strumentale(e.g.limitataanecessitàlavorativeoscolastiche) lv12

Formazioneallapartenza

Spontanea lv21

Guidata lv22

Formazioneinarrivo

Spontanea

Fine:“capacitàlin-guistichedipuraso-pravvivenza”

Peresplicitavolontà lv3111

Nonperesplicitavolontà lv3112

Fine:“approfondireeampliarelepropriecapacitàlinguistiche” lv312

Guidata

Ascuola(educazioneformale) lv321

Lifelonglearning(educazionenonformale)

Istituzionale lv3221

Privata lv3222

Anche questa tabella è incentrata sulla persona migrante, di cui si analizzano le modalità di apprendi-mento della lingua o delle lingue della società di arrivo e gli atteggiamenti nei confronti di tali lingue. Questo per ragioni essenzialmente pratiche: è vero che nulla impedisce che siano gli appartenenti alla comunità indigena a imparare le lingue delle persone mobili, ma di fatto – nonostante le amministrazio-ni scolastiche più avvertite propongano talora qualche progetto in questo senso – ciò avviene davvero molto raramente. La tabella prende in considerazione tre parametri che paiono rilevanti: il tipo di moti-vazione all’apprendimento, le modalità e la durata dell’apprendimento stesso. È ampiamente noto (al-meno da Gardner & Lambert 1972) che le motivazioni verso l’apprendimento della lingua rappresenta-no un fattore extralinguistico capace di influenzarlo molto profondamente. Motivazioni prevalentemen-te strumentali accordano alla lingua un valore puramente pratico, ancillare al raggiungimento di obiettivi diretti (per esempio l’accesso al mercato del lavoro o all’istruzione superiore), laddove motivazioni in-clusive vedono nella lingua la chiave principale per integrarsi con la comunità e di conseguenza domina-re, almeno idealmente, il repertorio linguistico che la caratterizza. Naturalmente possono esserci gradazioni d’intensità nelle motivazioni: motivazioni più intense sono indice di progetti di vita che hanno maggiore probabilità di essere realizzati in futuro. La vastissi-ma letteratura sul punto mostra abbondantemente come una motivazione integrativa di solito è più for-te e ha un maggiore e più duraturo effetto sull’acquisizione del linguaggio. Come contributo originale vorremmo qui proporre la distinzione fra tre – e non già due profili o ‘gradi’ di orientamento (o moti-vazioni) verso l’inclusione: ci pare infatti che, nei contesti di mobilità almeno, sia interessante distingue-re fra: a) una motivazione verso un’inclusione puramente strumentale, orientata verso il solo successo nel mercato del lavoro; b) una motivazione verso un’inclusione interazionale, rivolta anche al contatto in ge-nerale con la società ospitante; c), una motivazione verso un’inclusione realmente integrativa nei con-fronti della società di accoglienza. Questo proprio in considerazione di elementi di disagio linguistico e di GL, chiaramente differenti a seconda delle volontà, degli scopi e degli interessi percepiti del migrante. Una nota sul parametro lv 311: nel contesto di lv 31, che si riferisce al fine immediato dell’apprendimento linguistico da parte del migrante (a sua volta magari determinato da altre variabili come per esempio la durata prevista del soggiorno) e dunque ha origini in parte motivazionali, è possi-bile che appunto la volontà integrativa del parlante non possa essere rispettata appieno: da qui la varia-bile “Non per esplicita volontà” del parametro “Capacità linguistiche di pura sopravvivenza”, che, pa-rallelamente ad altre, ci ricorda anzitutto come le modalità del contatto e dell’integrazione siano domi-nabili solo in parte, da parte dei migrante come della società di accoglienza; e tuttavia l’aspetto contro-volontario instaura in ogni caso una differenza, in potenza se non in atto, nell’apprendimento linguisti-

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co, che può risultare importante in contesti di lunga permanenza. 5. Esiti Il fatto che i parametri siano presentati in forma di tabella non è indifferente ai fini della loro corretta interpretazione; si tratta in effetti in questo caso di una soluzione di comodo, probabilmente da ritenere provvisoria, che oscura la loro stretta interrelazione e induce ad una lettura sequenziale di fattori che dovrebbero essere presentati simultaneamente. Probabilmente una loro migliore sistematizzazione li vedrebbe in una sorta di diagramma, o mappa concettuale come è d’uso dire oggi, in cui i differenti ma-croparametri rappresentati dalle tabelle viste fin qui si collegano gli uni agli altri per sfociare poi in un esito comune, qualcosa come la Figura 1:

FIGURA1.Relazionifralevariabili

Qui evidentemente le frecce simboleggiano la concomitanza dei vari parametri nella determinazione de-gli esiti; i parametri a loro volta solo collegati in modo da visualizzare le loro reciproche interrelazioni, almeno le più importanti e ‘potenti’. È uno schema però al quale stiamo ancora lavorando; per il mo-mento quindi presenterò gli esiti in modo tradizionale.

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TABELLA7.Esiti

Conseguenzesulrepertoriodipartenza

Mantenimentointegrale out11

Perditadiunaopiùvarietà

Incontestooriginariobilingue out121

Incontestooriginariodi-glottico

Perditadell’acroletto out1221

Perditadimesoletto/i–basiletto/i out1222

Disagiolinguisticosiacolreperto-riodipartenzasiaconquellod’arrivo

Ancheorale out21

Soloscritto out22

Rispettoalre-pertoriodellacomunitàdiac-coglienza

Bilinguismoacquisito out31

BuonacompetenzadiL2 out32

Acquisizioneincompleta

Acausadifattoriesterni(pernecessità) out331

Perinsuffi-cientevaluta-zionedellanecessitàdiacquisizione

Competenzapassivasufficiente out3321

Intercomprensibilitàfralelingue out3322

Pernonvolontàdiintegrazione out333

Il punto principale è che, come è evidente, qualunque processo corretto di integrazione deve o dovreb-be essere concepito come additivo, e non come sostitutivo, e questo per motivi pratici, di migliore riu-scita, prima ancora che ideologici. Nel caso delle lingue ciò significa chiaramente che il mantenimento del repertorio di partenza è importante non solo per ragioni ideologiche e identitarie, ma perché costi-tuisce la base sulla quale si costruiscono le competenze nelle lingue e nelle situazioni sociolinguistiche d’arrivo. Tutti noi abbiamo presente il disastro linguistico e comunicativo apportato dal solerte e volen-teroso insegnante che cerca di convincere il genitore alloglotto a parlare con i figli la lingua ufficiale del-la scuola, da lui/lei posseduta solo molto imperfettamente e le situazioni di effettivo semilinguismo cui questi disastri portano – anzi, probabilmente la sociolinguistica educativa nasce da queste considerazio-ni, se teniamo presente l’opera pionieristica di Basil Bernstein (1971). Abbiamo così out 1/2 riferito al repertorio già posseduto dalla persona mobile prima dello spostamento, e out 3 dedicato alla costruzio-ne del nuovo repertorio del parlante. La valutazione in termini di GL degli esiti è evidente: alcuni esiti, come out 21, devono essere evitati, ed è compito primariamente delle istituzioni il predisporre misure perché questo accada, se e quando possibile intervenendo per modificare gli atteggiamenti della società civile (così come è compito del ricercatore suggerire azioni e soluzioni alle istituzioni). Allo stesso modo, idealmente l’unico esito davvero auspicabile è out 31, l’acquisito bilinguismo (o meglio, l’acquisita capacità di interazione con il repertorio linguistico nel suo complesso della comunità di accoglienza); ma è evidente che una tale con-dizione è largamente teorica e che il perseguirla incondizionatamente al di là della concreta verosimi-glianza è un errore che può precludere risultati intermedi, comunque auspicabili. Commiato. Mi sono spesso divertito a pensare quale potrebbe essere la posizione di Maria Grossmann in queste tabelle: il suo straordinario percorso linguistico e umano si propone come spunto di studio del più alto interesse (e quante volte, vicini di scrivania all’Università dell’Aquila, l’ho sentita dire agli studenti a ricevimento per le tesi: “beh, se volete studiare me, siete i benvenuti”!). Non lo fa-remo però qui: e al di là della certezza, nel suo caso, della casella out 31, aspetto i suoi suggerimenti.

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Rigraziamenti e riconoscimenti Sono grato ai revisori anonimi per i loro puntuali e pertinenti suggerimenti. Chiaramente gli errori, le impre-cisioni e le argomentazioni discutibili qui rimaste si devono a me solo, ossia alla mia ignoranza e cocciutaggine. The research leading to the present paper has received funding from the European Community’s Seventh Framework Programme un-der grant agreement No. 613344, Project MIME. The content and opinions expressed in this article are those of the author and do not necessarily reflect the opinions of the institutions supporting them. Riferimenti bibliografici Alcalde, Javier. 2015. Linguistic justice: an interdisciplinary overview of the literature. A’dam Multiling 3. 27-96. Bastardas i Boada, Albert. 2010. Language and identity policies in the ‘glocal’ age: New processes, effect, and principles of organ-

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Les yeux bruns (en français et en roumain)

Maria Iliescu

Abstract Considering the perspective of contrastive linguistics, I have shown some differences between Romanian and French with respect to the adjectival determination used to lexicalize the notion ‘dark coloured eyes’. I have dealt mostly with the Romanian adjectives brun and maro(n) and with their French correspondents brun and marro(n). KEYWORDS: colours (of the eyes) • Fr. brun, noir • Rum. brun, negru • differences and resemblances between languages • etymologies

1. Introduction Ayant à ma disposition l’excellent livre sur les couleurs de Maria Grossmann (1988) j’avais l’intention de faire une comparaison entre les termes de couleurs en français et en roumain. Hélas, à cause de différents motifs, dont le dernier est le manque de temps, j’ai dû me limiter et c’est ainsi que ma contribution consiste en quelques remarques sur les adjectifs de couleurs qui déterminent le substantif fr. oeil/yeux et roum. ochi1, exprimant largo sensu la signification de l’all. braun et de l’anglais brown. 2. Les yeux bruns 2.1 Le français En français brun est un des adjectifs de couleur indiqués dans TLFi (s.v. oeil/yeux B. SYNT.) comme déterminant du nom œil: «…couleur, nuances, teinte des yeux; yeux bleu d'azur, de braise, bruns, clairs, foncés, glauques, gris, de jais, jaunes, marrons, noisette, pers, rouges, rougis, vairons…». Brun est d’origine germanique: *brūn ‘brun’ (cf. all. braun et angl. brown), comme blanc, bleu et gris. Le mot a été emprunté probablement avant le IVe s. et a été latinisé en brunus. Il est possible qu’il ait été introduit par les mercenaires germaniques qui l’ont employé pour qualifier des chevaux (TLFi s.v.). On le trouve dans cette forme dans les Gloses de Reichenau (VIIIe s.) où il explique furvus2 ‘sombre, noir’, adjectif archaïque, conservé presque uniquement en poésie (Ernout & Meillet 1959 s.v.). Cette description est suffisante pour expliquer pourquoi furvus a dû être remplacé: sa fréquence était fort réduite, il n’appartenait pas à la langue orale, et son sens n’était pas bien défini, mais plutôt vague3, toutes caractéristiques des mots inadéquats pour leur maintien dans une nouvelles phase de développement D’après le TLFi brun se trouve dans Roland (ca 1100) avec le sens ‘poli, luisant’ désignant “une couleur sombre, entre le roux et le noir”. Dans le Grand Robert le sens de brun est décrit d’une façon très semblable: “d’une couleur sombre entre le roux et le noir”. Pourtant ni le TLFi, ni le GR dans les articles consacrés à l’adjectif brun, ne donnent d’exemples de cet adjectif comme déterminant du substantif oeil /yeux. Ceci explique aussi le nombre relativement réduit (15 de 881) d’exemples du syntagme yeux bruns dans le TLFi, statistique obtenue à l’aide de la

1Encore une restriction: je ne m’occupe ici que des couleurs de l’iris. 2Cf. aussi fuscus, le synonyme de furvus, avec le même sens ‘noir, sombre’ indiqué par Ernout & Meillet (1959), mot qui, à la différence de furvus, a été hérité de quelques langues romanes (REW 3611). V. aussi Popescu (2014: 268). 3Cf. Iliescu (2006: 379), où j’ai exprimé l’opinion que le caractère concret est une des qualités essentielles d’un lexème pour remplacer un autre. Le TLL précise que furvus est de “varium rerum vel animalium colore” et que fuscus n’est “neque album, neque nigrum sed mediis est coloris”.

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commande ‘recherche complexe’ appliquée au mot brun, qui indique un total de 881 exemples. La plupart de ces quinze exemples font partie des textes de la deuxième moitié du XIXe s. et de la première moitié du XXe s. (1) Elle avait dix-huit ans, des yeux bruns veloutés (Rollant, R. 1908, TLFi, s.v. agacinant) En échange brun détermine souvent les lexèmes cheveu et chevelure et se trouve fréquemment substantivé en parlant de personnes dont les cheveux sont bruns: un/le brun, une / la brune. (2) Un grand brun, une petite brune, une belle brune. Sous le point B. a. de l’article discuté du TLFi se trouve l’indication sg. et pl. un brun, des bruns, suivi de la définition “une variété de couleur brune, des couleurs brunes”. Il s’agit donc d’un sémème qui désigne plusieurs types de brun. Dans l’article même est cité un exemple de G. Roy (1945) qui contient le syntagme cheveux brun clair: (3) Une masse de cheveux brun clair (TLFi, Roy, G. 1945, s.v. brun). Les textes trouvés à l’aide de la commande ‘recherche complexe’ offrent plusieurs autres indications pour certains types de brun, comme par ex.: brun foncé, brun-doré, brun-jaunâtre, brun-rouge, etc. Pour la langue parlée, il me semble intéressant que dans le web (http://www.francaisfacile.com/forum/[12-06-2007]) on répond comme suit à la question “s’il y a une différence entre brun et marron” (postée le 11-06-2007) ce qui montre l’incertitude de certains locuteurs francophones pour l’emploi des deux mots:

- Les cheveux bruns tirent sur le noir, mais ils ne sont pas aussi ‘noirs’ que les cheveux noirs. - On n’emploie pas ‘marron’ pour les cheveux. - Les yeux marron [...] les yeux bruns. On emploie parfois l’un pour l’autre. - On peut dire: j’ai les yeux et les cheveux bruns.

Voir aussi le site http://forum.wordreference.com/yeux-bruns-yeux-marron.673883 où on trouve la suivante réponse à la question: “des yeux marron, des yeux noisette sont tous corrects, mais désignent des nuances de brun différentes...”. Sous l’influence du signifiant anglais brown on trouve souvent brun dans les traductions françaises de l’anglais. Il semble donc que dans les syntagmes yeux marron, yeux noisette et yeux châtains, les adjectifs marron4, noisette5 et châtain, sont considérés des sous-sens de l’archisémème brun. Il s’agit de créations lexicales métaphoriques: par analogie avec la forme ronde du globe oculaire et la forme des fruits correspondants (le marron, la noisette et la châtaigne) et par analogie avec la couleur de ces fruits: brun-foncé du marron et de la châtaigne ou brun-clair de la noisette. Dans le TLFi se trouvent seulement deux exemples pour yeux marron parmi de 176 exemples pour le mot marron. Un premier exemple se trouve dans l’énumération des couleurs des yeux du mot œil (TLFi s.v.): «yeux bleu d’azur, de braise, bruns,…marrons, noisette, etc.». Le deuxième exemple se trouve sous le mot marron du TLFi: (4) deux yeux marron clair, gais et honnêtes comme ceux d'un chien (Green 1928-34). Le syntagme yeux noisette se trouve dans un seul des 83 exemples offerts par la ‘recherche complexe’ pour noisette: 4Marron, fruit du marronnier (attesté depuis 1526) > couleur marron, d’un ton brun-roux, citation de Green, Journal, 1928 «deux yeux marron clair» (cf. TLFi). 5Noisette, le fruit du noisetier (attesté depuis 1694). En fonction adjectivale noisette est défini ainsi: “couleur de noisette (brun-roussâtre)” (cf. TLFi, s.v. noisette Montherlan (Songe, 1922, 156) et GR).

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(5) Bellerey avait tiré de sa poche un chiffon de papier (...) avec un air fiérot dans ses yeux

noisettes, malicieux (Montherl., 1922, p. 56, s.v. noisette). Une autre création lexicale qui tient aux couleurs est le mot châtain < châtaigne < châtaigner (attesté en 1180 ; cf. TLFi et GR). Bien que dans la définition du mot dans le TLFi le syntagme yeux châtains figure comme exemple6, aucun des 50 exemples découverts à l’aide de la ‘recherche complèxe’ ne contient ce syntagme. Châtain est surtout une couleur propre à la chevelure. 2.2 Conclusions pour le français L’histoire de la notion lexicalisée en allemand par braun et en anglais par brown peut être résumée comme suit. Le latin furvus a été éliminé déjà à l’époque du latin tardif, le lat. fuscus n’a pas été hérité par le français (cf. supra 1). L’emprunt du germ. brun >brunus a le sens générique vague ‘couleur entre le noir et le rouge’. Le syntagme yeux bruns se trouve rarement dans le corpus du TLFi son sens n’étant pas assez clair, disons univoque. Pour remplir ce ‘vide lexical’ le français a eu recours à des innovations liées par analogie soit à la couleur soit à la forme des yeux de couleur brune. Un assez grand nombre d’innovations sont réalisées à l’aide de compositions telles que brun-foncé, brun-clair, etc. Le suffixe -âtre a seulement le rôle d’exprimer ‘le penchant pour une couleur’ mais n’aide pas à former de nouveaux adjectifs de couleur. 2.3 Le roumain Les sources de mes investigations pour le roumain sont bien réduites en comparaison avec celles françaises, étant donné que le roumain ne dispose pas d’un dictionnaire semblable au TLFi. Je me suis basée, pour la partie dite statistique, sur un petit corpus électronique constitué de textes fictionnels de différents auteurs en commençant avec le XVIe s. jusqu’aujourd’hui. J’ai parcouru une grande partie de l’anthologie LiterNet de 2002. Les exemples qui proviennent d’autres auteurs portent l’indication de leur source. Tout comme les autres lexèmes d’origine germanique désignant en français les mots des couleurs blanc, bleu et gris, absents du latin danubien qui s’était distancé du latin tardif occidental, le germ. *brūn, latinisé brunus, n’a pas survécu dans le latin tardif oriental. L’adjectif roum. brun est un néologisme d’origine française, attesté chez C. Negruzzi (dans les années 1870 cf. MDA s.v.). Il se réfère surtout au teint des personnes, étant un synonyme de oacheş (cf. DLR et DEX s.v.). Dans mes investigations je n’ai pas trouvé d’exemples avec le syntagme ochi bruni ‘yeux bruns’. En échange ochi negri ‘yeux noirs’ est assez fréquent. La différence entre noir et brun foncé dépend de la perception individuelle. L’adjectif maro(n) ‘marron’ a en roumain la même origine néologique que brun. Le mot est attesté dans le dictionnaire d’Alexi (commencement du XXe s.). Quant à l’adjectif dérivé maroniu ‘de nuance marronâtre’ (cf. DEX s.v.), il est absent de mon corpus. L‘adjectif şaten ‘châtain’ est lui aussi un néologisme français du XXe s. et comme celui-ci, il détermine surtout des mots relatifs à la chevelure. Comme son signifiant a perdu la liaison étymologique avec la châtaigne, la langue n’a pas dérivé un adjectif en -iu de şaten. Le roumain a créé indépendamment castaniu ‘couleur de la châtaigne’ (1829) < castană ‘châtaigne’+ -iu, un mot parallèle au français châtain, dont l’origine analogique est, comme en français, la couleur et la forme de la châtaigne, en roum. castană. Il s’agit soit d’un dérivé régressif de castan ‘châtaigner’, d’origine slave (kastanu) ou bien d’origine grecque (kastanon), soit d’un emprunt direct du

6«Adj. [En parlant d'une partie du corps hum.] Qui est couleur de châtaigne, brun moyen. Cheveux, sourcils, yeux châtains».

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vieux slave ou du grec (cf. DELR II, s.v. castan). Le syntagme ochi castanii ‘yeux châtaigne’ est présent une fois, dans un exemple de Sadoveanu. (6) Machedon se uită cu ochii lui castanii. (Mihail Sadoveanu, Țara de dincolo de negură, 1924, p. 55)

‘Machedon regarde, avec ses yeux châtaigne’. Le syntagme roumain le plus fréquent qui correspond aux yeux bruns est ochi căprui. Dans le petit corpus que j’ai eu à ma disposition j’ai trouvé cinq exemples, ce qui doit être considéré, dans la situation donnée, comme un nombre relativement élevé. (7) Închise ochii căprui cu pupilele veşnic dilatate (Aureliu Busuioc, Singur în faţa dragostei, 1966, p. 24)

‘Il ferma ses yeux bruns, à pupilles toujours dilatées’. (8) Fiinţa-i măruntă … cu ochii căprii … avea parcă ceva înrudit cu cînele (Mihail Sadoveanu, Țara de

dincolo de negură, 1924, p. 45) ‘Son corps menu ... aux yeux bruns ... ressemblait à un chien’.

Căprui ‘marron’ et sa variante căpriu sont des dérivés de căprioară ‘biche’ attesté déjà en 13377 ou de căprior ‘chevreuil’ < lat. capreolus, attesté en 1576. Bien que dans les dictionnaires căprui est attesté au XIXe s. il est à supposer qu’il a dû circuler longtemps avant cette date.

Un autre terme roumain, qui est dû à une ressemblance de couleur, est l’adjectif cafeniu ‘couleur du café’ < cafea (avec -iu d’après castaniu, gălbeniu; cf. DELR II s.v. cafea attesté au XXe s.).

(9) Părul negru, lung...îi cădea mereu pe fruntea lată, învolburată, subt care luceau ochii cafenii...

(Liviu Rebreanu, Jar, p. 22) ‘Les cheveux noirs, longs ... tombaient sans cesse sous le front large, tourbillonnant, sous lequel brillaient des yeux couleur du café’.

2.4 Conclusions pour le roumain Le latin furvus a été éliminé du vocabulaire latin et le lat. fuscus n’a pas été hérité par le roumain. Le germanique brūn, comme les autres termes de couleurs de la même origine (blanc, bleu et gris), n’est pas entré en roumain. A cause du manque de sources écrites jusqu’au XVe-XVIe s. il n’est pas possible de trouver le lexème qui a été employé parallèlement avec le français brun, ou bien au moins si un tel lexème a existé en roumain. Le syntagme ochi bruni ‘yeux bruns’ n’est pas attesté dans mon corpus. Le seul syntagme autochtone qui corresponde à yeux bruns est ochi căprui, dont le nombre d’exemples est relativement assez élevé. Comme en français, la langue a trouvé la possibilité d’exprimer une notion non lexicalisée ou bien par des emprunts, ou bien par des créations analogiques, en roumain surtout à l’aide de suffixes adjectivaux (-ui et -iu). Les emprunts néologiques sont surtout d’origine française. Il est possible que castan ‘châtaigner’ ait été un emprunt direct ou indirect du slave (qui à son tour provenait du grec). Les innovations roumaines se manifestent surtout par des dérivés adjectivaux comme maroniu < maron ‘couleur marron’ et castaniu < castan/castană ‘châtaigner/ châtaigne’, mais les innovations par des compositions comme par exemple negru tăciune ‘noir tison, charbon’ ne manquent pas. 3. Conclusion générale J’espère que mon essai de comparaison a prouvé encore une fois que le manque d’un caractère concret et donc d’un contenu précis de la signification peut être un obstacle sérieux pour la survie et l’évolution

7Les étymologies latines capra ou*caprineus ne me semblent pas convaincantes. La chèvre n’est pas brune mais blanche! Dans un des textes français j’ai trouvé pour ‘brun clair’ aussi l’expression ‘couleur de biche’.

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d’un lexème dans une langue donnée. C’est une confirmation de plus d’une conclusion déjà exprimée dans d’autres recherches (cf. e.g la note 3). Cette modeste investigation a montré aussi la justesse de la conception du grand lexicologue du siècle passé Mario Wandruszka, qui a donné à son livre le titre: Sprachen vergleichbar und unvergleichlich (1969): les langues peuvent être comparées mais ne sont pas comparables. Elles se développent d’après certaines règles plus ou moins générales – par exemple l’extension de la formation des mots par composition en français en comparaison avec la dérivation suffixale si riche en roumain - mais les langues ne sont pas comparables, car leur développement interne et externe est, dans la majorité des cas, différent. Bibliographie Ernout, Alfred & Meillet, Antoine. 1959. Dictionnaire étymologique de la langue latine. Histoire des mots. Paris:

Klincksieck. Geckeler, Horst. 1971. Lexikalische Strukturen im Vergleich. In Bausch, Karl-Richard & Gauger, Hans Martin (eds.).

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Iliescu, Maria. 2015. Une caractéristique du roumain dans le champs lexical de la température. In Florescu, Cristina (ed.). Terminologia meteorologică românească a fenomenelor atmosferice. 273-280. Iaşi: Ed. Universităţii „Alexandru Ioan Cuza”.

Kleiber, Georges. 1987. Quelques réflexions sur le vague dans les langues naturelles. In Études de linguistique générale et de linguistique latine, offerts en Hommage à Guy Serbat. 157-172. Paris: Société pour l’Information Grammaticale.

Lupu, Mihaela. 2003. Concepts vagues et catégorisation. Cahiers de Linguistique Française 25: 291-304. Moscal, Dinu. 2013. Teoria câmpurilor semantice. Iași: Ed. Universității ‘Alexandru Ioan Cuza’. Popescu, Mihaela. 2014. Culori şi nume de culori în latină şi în limbile romanice. Privire sintetică. In Bădescu,

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Scurtu, Gabriela. 2014. Tradition et innovation dans le cas de l’héritage lexical latin en français et en roumain. In Bădescu, Ilona & Popescu, Mihaela (eds.). Studia linguistica et philologica in Honorem Prof. Univ. Dr. Michaela Livescu, 281-292. Craiova: Editura Universitaria.

Wandruszka, Mario. 1969. Sprachen vergleichbar und unvergleichlich. München: Piper. DLR = Academia Română. Dicţionarul limbii române (Serie Nouă), ediţie anastatică după Dicţionarul limbii române

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Partea 1. 2015. Bucureşti: Editura Academiei Române. DEX = Dicţionarul explicativ al limbii române. 21998. Bucureşti: Editura Univers Enciclopedic. GR = Le grand Robert de la langue française. 1985. 9 vol. Paris: Le Robert. MDA= Micul Dicționar Academic. 2010. 2 vol. București: Editura Univers Enciclopedic Gold. TLFi =Trésor de la langue française, version informatisée http://atilf.atilf.fr/tlf. htm. TLL = Thesaurus linguae latinae. 1900-. München: Bayrische Akademie der Wissenschaften. TM =Tiktin, Hariton & Miron, Paul. Rumänisch-deutsches Wörterbuch. Miron, Paul / Lüder, Elsa (eds.). 1985-1989.

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LiterNet-2002

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Busuioc, Aureliu, Singur în faţa dragostei, 1966, http://www.cartier.md/upload/File/1_24.pdf Rebreanu, Liviu, Jar, 1924, https://ro.wikisource.org/wiki/Jar/2 Sadoveanu, Mihail, Țara de dincolo de negură, 1924, http://colegiulasachi.uv.ro/scolara/

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A note on repetition in Spanish: volver a + VInf, re-prefixation, and adverbs of repetition

Brenda Laca

Abstract In this paper, we describe the semantics of a Spanish verbal periphrasis which triggers a presupposition of repetition, and we contrast it with adverbs of repetition, and with prefixation. The main difficulty in the semantic analysis of such presupposition triggers is that of formulating their minimal presupposition. In the case of the periphrasis, Ramchand's first-phase syntax templates are shown to be better predictors of this minimal presupposition than analyses relying on less fine-grained structures for the VP. KEYWORDS: presupposition • repetitive and restitutive readings • states • events • VP-structure In the monograph she devoted to directional verb prefixation in Catalan, Grossmann (1994: 20-21) makes reference to the contrast between re-prefixation and the periphrasis tornar a + VInf, which she glosses as “VInf again”. She observes that re-verbs denote the new occurrence of an event which restitutes a previously obtaining state. By contrast, mere event repetition – particularly with atelic predicates – is generally expressed by means of the periphrasis, which is moreover preferred in the spoken language. In the meantime, the contrast between restitution of a state and repetition of an event alluded to in Grossmann’s characterization has received a lot of attention from semanticists, who have concentrated on the ambiguities exhibited by sentences containing adverbs of repetition such as English again and German wieder. These ambiguities pose crucial questions as to the identity conditions on event-types (what counts as “the same type of event”?) and as to the ways lexical semantics and syntax contribute to these identity conditions. Furthermore, since all these expressions of repetition are presupposition triggers (they do not simply entail, but rather presuppose, the previous existence of a state or an event of the same type), they pose no less crucial questions as to the ways presuppositions are computed from a semantic configuration in order to be satisfied in context or accommodated. In this contribution, I will provide a semantic description of Span. volver a + VInf, which quite closely corresponds to Cat. tornar a + VInf, and I will then briefly contrast it with re-verbs and with the adverbs de nuevo/otra vez 'again'. 1. Volver a + VInf as an eventuality-modification periphrasis

In previous work on Romance ‘aspectual’ periphrases (Laca 2004), I have developed an analysis according to which these expressions distribute over at least two levels of structure, a more internal level at which eventuality modification operators are expressed, and a more external level expressing time-relational aspect. The former are aspectual shifters that change or specify the temporal structure of the eventuality description they apply to. Their output is a predicate of eventualities (type <e,t>). The latter, much less numerous, relate a distinguished interval (the reference or topic time) to the temporal trace of the eventuality. Their output is a predicate of times (type <i,t>). Example (1) illustrates the combination of acabar de + VInf with the time-relational meaning of a ‘recent past’ and an eventuality modification periphrasis, terminar de + VInf. The minimal structure I assume for this combination is sketched in (2).1

1 Abbreviations are as in the Leipzig Glossing Rules, but for SP = simple past, and IMPF = imperfect.

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(1) Juan acaba de terminar de escribir su tesis. Juan finish.PRS.3SG of finish.INF of write.INF his thesis ‘Juan has just finished writing his thesis’. (2) [Tense PRS [Asp TR acaba [Asp EM de terminar [v/VP (Juan) de escribir su tesis] eventuality description |-------------derived eventuality description-----------------| |--------------------------property of times-------------------------------------| The two layers can be distinguished on the basis of a correlation between four properties, namely linear position, possibilities of co-occurrence, the existence of selectional restrictions or their absence, and tense restrictions. Eventuality modification periphrases never precede time-relational periphrases, they can combine with each other, they exhibit selectional restrictions as to the temporal structure of the eventualities they combine with, and they lack any tense restrictions. As for volver a + VInf (lit. ‘return, go back to V’), it qualifies as an eventuality modification periphrasis on the grounds of linear position wrt. time-relational periphrases and lack of tense restrictions. As shown in (3a-b), it can follow, but not precede the time-relational periphrasis ir a + VInf (roughly ‘be going to V’, an expression of prospective aspect/future tense). As shown in (4a-b), it can combine with the simple perfective past, a combination that is not possible for time-relational periphrases2.

(3) a. Juan va a volver a escribir un libro Juan go.PRS.3SG to return.INF to write.INF a book ‘Juan is going to write a book again’. b. *Juan vuelve a ir a escribir un libro Juan return.PRS.3SG to go.INF to write.INF a book *‘Juan goes to write a book again’ (4) a. Volvió a llover return.SP.3SG to rain.INF ‘It rained again’ b. *Fue a llover go.SP.3SG to rain.INF *‘It went to rain’ However, by contrast with other eventuality modification periphrases, volver a + VInf can combine with any type of temporal structure. (3a) and (4a) illustrate its compatibility with accomplishments and activities, (5a) and (5b) its compatibility with states and achievements, respectively: (5) a. No volvió a poder escribir not return.SP.3SG to be_able_to write ‘S/he wasn’t able to write again’ b. Había vuelto a cerrar la puerta have.IMPF.3SG return.PP to close.INF the door ‘S/he had closed the door again’ The main property of eventuality modification periphrases is that they have a specific temporal structure as output. In the case of volver a + VInf , the resulting temporal structure is clearly non-stative.

2 This behavior is predicted by the hypothesis that the output of eventuality modification periphrases is a type <eɛ,t> and that time relational aspect is of type <<eɛ,t> , <i,t>>.

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Firstly, in the antecedent of conditionals, states give rise to simultaneous interpretations, and to so called epistemic conditionals3, whereas events (particularly if they are telic) give rise to forward-shifting interpretations. Volver a + VInf patterns in this respect with events: (6) a. Si María está enferma, perderá su trabajo if Maria be.PRS.3SG ill lose.FUT.3SG her job ‘If Maria is ill, she will lose her job’ [SIMUL >SETTLED>EPISTEMIC] b. Si María cae enferma if Maria fall.PRS.3SG ill ‘If Maria falls ill…’ [FWD-SHIFTED> NOT-YET-SETTLED] c. Si María vuelve a estar enferma if Maria return.PRS.3SG to be ill ‘If Maria falls ill again…’ [FWD-SHIFTED> NOT-YET-SETTLED] Secondly, volver a + VInf is awkward in contexts requiring stative predicates, such as the infinitival complements of belief verbs in the present tense: (7) a. María cree estar enferma Maria believe.PRS.3SG be.INF ill ‘Maria believes to be ill’ b. *María cree caer enferma Maria believe.PRS.3SG fall.INF ill * ‘Maria believes to fall ill’ c. *María cree volver a estar enferma Maria believe.PRS.3SG return.INF to be ill

*‘Maria believes to fall ill again’

Finally, volver a + VInf is acceptable in contexts that normally exclude states, as for instance the incremental periphrasis ir + VGer : (8) a. *La respiración va siendo normal the breathing go.PRS.3SG be.GER normal *‘His/her breathing is gradually being normal’ b. La respiración va volviendo a ser normal the breathing go.PRS.3SG return.GER to be normal ‘His/her breathing is gradually going back to normal’ Although the combination with states (including habituals) shows that volver a + VInf patterns with eventive predicates, its combination with eventive predicates fails to alter their temporal structure in any obvious way. Thus, volver a llover ‘to rain again’ behaves, like llover, as an activity, whereas volver a escribir un libro ‘to write a book again’ behaves, like escribir un libro, as an accomplishment. This transparency of volver a + VInf wrt. the temporal structure of the eventuality descriptions it modifies could account for a curious linearisation phenomenon: in combinations with the incremental periphrasis ir + VGer the relative ordering of both periphrases does not seem to give rise to any semantic differences (unless the basic eventuality description is a state, as in (8a) above). Although the first linearisation (9a) is much more frequent, the second linearisation is also attested (9b): (9) a. Concordia, muy castigada por la inundación de diciembre Concordia very punish.PP by the flood of December

3 A quick test for identifying epistemic conditionals is that their antecedent can be easily paraphrased as ‘If it is (now) true that...’, which shows that the truth or falsity of the antecedent is seen as decided (settled) at the time of evaluation.

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poco a poco va volviendo a recuperar su little to little go.PRS.3SG return.GER to recover.INF its fisonomía aspect ‘Concordia, very much affected by December’s flood, is recovering little by little its original aspect again.’ (CREA 5/2/2017) b. A mediados del siglo XVII y muy lentamente, to middle.MASC.PL of _the century XVII and very slowly el gato vuelve a ir recuperando su lugar de privilegio the cat return.PRS.3SG to go.INF recover.GER its place of privilege ‘By the middle of the 17th Century, and very slowly, the cat starts regaining its privileged position again.’ (CREA 5/2/2017) This is to be expected if volver a + VInf simply inherits the temporal structure of the eventive predicate it combines with, whereas ir + VGer specifies a particular (incremental) temporal structure. In fact, the main semantic contribution of volver a + VInf lies elsewhere, namely in the temporal presupposition it triggers. 2. The presupposition(s) of volver a + VInf 2.1 A first approximation As evidenced by the translations of the previous examples, volver a + VInf contributes a temporal presupposition to the effect that another instance of the eventuality has obtained before. This presupposition is responsible for the only selectional restriction it exhibits: the periphrasis cannot combine with predicates denoting types of situations that cannot occur more than once under identity of their arguments, namely once-only events as in (10a) and individual-level states as in (10b): (10) a. #Blancanieves volvió a comer la manzana Snowwhite return.SP.3SG to eat.INF the apple #‘Snowwhite ate the apple again’ b. #Pedro volvió a ser alto Pedro return.SP.3SG to be.INF tall #‘Pedro became tall again’ Volver a + VInf describes an eventuality of the type described by its complement VP, and it presupposes the existence of an eventuality of the same type at a previous time. Furthermore, as evidenced by its contrast with seguir + VGer , it presupposes that the entailed and the presupposed eventuality are not proper parts of a 'larger' eventuality of the same type. Thus, (11a) requires the existence of at least two reading events, whereas (11b) only talks about one reading event: (11) a. Juan volvió a leer el artículo Juan return.SP.3SG to read.INF the paper ‘Juan read the paper again’ b. Juan siguió leyendo el artículo Juan follow.SP.3SG read.GER the paper ‘Juan went on/resumed reading the paper’ The only possible interpretation of (11b) is that the entailed and the presupposed eventuality are proper parts of a single reading event (a CONTINUATIVE reading in the classification proposed by Tovena &

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Donazzan 2008). By contrast, the most salient interpretation of (11a) is that the event whose existence at Topic Time is asserted is preceded by another distinct, complete reading event (a REPETITIVE reading according to Tovena & Donazzan 2008)4. In a first approximation, volver a + VInf can be given the semantics in (12), which is inspired by the one proposed by von Stechow (2007) for Germ. wieder ‘again’5:

(12) [[volver a + VInf]] = lRet le : $ e'[t(e') < t(e) Ù P (e') Ù P (e)]

where Ret is a predicate of eventualities, t(e) is the temporal trace of an eventuality (the unique time interval at which the eventuality occurs), and the underlined formula is a presupposition. In words: volver a + VInf applies to a predicate of eventualities P and returns a predicate of eventualities which is true of an event e iff e is a P-event, under the presupposition that there is another previously occurring event e’ which is also a P-event. One of the virtues of definition (12) is that it makes very perspicuous the crucial problem in the analysis of markers with such a semantics, namely that of determining Ret, the property that must be shared by the described and the presupposed eventuality. In compositional treatments, such as those developed by von Stechow (2001, 2007) and Bale (2006), it is required that the scope of the marker be determined by its sister constituent, which should thus deliver the content of the presupposition. We assume that the sister constituent of volver a + VInf is the VP, since eventuality modification periphrases are VP-operators, as suggested by the schematic representation in (2) above. However, the presupposition of a sentence containing volver a + VInf may be – and often is – contextually satisfied by sentences entailing the existence of eventualities which are only partially of the same type as the eventuality described in the host sentence. Thus, for instance, (13) describes a meeting event whose Agent is Juan, whose Theme is María and which takes place at the University, but its presupposition can be satisfied by context C, which entails the existence of at least a meeting event with the same Agent and the same Theme, but a different location: (13) Cuando Juan volvió a encontrar a María en la Universidad, when Juan return.SP.3SG to meet.INF to Maria in the University, no la reconoció not her recognize.SP.3SG ‘When Juan met Maria again at University, he didn't recognize her’ C: Juan y María se habían conocido de niños en la escuela ‘Juan and Maria had met when they were schoolchildren’ This can be taken as an indication that the periphrasis need not have adjuncts in its scope, so that Ret is the property of eventualities defined by the verb and its arguments. However, as is the case for its adverbial counterparts, sentences containing volver a + VInf exhibit a wide range of scope-like ambiguities which make the task of determining Ret quite formidable.

4 A reviewer points out that a resume-like reading (taking up the action again after an interruption) is possible, and perhaps more salient, for the Italian translation of (11a), namely tornò a leggere l'articolo, and suggests that this may be due to the less grammaticized nature of the semi-auxiliary in Italian, which still carries overtones of its lexical meaning 'come back to'. This meaning would only license the resume-like reading. I fully agree with this suggestion, which seems to be further substantiated by the preference for states shown by the Italian periphrasis (states, but not events, are easily conceived of as locations). As for Spanish, the resume-like reading is at best marginal. 5 Von Stechow's original formulation relies on interval, not on event semantics, and thus formulates entailment and presupposition in terms of properties of times. Interval semantics won't do for volver a + VInf in our framework , because its output is an eventuality description (type <e,t>). For the sake of simplicity, we have not tried to capture the condition on distinct, disjunct eventualities in the definition above. This can be rather simply done by stipulating that e' and e, the presupposed and the entailed eventuality, are not subevents of a single super-event.

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The most widely discussed ambiguity is the one between repetition of an event and restitution of a state alluded to in the introduction, but there exist further ambiguities concerning peripheral arguments and non-referential arguments. In what follows, we will briefly discuss them in turn. 2.2 The ambiguities of sentences containing volver a + VInf

The repetitive – restitutive ambiguity arises with verbs denoting a change of state (achievements, accomplishments). In the repetitive reading, Ret is the change of state itself, whereas in the restitutive reading, it is the result state. Thus, the presupposition of (14) can be satisfied both by a context like (14-C1) or by a context like (14-C2):

(14) A las 5 volvió a salir de la farmacia at the 5 return.SP.3SG. to go_out.INF of the chemist's ‘At 5 o’clock he went out of the chemist's again’ C1. Juan salió a las 3 de la farmacia ‘Juan went out of the chemist's at 3 o’clock’ C2. Juan entró a las 3 en la farmacia ‘Juan went into the chemist's at 3 o’clock’

As is well known, the existence of the restitutive reading is one of the main original motivations for lexical decomposition approaches which attribute to change of state verbs a structure in which a nuclear state predicate is the argument of the BECOME-operator, an operator entailing that the state holds at an interval t and that it did not hold at the immediately preceding interval (cf. Dowty 1979, and also Beck & Snyder 2001; for a diverging view of this ambiguity cf. Fabricius Hansen 2001, Kamp & Rossdeutscher 1994, Kamp 2001). Under lexical decomposition analyses, the repetitive-restitutive ambiguity arises because the presupposition trigger may attach either above the level of the BECOME-operator or at the lower level of the state predicate. (15) schematically represents the analysis of this ambiguity proposed by von Stechow (2001, 2007):

(15) VP repetitive VP again BECOME restitutive VP again outside the chemist's (John)

In the restitutive reading, Ret is the state predicate, whereas in the repetitive reading, Ret is the composite predicate BECOME [STATE]. Notice that both the restitutive and the repetitive reading entail the occurrence of a counterdirectional change of state (such as expressed by lexical reversives of the type go in/go out, tie/untie) between the entailed change of state and the presupposed state or change of state. A second type of ambiguity arises with sentences whose arguments are not rigid designators. Indefinites and quantifiers, but also 'functional' definites (cf. Kamp 2001) may have the same or different discourse referents in the entailed and in the presupposed eventuality description. Thus, (16a), with an indefinite object, has the two possible readings given in translations (i) and (ii). As for (16b), with a quantified object, and (16c), with a ‘functional’ definite object, the fact that the verbs in those sentences describe once-only events forces the reading in which different discourse referents are involved in the entailment and in the presupposition:

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(16) a. A Juan le volvieron a editar una novela to Juan CL.DAT return.SP.3PL to publish.INF a novel

(i) ‘One of Juan’s novels was republished’ (ii) ‘Juan got another novel of his published’

b. Volvieron a romper todos los platos return.SP.3PL to break.INF all the dishes ‘They broke all the dishes again’ c. Juan volvió a destrozar su coche en un accidente Juan return.SP.3SG. to wreck.INF his car in an accident ‘Again, Juan wrecked his car in an accident’

This ambiguity is also widely assumed to be a scope ambiguity. If the NP-arguments escape the scope of the presupposition trigger, one should get the same participants in the entailed and in the presupposed event. If they scope below the presupposition trigger, no identity of participants is required. The scopal account is standard for indefinites, in which wide-scope indefinites pick out a specific discourse referent, whereas narrow-scope indefinites can associate with different discourse referents. The case of universally quantified arguments and of 'functional' definites, however, is not exactly parallel. If the domain of quantification remains constant, there is but a single set that may verify a universally quantified sentence, namely the set of all individuals in the domain which satisfy the nominal description, and there is a single individual picked out by a definite description. This means that in readings such as the ones which are more prominent for (16b) and (16c), different participants go hand in hand with a difference in the domain of quantification for the entailment and for the presupposition. In such cases, the presupposition trigger does not scopally interact with a quantifier, but with the domain restriction associated with it. There is moreover a third type of ambiguity which has been noticed only recently (see Bale 2006 on the “subject-less presuppositions” of again), and whose existence is sometimes obscured by the effects of the repetitive-restitutive ambiguity. As stated above, the periphrasis need not have adjuncts in its scope, so that Ret is, at first sight, minimally defined by the verb and its arguments. This adjunct-argument divide is further illustrated by the contrast between (17a) and (17b). The expression en el desván ‘in the attic’ is a locative adjunct in (17a), and it is a GOAL argument in (17b). (17) a. Volvió a esconder la caja en el desván return.SP.3SG. to hide.INF the box in the attic ‘S/he hid the box again in the attic’ b. Volvió a poner la caja en el desván return.SP.3SG. to put.INF the box in the attic ‘S/he put the box back in the attic’

C1. La caja había estado escondida en el desván durante años. Juan la sacó y días después […] ‘The box had been hidden in the attic for years. Juan took it out and a couple of days later’ […] C2. La caja había estado escondida en el garaje durante años. Juan la sacó y días después […] ‘The box had been hidden in the garage for years. Juan took it out and a couple of days later’ […]

Now, context (17.C1) satisfies both the presupposition of (17a) and that of (17b). But, crucially, context (17.C2), with a different location, does not satisfy the presupposition of (17b). This is an indication that a GOAL argument necessarily enters into the composition of Ret, whereas a locative adjunct does not. The interesting fact is that some arguments, mainly Agents and Datives, pattern like adjuncts in this respect. Thus, the first sentence in (18) satisfies the presupposition of the second sentence, which hosts the presupposition trigger, but the Agent of the first sentence is not identical to that of the second sentence.

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(18) Su padre le había pedido el anillo, his father CL.DAT had asked the ring, y ahora volvía a pedírselo su madre and now return.IMPF to ask.INF_him_it his mother ‘His father had asked him for the ring, and now his mother was asking him for it again’ In the same vein, context (19.C) satisfies the presupposition of (19), with a different Dative argument, indicating that Dative arguments do not necessarily enter into the composition of Ret:

(19) El examinador le volvió a preguntar a Juan la fecha de Waterloo the examiner CL.DAT return.SP.3SG. to ask.INF to Juan the date of Waterloo ‘The examiner asked Juan the date of the Battle of Waterloo again ’ C. El examinador le había preguntado a María la fecha de Waterloo. ‘The examiner had asked Maria the date of the Battle of Waterloo’

Notice that the verbs in (18) and (19) are not change of state verbs, so that the exclusion of the Agent or the Dative from the presupposition cannot be attributed to a possible restitutive reading. Even with change of state verbs, the independence of agent-less presuppositions and restitutive readings is confirmed by the behavior of the expression por segunda vez ‘for the second time’. This expression blocks restitutive interpretations, as shown by the fact that (20) necessarily presupposes a previous event of going out of the chemist's, a presupposition that cannot be satisfied by the mere state of having previously been outside the chemist's:

(20) A las 5 volvió a salir de la farmacia por segunda vez at the 5 return.SP.3SG. to go-out.INF of the chemist's for second time ‘At 5 o’clock he went out of the chemist's for the second time’

Now, sentences containing por segunda vez do not require agent-identity in the entailed and in the presupposed eventuality, thus showing that restitutive and agent-less presuppositions remain distinct even in the case of change of state verbs:

(21) Los jesuitas habían sido expulsados de Francia por Enrique IV the Jesuits had been expelled from France by Henri IV En 1762, el gobierno de Choiseul los volvió a expulsar por segunda vez

in 1762 the government of Choiseul them return.SP.3SG to expell.INF for second time ‘The Jesuits had been expelled from France by Henri IV. In 1762, Choiseul's government

expelled them once more again’

The three types of ambiguities we have discussed show that the task of determining Ret, the property that must be shared by the described and the presupposed eventuality, is not at all trivial. The fact that the conditions required for each type to arise are different suggests that they are in principle independent from one another. So, for instance, the ambiguities arising with indefinites, quantifiers and functional definites are by and large independent from the argument structure and temporal structure of the predicate. By contrast, the repetitive-restitutive ambiguity requires predicates with a result state, i.e. a particular temporal structure and an argument that is the Theme of a change of state. As for agent-less and dative-less presuppositions, they target specific arguments, but do not require predicates with a result state (in fact, they can only be clearly distinguished from restitutive readings in the absence of a result state). In the next section, we will concentrate on the latter two cases, because both relate to argument structure and to the question of what counts as a minimal or core eventuality description for a given predicate.

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2.3 The minimal presupposition of volver a + VInf and the sublexical structure of eventuality descriptions The strategy we will follow is that of concentrating on the minimal presupposition of presupposition triggers of the type exemplified by volver a + VInf, i.e. on the semantic material that must necessarily be a part of Ret. This strategy is justified by the observation that the readings participating in the ambiguities discussed in the previous section are not logically independent from one another, a fact that often goes unnoticed. Thus, in the case of the repetitive-restitutive ambiguity, the repetitive reading asymmetrically entails the restitutive reading, because (22a) entails (22b): (22) a. John had gone out of the chemist's b. John was outside the chemist's Analogously, the agent-less presupposition is asymmetrically entailed by the presupposition involving identity of the agent in the presupposed and in the entailed event, because (23a) entails (23b): (23) a. John’s mother had asked for the ring b. Somebody had asked for the ring The consequence of this state of affairs is that only minimal presuppositions, i.e. the semantically weakest presuppositions, can be effectively tested, and that the only revealing case is that in which a sentence (a propositional content) fails to satisfy the presupposition of a sentence hosting volver a + VInf. The reason is that a stronger propositional content satisfying the presupposition may well do so because it entails the weaker propositional content, so that there is no way to decide between the stronger and the weaker formulation for Ret. Only presupposition failure can tell us something as to what components go into the formulation of Ret, and it tells us something about minimal presuppositions. We know already that adjuncts do not go into the formulation of Ret. Restitutive readings show that in the case of change of state verbs, the change of state itself, as opposed to its result state, need not be a component of Ret either. We know furthermore that non-internal, peripheral arguments, such as Agents and Datives, in some cases do not belong to Ret. This complex distribution, however, cannot be captured by simple contrasts between stative and eventive predicates and transitive and intransitive predicates as proposed by Bale (2006) for the computation of the presupposition of again. Thus, for instance, both (24a) and (24b) are transitive eventive constructions, but only (24a) admits an agent-less presupposition. By contrast, the first sentence in (24b) does not satisfy the presupposition in the second sentence: (24) a. El comisario había interrogado al testigo por la mañana, the commissioner had questioned the witness for the morning y de tarde el juez lo volvió a interrogar and of afternoon the judge him return.SP.3SG to question.INF ‘The commissioner had questioned the witness in the morning, and in the afternoon

the judge questioned him again’ b. # Misha corrió el maratón de Boston en 2010, Misha ran the marathon of Boston in 2010 y en 2013 lo volvió a correr Rudi and in 2013 it return.SP.3SG to run.INF Rudi ‘Misha ran the Boston marathon in 2010, and Rudi ran it again in 2013’ In fact, only decompositional approaches which articulate the VP domain into several different projections corresponding to subevental predications, such as Ramchand’s First-Phase Syntax (2008), are fine-grained enough to capture the minimal presupposition of sentences hosting volver a + VInf. This approach allows us to detect minimal sublexical eventuality descriptions and distinguishes neatly those

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DPs or NPs which are genuine arguments in such eventuality descriptions from those which constitute material modifying the relevant subevent (“rhematic” material in Ramchand’s terms). The main tenet of this approach is that simple verbs may lexicalize complex event-argument structures which have a sublexical syntactic phrase structure. Such complex event-argument structures can be represented as templates. The maximal template for a dynamic verb is illustrated in (25):

(25) vP (causing projection)

NP3 v' 'subject' of Cause INITIATOR v VP ( process projection)

NP2 V' 'subject' of Process UNDERGOER V RP (result projection) NP1 R' 'subject' of Result RESULTEE R XP Each one of the three projections in (25) introduces a distinct subeventuality which licenses its own argument. The vP introduces the causation event and licenses different types of external argument (‘subject’ of cause). The VP, which constitutes the nuclear component in dynamic verb templates, specifies the nature of the change or process and licenses the entity undergoing change or process (‘subject’ of process). Finally, the RP gives the ‘telos’ or ‘result state’ of the event and licenses the entity that comes to hold the result state (‘subject’ of result). Templates further specify the necessary identity relations between the arguments of each projection. For instance, process intransitives such as run have a causing and a process projection whose respective arguments are identical, whereas non-resultative transitives such as question also have the same two projections, but with different arguments for each one of them. The generalization as to the presuppositions of sentences hosting volver a + VInf that emerges from the previous discussion is given in (26):

(26) The minimal presupposition of volver a + VInf encompasses the minimal eventuality description determined by the template to which the lexical verb is associated.

Event-structure templates of the sort proposed by Ramchand (2008) are quite good predictors of the possibility of restitutive readings and agent-less presuppositions. Thus, for instance, the verb vaciar 'to empty' lexicalizes the full template, and requires that the UNDERGOER be identical to the RESULTEE. Correspondingly, (27) has as a minimal presupposition the eventuality described in the result projection, and can also have an agent-less and a repetitive presupposition corresponding to the full template. These are shown by the supporting contexts (27 C1-C3):

(27) Juan volvió a vaciar la botella. Juan return.SP.3SG to empty.INF the bottle ‘Juan emptied the bottle again’ C1. La botella había estado vacía. ‘The bottle had been empty’ C2. Alguien había vaciado la botella.

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‘Somebody had emptied the bottle’ C3. Juan había vaciado la botella. ‘John had emptied the bottle’

Interrogar ‘question’ lacks a result projection, but does not require identity between INITIATOR and UNDERGOER. The minimal presupposition volver a + VInf triggers in this case is the agent-less presupposition, as shown in (24a) above. Correr 'run', on its part, requires identity between INITIATOR and UNDERGOER. The NP occupying the object position in correr el maratón de Boston ‘run the Boston marathon’ is not an argument of the event template, but constitutes what Ramchand calls a RHEME. As a consequence, as shown in (24b) above, the argument corresponding to the INITIATOR = UNDERGOER has to be a part of the minimal eventuality description, so that no agent-less presupposition is possible. Generalization (26) concerns the minimal presupposition of sentences hosting volver a + VInf

.The question that arises at this point concerns the existence of an upper limit for the presupposition, i.e. whether there is material in the host sentence that is necessarily excluded from Ret. For adverbial repetition markers, such as again or wieder, it has been shown that their site of adjunction quite clearly delimits a maximal presupposition. Assuming, for instance that again attaches to the right of its complement, under neutral intonational conditions only the information contained to its left goes into the composition of Ret (cf. Bale 2006). By contrast with adverbial repetition markers, volver a + VInf .has a single adjunction site: it takes a VP as complement. A number of observations point to the possibility that the background-focus articulation of the sentence plays a role in determining its potential presuppositions. So, for instance, a topicalized argument seems to be necessarily included in Ret. As shown in example (18) above, repeated here for convenience as (28a), the dative argument need not be a part of the presupposition. But in the case of (28b), where the dative argument has been topicalized, it is no longer excluded from the minimal presupposition: context (28-C) satisfies the presupposition of (28a), but not that of (28b). (28) a. El examinador le volvió a preguntar a Juan the examiner CL.DAT return.SP.3SG. to ask.INF to Juan la fecha de Waterloo the date of Waterloo ‘The examiner asked Juan again the date of the Battle of Waterloo’ b. A Juan el examinador le volvió a preguntar la fecha de Waterloo to Juan the examiner CL.DAT return.SP.3SG to ask.INF the date of Waterloo ‘As for Juan, the examiner asked him again the date of the Battle of Waterloo’

C. El examinador le había preguntado a María la fecha de Waterloo ‘The examiner had asked Maria the date of the Battle of Waterloo’ The generalization that could account for the influence of background-focus articulation, however, is not a generalization about maximal presuppositions. It should also be formulated in terms of minimal presuppositions: backgrounded or topicalized arguments are necessarily included in Ret.

3. Volver a + VInf, re-prefixation and adverbs At first sight, adverbs of repetition like de nuevo, otra vez ‘again’ and the prefix, re-, share a common semantics with the periphrasis. In this last section, I will briefly mention the main differences between the three types of expression.

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3.1 Adverbs of repetition De nuevo (lit. ‘of new’) is the adverb whose semantics best matches that of volver a + VInf, because it presupposes the previous occurrence of an event of the same type. Although the presupposition of otra vez (lit. 'another time') is more often than not satisfied by a previously occurring event, it may also be satisfied by a later event, in other words, otra vez does not constrain the temporal order between the described and the presupposed eventuality. This is illustrated by the contrast in (29a-b): (29) a. Al entrar en la habitación, to–the enter.INF in the room, le pareció que ya había estado allí otra vez CL.DAT seem.SP.3SG that already had been there another time ‘When s/he entered the room, s/he had the feeling s/he had been there before’ b. # Al entrar en la habitación, to–the enter.INF in the room, le pareció que ya había estado allí de nuevo CL.DAT seem.SP.3SG that already had been there of new #‘When s/he entered the room, s/he had the feeling s/he had been there again’ De nuevo exhibits the same ambiguities as volver a + VInf .(30) exemplifies the repetitive-restitutive ambiguity, (31) the possibility of an agent-less presupposition, and (32) variation in the identity of a quantified argument: (30) El animal desapareció de nuevo entre los árboles the animal disappear.SP.3SG of new among the trees ‘The animal disappeared again among the trees’ (31) El comisario había interrogado al testigo por la mañana the commissioner had questioned the witness for the morning De tarde, el juez lo interrogó de nuevo of afternoon the judge him question.SP.3SG of new

‘The commissioner had questioned the witness in the morning. In the afternoon, the judge questioned him again’

(32) Rompieron de nuevo todos los platos break.SP.3PL of new all the dishes ‘They broke all the dishes again’ The main difference between adverbs of repetition and volver a + VInf is that the latter, but not the former, creates a new eventuality description with a particular temporal structure. As discussed in Section 1 above, the output of volver a + VInf is clearly eventive. As a result, when the basic eventuality description is a state, volver a + VInf does not give rise to simultaneous interpretations in the antecedents of conditionals, it is not possible in infinitival complements of belief-verbs, and it is a possible complement of periphrasis requiring an eventive predicate. As shown by the contrasts in (33a-b), (34a-b) and (35a-b), none of these properties are shared by adverbs of repetition: (33) a. Si María vuelve a estar enferma [...] if Maria return.PRS.3SG to be ill […] ‘If Maria falls ill again […]’ [FWD-SHIFTED> NOT-YET-SETTLED] b. Si María está enferma de nuevo, perderá su trabajo if Maria be.PRS.3.SG ill of new, lose.FUT.3SG her job ‘If Maria is ill again, she will lose her job’ [SIMUL >SETTLED >EPIST]

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(34) a. *María cree volver a estar enferma Maria believe.PRS.3SG return.INF to be ill

*‘Maria believes to fall ill again’ b. María cree estar enferma de nuevo Maria believe.PRS.3SG be.INF ill of new

‘Maria believes to be ill again’ (35) a. La respiración va volviendo a ser normal. the breathing go.PRS.3SG return.GER to be normal ‘His/her breathing is gradually going back to normal’ b. *La respiración va siendo de nuevo normal. the breathing go.PRS.3SG be.GER of new normal *‘His/her breathing is gradually being normal again’ Unlike the periphrasis, the adverbs do not have any influence on the temporal structure of the eventuality description they modify. Further contrasts between the periphrasis and the adverbs confirm this observation. Let us assume, for the sake of discussion, that perfect morphology picks out the POSTSTATE of the eventuality description it applies to, a time after the eventuality has taken place. (36a) shows that the POSTSTATE of volver a ser rica 'to become rich again' is ser rica 'to be rich', which holds at the time of reference. However, the POSTSTATE of ser rica de nuevo 'to be rich again', if there is one, can only be the negation of the described state, which accounts for the unacceptabiity of (36b). In fact, it is the temporal configuration with the imperfect in (36c) that corresponds to (36a). (36) a. Dos años después del crash la región ya había vuelto a ser rica two years after of_the crash the region already had return.PP to be.INF rich ‘Two years after the crash, the region had already become rich again’ b. #Dos años después del crash la región ya había sido rica de nuevo two years after of_the crash the region already had been rich of new #‘Two years after the crash, the region had already been rich again’ c. Dos años después del crash la región ya era rica de nuevo two years after of_the crash the region already be.IMPF.3SG rich of new ‘Two years after the crash, the region was already rich again’ Moreover, volver a + VInf always relies on the temporal order of events. By contrast, the presupposition of the adverbs can build on other, spatial or conceptual orders, as illustrated in (37a-b) and (38a-b):

(37) a. En la primera esquina hay un semáforo. En la segunda y en la tercera no. En la cuarta, hay de nuevo un semáforo. in the fourth have.PRS.3SG of new a traffic light b. #En la cuarta vuelve a haber un semáforo. in the fourth return.PRS.3SG to have.INF a traffic light

‘In the first corner there's a traffic light. There's none in the second, nor in the third one. In the fourth, there's again a traffic light’

(38) a. La primera palabra del verso tiene cuatro sílabas, la segunda tiene dos, la tercera y la cuarta tienen de nuevo cuatro sílabas. the third and the fourth havePRS.3SG of new four syllables b. #La tercera y la cuarta vuelven a tener cuatro sílabas.

‘The first word of this verse has four syllables, the second has two, the third ad the fourth have again four syllables'

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It is important to notice that all the differences between the periphrasis and the adverbs point to the temporal nature of the periphrasis, which is associated to a particular temporal structure and builds exclusively on a temporal order. But such differences only emerge clearly in combination with states. 3.2 Re-prefixation Prefixation with re- seems to be much more restricted in Spanish than in the other Romance languages. Actually, it is necessary to distinguish between two prefixes, re1- and re2- (Martín García 1998, RAE-ASALE 2009). Whereas re2- is an intensifier, which may attach to stems of different categories, re1- attaches exclusively to verbs and its semantics corresponds to Grossman's (1994) characterization of the Catalan prefix re-: re1- verbs denote the new occurrence of an event which restitutes a previously obtaining state. The selectional restrictions of re1- have been carefully described by Martín García (1998), and they confirm the importance of the restitutive component in its meaning. According to her, re1- selects for verbs with an internal argument which is affected by the event denoted by the verb, and which persists after the event as holder of a new state. This is to say that re1- necessarily targets the result state of change of state verbs and can only associate with event-argument templates having a result projection. More often than not, the entailed result state is actually a modified version of the presupposed state. This makes for particularly clear contrasts with volver a + VInf in combinations with verbs of creation. Verbs of creation are once-only events, and as such they can hardly combine with volver a + VInf when their object position is occupied by a rigid designator. Thus (39a-b) are at best strange: (39) a. ?? Al final de su vida, Tolstoi volvió a escribir Ana Karenina to_the end of his life, Tolstoi return.SP.3SG to write.INF Ana Karenina ?? ‘At the end of his life, Tolstoi wrote Ana Karenina again’ b. ?? Paul Dirac volvió a formular la Teoría de la Relatividad Paul Dirac return.SP.3SG to formulate.INF the theory of the relativity de un modo más simple of a way more simple ?? ‘Paul Dirac formulated again the Theory of Relativity in a simpler way’ By contrast, (40a-b), with re1- verbs, are perfectly acceptable: the objects are not created anew, but the organization or structure they had in the presupposed process of creation is modified in the process denoted by the re1- verb: (40) a. Al final de su vida, Tolstoi reescribió Ana Karenina to_the end of his life, Tolstoi rewrite.SP.3SG Ana Karenina ‘At the end of his life, Tolstoi rewrote Ana Karenina’ b. Paul Dirac reformuló la Teoría de la Relatividad de un modo más simple Paul Dirac reformulate.SP.3SG the theory of the relativity of a way more simple ‘Paul Dirac reformulated the Theory of Relativity in a simpler way’ The restitutive status of re1- verbs suggested by the selectional restrictions of re1-prefixation is further confirmed by two characteristics concerning argument identity. Firstly, agent-less and dative-less presuppositions are much easier to obtain with re1-verbs, because only the result state of the object counts in this case. Thus, (41b) does not suggest that Juan had previously sold a house, nor that Pedro had been previously sold a house by someone. It suffices that the same house had been sold before. By contrast (41a) suggests that Pedro had been sold a house before, and/or that Juan had sold a house before.

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(41) a. Juan le volvió a vender una casa a Pedro Juan CL.DAT return.SP.3SG to sell.INF a house to Pedro ‘Juan sold Pedro a house again’ b. Juan le revendió una casa a Pedro Juan CL.DAT resell.SP.3SG a house to Pedro ‘Juan resold a house to Pedro’ Interestingly, the indefinite una casa ‘a house’ need not associate to the same discourse referent in the described and in the presupposed eventuality in (41a), but it must have the same discourse referent in (41b). This leads us to the second characteristic of re1- verbs: their internal, affected argument has to be the same in the described and in the presupposed eventuality description. The ambiguities arising with indefinites, quantified NPs and functional definites in the case of both volver a + VInf and adverbs of repetition cannot be replicated for re1- verbs, as shown by (42a-c): (42) a. A Jorge le reeditaron una novela to Jorge CL.DAT republish. SP.3PL a novel ‘One of Jorge's novels was republished’ b. Revendieron todos los libros que tenían resell.SP.3PL all the books that have. IMPF.3PL ‘They resold all the books they owned’ c. Reeligieron al presidente de la comisión reelect.SP.3PL to_the Chairman of the Committee ‘The Chairman of the Committee got reelected’ In (42a-c), the novel, the books, and the chairman, respectively, have to refer to the same individuals in the entailment and in the presupposition. Now, the lack of readings showing referential variation for the internal argument position is a well known characteristic of restitutive readings in general (cf. von Stechow 2001). The most likely explanation for this phenomenon is that the presupposition trigger attaches in this case to the head of the lowest projection in template (25) above, leaving the argument of this projection, the Resultee, necessarily outside its scope. 4. Concluding remarks In this paper, we have described the semantics of three types of expressions of repetition that constitute presupposition triggers in Spanish, a verbal periphrasis, adverbs of repetition, and prefixation. We have shown that the main difficulty in their semantic analysis is that of formulating the minimal presupposition they trigger, and we have assumed that, in the case of the periphrasis, Ramchand's first-phase syntax templates are better predictors of this minimal presupposition than analyses relying on less fine-grained structures for the VP (such as those merely distinguishing adjuncts from arguments and internal from external arguments). As for the differences between the three types of expression, the periphrasis shows a clearly temporal nature, since it both modifies temporal structure and relies exclusively on temporal orders. Adverbs of repetition do not modify temporal structure and may rely on other types of order. Re1-prefixation in Spanish is confined to expressing the restitution (with or without modification) of a previously holding state. It is interesting to note that the three types of expression often co-occur in the same sentence, and that only a single presupposition is computed out of this co-occurrence, as in (43a-c): (43) a. En 1892, el antiguo presidenteCleveland volvió a ser reelegido in 1892 the former president Cleveland return.SP.3SG to be.INF reelect.PP ‘In 1892, former president Cleveland was reelected again’ b. No tengo más fuerzas para recomenzar de nuevo not have.PRS.1SG more forces for restart.INF of new

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‘I don't have the energy to restart again’ c. Le faltan seis meses para volver a estar de nuevo en la calle CL.DAT lack.PRS.3PL six months for return.INF to be.INF of new in the street ‘S/he needs six more months in order to be back in the street again’ Even though sentences (43a-c) contain two presupposition triggers each, they only presuppose one previous occurrence of the described eventuality. This phenomenon, by which identical or similar semantic material is interpreted only once in the sentence is highly reminiscent of semantic concord phenomena in the expression of negation (negative concord) or in the expression of modality (modal concord). The conditions and motivation for this phenomenon are a topic for further research. The exact influence of discourse on the presuppositions triggered by expressions of repetition is also a topic for further research. We have concentrated on the lexical and syntactic factors that partially determine presuppositional content. However, it has been argued that the presuppositions of expressions of this type (most notably again) are anaphoric in a non-trivial sense: they resist accommodation and look for support in the previous context (Beck 2006). In any case, determining the minimal presuppositions of such expressions remains crucial in order to understand why certain contexts clearly do not offer the contextual support which is necessary for their felicitous use. Acknowledgments I'd like to thank the two anonymous reviewers for their insightful remarks, which have helped improve the quality of this paper. References Bale, Alan. 2006. Quantifiers, again and the complexity of verb phrases. In Georgala, Efthymia & Stowell,

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I causativi vedici fra semantica e morfologia

Romano Lazzeroni Abstract The paper tackles a specific point of the problematic issue of Vedic causatives (namely a previously asserted – by S. Jamison - complementary distribution between Vedic presents with infixed nasals and morphological causa-tives with simple transitive meaning) and discusses it in order to re-evaluate the role of some semantic-syntactic parameters (such as telicity, transitivity and so on) for the definition of causative. KEYWORDS: Causative • Vedic • Semantic-Syntactic parameters

The literature on the syntax of causative constructions in different languages is very huge; the literature of their se-mantics is very modest. But the use of such constructions

is of course largely determined by their meaning. (Wierzbicka 1988: 237)

1. Causativi diretti e indiretti nel RigVeda È stato supposto che in vedico i causativi/fattitivi caratterizzati da un infisso nasale nel presente (kṣiṇāti/ kṣiṇóti ‘distruggere’; bhinátti ‘frantumare’ ecc.) siano eredi di una situazione indoeuropea in cui erano in distribuzione mutualmente esclusiva coi causativi caratterizzati dal suffisso *-éye- (sscr.-áya-) e, con varie eccezioni (Renou 1952: 299; Whitney 1989: 378ss.) dal grado radicale *o (> sscr. ā/a): “if the *o-grade *-éye- formation was simply transitive in the protolanguage”, ha scritto S. Jamison (1983: 186 n.12) “it would appear to be functionally identical with the nasal-infixing presents, which are also gene-rally considered to be relativizing […]. In fact it seems possible that the two formations were originally in complementary distribution” e ciò perché l’infisso nasale caratterizzerebbe i presenti transitivi di basi “fondamentalmente flesse all’aoristo”, mentre le formazioni in -éye- col grado radicale forte avrebbero fornito presenti transitivi alle basi “fondamentalmente flesse al presente”. In ogni caso, prosegue la stu-diosa, “until a comprehensive investigation of all the available IE evidence has been undertaken, this view must remain an extremely tentative hypothesis”. Questa distribuzione avrebbe lasciato tracce in vedico se è vero che tarpáyati ‘rendere soddisfat-to’ ha alla base tr pyati (intrans.) e non tṛpṇóti / tṛṁpáti “since nasal presents are not systematically asso-ciated with -aya- transitives” (Jamison 1983: 140). La realtà è, almeno in parte, diversa. In primo luogo la distinzione fra basi “fondamentalmente flesse al presente” e basi “fondamentalmente flesse all’aoristo” non è chiara, a meno che con “basi fon-damentalmente flesse all’aoristo” non si intendano le basi con inerente azionalità telica: la codifica dell’azionalità telica è, appunto, la funzione dell’infisso nasale (Delbrück 1897; Kuiper 1937; Meiser 1993). È vero, poi, che le formazioni vediche in -áya- sono tendenzialmente in distribuzione comple-mentare coi presenti con l’infisso nasale, ma ciò vale soltanto per i causativi/fattitivi ad alta telicità che Kulikov (2012: 727 ss.) definisce “di crescita di entropia”. Tali verbi, che designano un mutamento di stato dell’oggetto altamente coinvolto (affected) e non incorporano specificazioni tali da impedire la rappresentazione dell’evento come spontaneo, (“spontaneous […] processes which result in destroying some natural or artificial system or organism”: Kulikov 2012: 717; Haspelmath 1987, 1993) formano, nell’opposizione con gli anticausativi in -ya- (Kulikov 2012: 727 ss.), il nucleo prototipico dell’ alternan-

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za causativa (Levin & Rappaport 1995; Bertocci 2010) e non conoscono alternanti in -áya-. Questi compariranno nella letteratura vedica più tarda, e soprattutto nell’epica:

kṣiṇāti RV/ kṣiṇóti AV: kṣīyáte ‘distruggere’: ‘andare in rovina’ chinátti RV: chídyáte RV ‘rompere, dividere’: ‘rompersi, dividersi’ jināti RV: jīyáte RV ‘privare’: ‘perdere, essere privo’ bhanákti RV: bhajyáte RVKh. ‘spezzare’: ‘spezzarsi’ bhinátti RV: bhídyáte RVKh. ‘frantumare’: ‘frantumarsi’ mināti RV: mīyáte RV ‘diminuire (trans.)’, ‘rovinare’: ‘diminuire (intrans.), andare in rovina’ e (con pra-) ‘perire’ śṛṇāti RV: śīryáte RV ‘rompere’: ‘rompersi’

E così via.1 Gli anticausativi, che promuovono a soggetto l’oggetto dei causativi, sono tipicamente inac-cusativi: Levin & Rappaport (1995) considerano la possibilità di formare il termine anticausativo dell’alternanza causativa come uno dei test principali dell’inaccusatività. Nel dossier di Kulikov solo in tre casi un causativo in nasale del RV è affiancato da un causativo in -áya-:

ṛṇáddhi RV: ṛdhyáte RV ‘accrescere’: ‘crescere’; ardháyati AV pṛṇāti RV: pūryáte RV ‘riempire’: “riempirsi”; pūráyate AV riṇákti RV: rícyáte RV‘lasciare indietro’: ‘restare indietro’ RV, recáyati Br.2

Si tratta di verbi situati ai margini del prototipo: i causativi, che non comportano il coinvolgimento (af-fectedness) dell’oggetto (il cui stato non subisce modificazioni), occupano una posizione bassa nella ge-rarchia di transitività di Hopper & Thompson (1980); i loro corrispondenti anticausativi occupano pa-rimente una posizione bassa nella gerarchia di inaccusatività: anche l’inaccusatività configura, infatti, un gradiente che va dai verbi che designano un mutamento di luogo e di stato (verbi, questi ultimi, “di cre-scita di entropia” nel senso di Kulikov) ai verbi con alternante atelico come “correre” (Sorace 2000, 2011). Ebbene, dei tre causativi in -aya- or ora citati (nessuno attestato nel RV) i primi due designano processi indefiniti e nessuno un mutamento di stato o di luogo: ṛṇáddhi ‘accrescere’ e pṛṇāti ‘riempire’ sono verbi “di completamento graduale” (gradual completion verbs) che non implicano il raggiungimento di un punto terminale ; sull’antonimo ‘vuotare’ di pṛṇāti cfr. Cennamo & Jezek 2011: 815; l’oggetto di riṇákti ‘lasciare indietro’, non subisce modificazioni e non “misura” l’evento nel senso di Tenny (1994). A bassa transitività come questi appena citati sono altri verbi caratterizzati dall’infisso nasale ac-compagnati da un allomorfo in -áya- dallo stesso significato: gṛbhṇāti ‘prendere’, ‘afferrare’; iṣṇāti ‘incita-re’, ‘spingere’, ‘mandare’; ṛṇóti ‘mettere in movimento’, ‘agitare’, ‘eccitare’; tṛpṇóti ‘godere’; bhuṅkté3 ‘trar-re beneficio’; ṛñjáti ‘condurre’, ‘tirare’ ‘avanzare’; ramṇāti ‘fermare’, ‘acquetare’; vṛṇákti ‘preparare’ (Kuli-kov 2012: 247 ss.); vṛṇóti ‘chiudere’, ‘imprigionare’, ‘nascondere’, śrathnāti ‘allentare’, ‘sciogliere’, ‘libera-re’. Di questi soltanto 6 sono attestati nel RV: 4 (qui sottolineati) come ἅπαξ di cui tre participi. Dunque, nel Rigveda, il causativo morfologico in -áya- è in distribuzione complementare non con tutti i verbi con la nasale infissa, ma solo con quelli altamente transitivi a cui, nell’alternanza causa-tiva, corrisponde un anticausativo in -ya-. Il motivo di questa restrizione non è mai stato, che io sappia, riconosciuto. L’opposizione fra il causativo lessicale e il causativo morfologico in -áya- corrisponde, nelle sue manifestazioni prototipiche, all’opposizione fra causativo diretto e causativo indiretto (Comrie 1985: 333ss.). Ciò dipenderà da un principio che sembra avere valenza interlinguistica: la significazione del

1 Questi verbi possono portare l’accento tanto sulla sillaba radicale quanto sul suffisso senza differenze di significato chiara-mente riconoscibili (Kulikov 2012: 709 ss.). Un possibile motivo dell’alternanza è indicato in Kulikov 2012: 721. Le sigle vanno sciolte come segue: RV = Rigveda; AV = Atharvaveda; RVKh = Rigvedakhilya. 2 Non si considera daráyati RV (dāráyati AV) perché un presente in nasale (cfr. dṛṇīyāt ŚB) non è attestato nel RV; Joachim 1978: 95). 3 Al presente medium tantum.

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causativo diretto è affidata alle forme meno produttive o improduttive come sono in sanscrito le classi con infisso nasale già lessicalizzate nel vedico, mentre la significazione del causativo indiretto è affidata alle forme produttive come, in sanscrito, i causativi in -áya- (Delbrück 1897: 116); “cross-linguistically, productive forms align (whether they are morphological or periphrastic) in expressing indirect causa-tion, and lexically restricted forms (whether they are morphologically unanalizable or morphologically complex) in expressing direct causation” (Shibatani & Pardeshi 2001: 112). Nel causativo diretto prototipico (detto anche fattitivo o manipolativo), come nell’it. rompere qlcs., l’agente produce, direttamente e con una manipolazione fisica situata nel medesimo segmento spazio-temporale dell’evento causato, un mutamento di stato dell’oggetto; nel causativo indiretto proto-tipico, come nell’it. far lavorare qcn., il causante non è coinvolto direttamente nell’evento causato, il sog-getto causato è animato, agentivo e provvisto di un qualche grado di controllo sull’evento e l’evento causante non appartiene necessariamente al medesimo segmento spazio-temporale dell’evento causato (Shibatani & Pardeshi 2001; Bertocci 2010). Ovviamente, mentre il causativo diretto può farsi soltanto coi verbi transitivi, il causativo indiretto può farsi tanto coi verbi intransitivi come nell’esempio citato poco sopra, quanto (ma, vedremo, non in vedico) coi verbi transitivi: far fare qlcs. a qlcn. Perciò, nei casi in cui un medesimo verbo ammette, come nell’alternanza causativa, una rappresentazione tanto transi-tiva quanto intransitiva, il causativo indiretto potrà trarsi da ambedue le varianti: se avrà alla base la va-riante transitiva (causativa) avrà il valore tipico del causativo indiretto, ma se avrà alla base la variante intransitiva (anticausativa) potrà essere (vedremo in seguito con quali restrizioni) pressoché sinonimo del causativo diretto: fare riscaldare qcs. da qlcn., ma, come si legge nei libri di cucina: “fate riscaldare qlcs. a fuoco lento” = “riscaldate”.4 Una indagine di Centineo (1995; v. anche Folli 1999) su un campione di parlanti italiani a cui fu chiesto di interpretare una serie di frasi italiane contenenti costrutti causativi perifrastici formati con verbi che ammettono una interpretazione tanto transitiva quanto intransitiva del verbo di base, mostrò che, nella stragrande maggioranza dei casi, i costrutti contenenti verbi come: 1) ‘accendere’, ‘aprire’, ‘chiudere’, ‘asciugare’ ‘fracassare’, ‘frantumare’, ‘infrangere’, ‘rompere’, ‘seccare’, ‘spegnere’, ecc. vengo-no interpretati come causativi indiretti basati sul transitivo (‘fare accendere’ = ‘ordinare a qlcn. di ac-cendere’), mentre i costrutti contenenti verbi come: 2) ‘crescere’ ‘aumentare’, ‘dimagrire’, ‘imbellire’, ‘imbruttire’ ‘invecchiare’, ‘migliorare’, ‘peggiorare’, ‘ringiovanire’, ‘rincretinire’, ‘diminuire’ ecc. vengono prevalentemente interpretati come causativi diretti basati sulla variante intransitiva (‘far crescere’ = ‘ac-crescere’ ecc.). E ciò perché i verbi della prima serie sarebbero basicamente transitivi e darebbero luogo a un alternante intransitivo mediante un processo di derivazione, mentre per i verbi dell’altra serie sa-rebbe vero il contrario: l’alternante derivato sarebbe quello transitivo (Folli 1999): in sostanza ‘rompersi’ sarebbe secondario a ‘rompere’ mentre ‘aumentare (trans.)’ sarebbe secondario a ‘aumentare (intr.)’. È facile accorgersi che i verbi della prima serie sono verbi ad alta transitività nella variante tran-sitiva (con oggetto totalmente affected; Hopper & Thompson 1980) e ad alta inaccusatività nella varian-te intransitiva, largamente corrispondenti ai verbi “di crescita di entropia” nel senso di Kulikov, mentre quelli della seconda serie non incorporano la nozione di un telos raggiunto, ma piuttosto designano il raggiungimento graduale di un telos; sono, dunque, verbi a più bassa telicità e transitività (l’oggetto non è totalmente affected) e a più bassa inaccusatività nella variante intransitiva. Da indagini condotte su una o su poche lingue non si possono trarre generalizzazioni, ma le dif-ferenti interpretazioni del causativo perifrastico sembrano motivate da un meccanismo cognitivo sicu-ramente indipendente da un sistema linguistico specifico. “Bisogna ammettere – ha scritto Ramat (2004: 414) – che esistono strategie linguistiche valide interlinguisticamente, forse universalmente, in quanto riflettono strategie cognitive più generali, proprie della mente umana”. È perciò legittimo do-mandarsi se questa non sia un’altra delle proprietà dei causativi indiretti che sembrano avere carattere universale, alla stessa stregua, p. es. della gerarchia che pone i transitivi all’ultimo posto nella filiera dia-cronica della causativizzazione (v. in seguito) e della correlazione, vista sopra, del gradiente: causativo lessicale > causativo morfologico > causativo perifrastico col continuum che unisce la significazione del-

4 “Salate e pepate e fate cuocere a fuoco basso coperto per almeno un’ora e mezza. Unite prezzemolo e basilico e cuocete an-cora mezz’ora” (da una ricetta su un settimanale).

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la causazione diretta alla causazione indiretta (Comrie 1985: 333; Dixon 2000; Shibatani & Pardeshi 2001; Kulikov 2001). Se così è, potremo supporre che l’interpretazione dei causativi morfologici o perifrastici sia go-vernata dalle gerarchie di transitività e di inaccusatività: quanto più alte sono la transitività dell’ alternan-te transitivo e l’inaccusatività dell’alternante intransitivo, tanto più è probabile che il causativo sia con-cettualizzato come basato sul transitivo (far rompere = far rompere qcs. da qcn.). Torniamo al vedico. Se si eccettua un piccolo gruppo di verbi di immissione (ingestivi) e emis-sione che, in quanto tali, si situano nelle posizioni centrali, marginali rispetto ai prototipi, del continuum che si dispiega fra transitività e intransitività (Tichy 1980; Næss 2007; Lazzeroni 2009; Kulikov 2013)5, nel Rigveda il causativo in -áya- si forma dai soli verbi intransitivi. La formazione del causativo morfo-logico dai verbi transitivi appartiene a una fase del sanscrito successiva ai documenti vedici più antichi (Kuriłowicz 1964: 87). Ciò è coerente con quanto è stato ripetutamente osservato dagli studiosi: la formazione del cau-sativo morfologico (nel vedico in -áya-) segue una gerarchia implicazionale: se una lingua causativizza i transitivi, allora causativizza anche gli intransitivi e se causativizza gli intransitivi agentivi allora causati-vizza anche gli intransitivi inagentivi: transitivi ⊃ intransitivi agentivi ⊃ intransitivi inagentivi (Shibata-ni 2001: 6; Comrie 1985: 335; Kulikov 2001: 888 ss.). Questo dà la chiave per la soluzione del problema che abbiamo posto all’inizio: se il vedico non ammetteva la causativizzazione morfologica dei verbi transitivi, non poteva ammettere nemmeno la causativizzazione morfologica dei verbi ad alta telici-tà/inaccusatività perché, se la generalizzazione che si è proposta è corretta, il causativo in -áya- sarebbe stato concettualizzato come causativo indiretto basato sul transitivo. 2. Neutralizzazioni e differenziazioni Thieme, a proposito del causativo morfologico vedico in -áya-, osservò, riprendendo una nota di Süt-terlin (1906: 517ss.), che questo suffisso codifica il causativo indiretto ma che “die faktitiv-transitiven Verben im Kausativ ihre Bedeutung und Konstruktion nicht ändern” e ciò perché “das ‘Kausativ’ ist bei den ‘faktitiv-transitiven’ Verben zum dazugehörigen Intransitiv gebildet” (1929: 22; v. anche Renou 1952: 372). Alle parole di Thieme c’è solo da aggiungere ciò che si è appena detto: che il causativo mor-fologico vedico abbia alla base un intransitivo è vero, ma non è vero che tutti i ‘fattitivi-transitivi’ for-mino un causativo in -áya sinonimo del causativo lessicale: lo rifiutano, come si è visto, i verbi con in-fisso nasale “di crescita di entropia”. Inoltre, quando Thieme afferma che i verbi “fattitivi transitivi” formano il causativo dall’alternante intransitivo (in vedico significato dalla suffissazione con -ya-ti/-te o dalla diatesi media opposta alla diatesi attiva), sicuramente coglie nel vero, ma ciò non basta a dar ragio-ne delle sinonimie: tutti i causativi morfologici del RV e dell’AV (a parte l’eccezione dei verbi ingestivi) hanno la base intransitiva, ma non tutti sono sinonimi della variante transitiva. E se così è, perché sono sinonimi della variante transitiva solo i causativi formati dall’alternante intransitivo dei “fattitivi transiti-vi”, in sostanza dagli anticausativi? Torniamo all’opposizione fra causativo diretto e causativo indiretto. L’affermazione di A. Wierzbicka che “labels of this kind are often more misleading than helpful” (1988: 238) è forse troppo drastica, ma è certo che queste definizioni si addicono solo ai poli opposti di un continuum che si snoda fra due prototipi. Delle posizioni intermedie si può riconoscere non l’appartenenza, ma soltanto il gra-do di vicinanza all’uno o all’altro polo. Ricordiamo ancora una volta che il causativo diretto prototipico implica che il soggetto causante sia attivo e l'oggetto causato inattivo6, che l’effetto causato appartenga 5 Kulikov (2013) ha considerato la questione della causativizzazione dei verbi transitivi nell’ambito di una scala di transitività su base semantica: nel RV soltanto i verbi a bassa transitività situati al margine sinistro della scala (fra questi i verbi di perce-zione) potrebbero formare il causativo morfologico; “più tardi il confine si spostò verso destra “and eventually, by the midd-le Vedic periode (i.e. in the language of the Vedic prose), the causative derivation had become possible for transitives” (p. 98). 6 Con attivo e inattivo si intendono i macroruoli tematici comunemente definiti actor e undergoer: il primo sussume, ovvia-mente, i ruoli tematici di agente (l’esecutore volizionale di un’azione), di effector (l’autore non necessariamente volizionale di un’ azione) e di esperiente (la sede di un processo di cognizione o percezione); “agentivity” scrive Sorace (2000: 882) “can[…]be regarded as a gradient notion: it depends on the combination of various elements of the predicate in which a

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allo stesso segmento spazio-temporale dell’evento causante e che l’agente produca un mutamento di stato dell’oggetto con un contatto fisico; di contro il causativo indiretto prototipico implica che il cau-sante non partecipi direttamente all’evento causato, che il causato sia animato e agentivo e abbia un qualche grado di controllo sull’evento e che l’evento causante e l’evento causato non appartengano ne-cessariamente allo stesso segmento spazio-temporale. È ovvio che questi parametri possono presentarsi in misura diversa nelle rappresentazioni non prototipiche: Wierzbicka (1988: 245) cita il caso del france-se le pilote a fait atterrir le Boeing che, a differenza dell’italiano, ammette anche il causativo lessicale: le pilote a atterri le Boeing e conclude che in francese il causativo lessicale attribuisce la causa al solo cau-sante, mentre la costruzione perifrastica attribuisce la causa in parte anche al causato. Quando il causato è un oggetto inanimato ma dotato di movimento come un veicolo, il causativo indiretto lo rappresente-rebbe come capace di una qualche forma di attività autonoma. Certo è che “if a language has both a periphrastic – syntactic complementation – causative and a morphological causative, the former is more likely to code a causation with a human-agentive manipulee, while the latter is more likely to code causa-tion with an inanimate manipulee” (Givón 1990: 556; v. anche Shibatani 2001b; Salvi 1991). Ma questo è probabile, appunto, more likely, non necessario. L’italiano ‘riscaldare’, si è visto, presenta la stessa dop-pia valenza del fr. ‘atterrir’, ma se qualcuno fa riscaldare qualcosa a fuoco lento non attribuisce alcuna sorta di animatezza a ciò che si riscalda. Conviene, piuttosto, ripetere che se un verbo, anche dal signifi-cato basico intransitivo, forma l’alternanza causativa, il causativo indiretto si forma più facilmente sulla variante causativa il cui soggetto prototipico è attivo; e se, più raramente, si forma su quella anticausati-va, il cui soggetto è inattivo, il suo significato si sovrappone a quello del causativo diretto, come nell’italiano ‘riscaldare’ e nell’esempio francese appena citato. I verbi vedici con infisso nasale a bassa transitività e a bassa inaccusatività nella variante intran-sitiva offrono copia di esempi di causativi morfologici: fondamentali sono le proprietà del soggetto dell’anticausativo, non coinvolto in un mutamento di stato, spesso inanimato, sempre inattivo. Con questa classe di verbi la sinonimia del causativo morfologico col causativo lessicale è la norma:

iṣṇāti ‘incitare’, ‘spingere’, ‘mandare’: iṣáyati ‘id.’; ṛṇáddhi ‘accrescere’: ardháyati ‘id.’: AV, VII, 80, 4: yé tvāṁ yajñáir yajñiye ARDHÁYANTI amī te nāke sukṛtāḥ práviṣṭāḥ “Quelli, o venerabi-le che ti ACCRESCONO7 coi sacrifici, questi benefattori stanno nel tuo cielo”; RV, I, 18, 8: ād ṚDHNOTI havíṣkṛtim “ACCRESCE (= rende prospera, efficace) la preparazione dell’offerta”; pṛṇāti ‘riempire’: pūráyati ‘id’: RV, I, 16, 9: sémáṁ naḥ kāmam ā PṚṆA góbhir áśvaiḥ “RIEMPI (=soddisfa) questo nostro desiderio con buoi e cavalli”; AV, III, 10, 13: kāmān asmākaṁ PŪRAYA “RIEMPI (=soddisfa) i nostri deside-ri”; ramṇāti ‘fermare’, ‘acquetare’: rāmayati (e ramayati) ‘id.’: RV, V, 32, 1: tvám arṇavān badbadhānān ARAMṆĀḤ “tu CALMASTI le acque tumultuose” come RV, 2, 13: ARAMAYAḤ sárapasas tárāya “CALMASTI le acque use a scorrere”, e, col causato agentivo e perciò più vicino al causativo indiretto in X, 42,1: ní RĀMAYA jaritaḥ sóma índram “o cantore, FERMA Indra presso il Soma”; śrathnāti ‘allentare’, ‘sciogliere’, ‘liberare’: śrathayati‘id.’: RV, X, 171, 3: tváṁ tyám indra mártyam[…]..venyám[…].ŚRATHNĀḤ “tu Indra liberasti quel mortale degno d’amore” (venyám; o nome proprio? Geldner); RV, V, 59,1: svám bhānúṁ ŚRATHAYANTE “(i Marut) LIBERANO la loro luce”; [sādhnoti, JB], sādhati, RV ‘portare a buon fine’: sādhayati ‘id.’:

verb appears”. Il macroruolo inattivo (undergoer) sussume i ruoli di tema (l’entità che subisce un mutamento di luogo) e di paziente (l’entità che subisce un mutamento di stato); anche l’inattività è, ovviamente una nozione graduabile. 7 Manteniamo il significato di “accrescere” in luogo di “onorare, gratificare” (“gratify”: Whinter) perché nella cultura vedica è usuale la rappresentazione dell’atto verbale come offerta materiale: l’inno è cibo per gli dei e li “rafforza” come il cibo raf-forza i mortali (Lazzeroni 1998: 43ss.).

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Lo stesso vale per i verbi privi di una variante in nasale: quando esiste un alternante transitivo e il verbo è a bassa transitività e a bassa inaccusatività nella variante intransitiva, il derivato in -aya- è sinonimo del transitivo. Ecco alcuni esempi:

púṣyati ‘far crescere’, ‘accrescere’ ‘rendere prospero’: poṣáyati ‘accrescere’ ‘rendere prospero’: RV, X, 117, 6: nāryamáṇam PUṢYATI nó sákhayaṁ “egli non FA PROSPERARE né un benefattore né un amico”; RV, V, 9, 7: sá kṣepayat sá POṢAYAT “ (Agni ci) FA PROSPERARE e vivere in pace”; práthati ‘estendere’: pratháyati ‘id.’: RV, VI, 72,2: índrāsomā vāsáyatha uṣāsam[…]ÁPRATHATAM pṛthivīṁ mātáraṁ ví “Indra e Soma, voi fate splendere l’aurora …… AVETE ESTESO la madre terra”; RV, X, 72, 3: yá ṛténa sūryam āroha-yan dívy ÁPRATHAYAN pṛthivīṁ mātáraṁ ví“coloro che con l’Ordine fecero salire il sole al cielo e ESTESERO la madre terra”; yátati ‘pacificare’ (lett. “collocare al proprio posto”): yātáyati ‘id’: RV, VII, 36, 2: jánaṁ ca mitró YATATI bruvāṇáḥ “e Mitra, invocato, PACIFICA l’umanità”; RV, III, 59, 1: mitró jánān YĀTAYATI bruvāṇáḥ “Mitra, invocato, PACIFICA le genti”, ecc. (altri esempi in Jamison 1983: 184).

Conviene ora riprendere un’osservazione di Levin & Rappaport: i verbi inaccusativi sono in stragrande maggioranza “a causazione esterna”, mentre gli inergativi sono “a causazione interna”: i primi (rompersi, fondere, intr., cuocere, intr., ecc.) descrivono eventualità “that are under the control of some external cause that brings such an eventuality about”, mentre gli altri (“ridere”, “piangere”, “tremare”, “danza-re”, “camminare” ecc.) designano eventualità controllate soltanto dal soggetto coinvolto: un test dia-gnostico è il sintagma con “da sé / da solo”: il vaso si è rotto da solo = “senza un intervento esterno”, ma Tizio piange da solo = “in solitudine” (Levin & Rappaport 1995: 88 ss.)8; il primo valore individua i verbi a causazione esterna, l’altro quelli a causazione interna. La sinonimia col causativo lessicale del causativo morfologico (o perifrastico) tratto da un anti-causativo si motiva, allora, perché nell’alternanza causativa il causativo diretto comporta un profilo se-mantico costituito da due sottoeventi nel senso di Dowty (1979) rappresentabile con la formula [xFA-RE]-causa-[ydiventare STATO] dove il soggetto x del primo sottoevento è il causante esterno (agente o effector) e l’oggetto y è il causato inattivo; nell’anticausativo, invece, il primo sottoevento non è rappre-sentato in superficie: y è promosso a soggetto del secondo [ydiventare STATO]. Il causativo morfologico (ved. -aya-) o perifrastico derivato da un anticausativo riporta in super-ficie la rappresentazione di un causante esterno x producendo un profilo semantico [xFARE]-causa-[ydiventare STATO] identico a quello del causativo lessicale. Un verbo inergativo (‘ridere’, ‘piangere’, ‘passeggiare’ ecc.) comporta, invece, un profilo seman-tico costituito da un solo evento [zFARE predicato] dove z è il causante interno e attivo (meglio: il cau-sante immediato nel senso di Levin & Rappaport-Hovav 1995: 135ss.; “a notion which is broader than the notion of agent, since it subsumes many non agentive animate arguments”: Levin & Rappaport Hovav 2005: 38ss); perciò la causativizzazione di un verbo inergativo non può configurarsi altrimenti

8 Su questo punto è opportuno un accenno alla cosiddetta Monotonicity Hypothesis secondo la quale le operazioni di forma-zione delle parole non rimuoverebbero gli operatori dalla rappresentazione semantica sottostante: “incoative verbs derived by anticausativization retein in their lexical semantic representation the causative verb operator present in the representation of the causative verb from which they were derived” (Koontz-Garboden 2009: 106; v. anche Sorace 2000: 871). È superfluo avvertire che i profili semantici qui riportati sono molto semplificati. Per più ampi particolari si rimanda a Van Valin & La-Polla (1997: 102 ss.) e Van Valin (2005: 42 ss.). Per quanto riguarda la nozione di causazione interna si terrà presente che “there is an asymmetry between agentivity and internal causation: all process verbs are internally caused in the extent that they are brought about by a causer, but they vary systematically in the extent to which the causer is an intentional agent” (Sorace 2000: 862).

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che come l’introduzione di un’azione esercitata su un causante interno z animato o rappresentato come animato da un causante esterno x: [xFARE]-causa-[zFARE predicato].9 Insomma, i verbi inergativi prototipici, privi dell’operatore ‘causa’ nel profilo semantico sotto-stante (Levin & Rappaport Hovav1995: 94), non ammettono altra variante transitiva che il causativo indiretto: Tizio fa ridere / piangere / passeggiare / lavorare Caio (Haspelmath 1987, 1993). Così, in vedico, i verbi intransitivi, per lo più inergativi, ma non solo,10 che selezionano un sog-getto attivo Sa formano derivati in -áya- col valore di causativi indiretti o, in assenza di qualcuna delle proprietà del prototipo del causativo indiretto, coi valori situati nel continuum fra i due causativi, vicini quali all’uno quali all’altro dei poli fra cui il continuum si dispiega:

RV, X, 145, 4: parām evá parāvátaṁ sápatnīṁ GAMAYĀMASI “FACCIAMO ANDARE i nostri nemici nella lontananza più lontana”; RV, V, 5, 10 tátra havyāni GĀMAYA “FA ANDARE là i sacrifici!” (gáchati “andare”); RV, VII, 18, 8: durādhyò áditiṁ SREVÁYANTAḤ “mentre, con intenzione malvagia, FACEVANO ABORTIRE ADITI…” (sriv- “abortire”); RV, I, 51, 3: ádriṁ […]NARTÁYAN “FACENDO DANZARE… la pietra” (nŗtyati ‘danzare’); RV, X, 137, 1: utāgaś cakruṣaṁ devā dévā JĪVÁYATHĀ púnaḥ “o dei, anche colui che ha commesso un torto voi, dei, FATE VIVERE di nuovo”; (jīvati ‘vivere’) RV, X, 102, 5: ny ÀKRANDAYANN upayánta enam ÁMEHAYAN vṛṣabhám mádhya ājéḥ “giungendo lo FE-CERO MUGGIRE, FECERO URINARE il toro a metà della gara”; (krándati ‘muggire’, ‘nitrire’; méhati ‘urinare’); RV, III, 46, 2: éko víśvasya bhúvanasya rājā sá YODHÁYĀ ca KṢAYÁYĀ ca jánān “unico re del mondo intero FA COMBATTERE e FA VIVERE in pace le genti!” (yúdhyati ‘combattere’; kṣáyati ‘vivere in pace’); RV, III, 44, 2: haryánn uṣāsam ARCAYAH 11 sūryaṁ haryánn AROCAYAḤ12 “volentieri HAI FATTO BRILLARE l’aurora, volentieri HAI FATTO SPLENDERE il sole” (árcati ‘brillare’; rócate ‘illuminare’);

RV, I, 48, 5: jaráyantī13 vṛjanaṁ padvád īyata út PĀTAYATI pakṣíṇaḥ “viene (l’Aurora) svegliando lo stuolo degli esseri muniti di piedi, (essa) FA VOLARE gli uccelli” (pátati ‘volare’); RV, I, 39, 5: PRÁ VEPAYANTI párvatān ví viñcanti vánaspátīn “FANNO TREMARE le montagne, scrol-lano gli alberi” (vépate ‘tremare’); RV, X, 67, 6: índraḥ RODAYAT paṇím ā gā amuṣṇāt “Indra FECE PIANGERE Pani, rubò i buoi” (rudáti ‘piangere’); ecc. RV, VIII, 44, 3: devān ā SĀDAYĀD ihá “FACCIA STARE qui gli dei”.

3. Alcuni casi marginali Le implicazioni: [causativo morfologico < verbo inaccusativo = causativo diretto] e [causativo morfo-logico < verbo inergativo = causativo indiretto] sembrano valide soltanto, fra gli inaccusativi, per i ver-bi anticausativi (per lo più telici e, poiché promuovono a soggetto l’oggetto del transitivo, sempre col soggetto inattivo: S0) e fra gli inergativi, per quelli prototipici (atelici e col soggetto attivo: SA). Esistono, infatti, verbi inaccusativi che selezionano un soggetto (SA) che controlla l’evento (o rappresentabile co-me tale: it. andare, venire, ecc.: inaccusativi “alti” nella gerarchia con valenza interlinguistica di Sorace 2000, sscr. gáchati ‘andare / venire / arrivare’ ecc.) che formano causativi indiretti o prossimi ai causati-vi indiretti (sscr.gāmáyati/gamáyati ‘far andare’). Di contro, verbi inaccusativi il cui soggetto di solito non controlla l’evento formano il causativo diretto (o prossimo al causativo diretto) anche se privi di un al-9 Sulla nozione di causazione esterna e causazione interna che, nei verbi intransitivi, corrisponde largamente all’opposizione fra inaccusativi e inergativi cfr. Levin & Rappaport (1995). È appena il caso di ricordare che gli anticausativi sono gli intran-sitivi corrispondenti ai ‘transitivi fattitivi’ di Thieme. 10 Come mostrano gamáyati e sādáyati citati qui sotto; per un confronto interlinguistico v. Rice (2000). 11 Nonce form secondo Jamison (1983: 79). 12 Il perfetto del verbo semplice ha valore causativo: in questo caso il perfetto è sinonimo del derivato in -áya-; Kümmel 2000: 431. 13 Sulla quantità della vocale di jaráyati cfr. Jamison (1983: 127).

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ternante transitivo (pádyate ‘cadere’: pādáyati ‘abbattere, far cadere’ ecc.)14. Per quanto riguarda gli iner-gativi, in vedico non trovo esempi di verbi con lo stesso profilo semantico dell’it. dondolare, che formi-no l’alternanza causativa: Tizio dondola l’altalena / l’altalena dondola e il cui causativo morfologico (peri-frastico in italiano), se fondato sull’alternante intransitivo, sia, nella sua interpretazione prototipica, un causativo diretto sinonimo del transitivo: Tizio fa dondolare l’altalena = Tizio dondola l’altalena. Si noterà, per altro, che, come mostra il test con ‘da sé’/ ‘da solo’, dondolare è un verbo a causazione esterna come gli inaccusativi, ma è atelico come gli inergativi. Le proprietà che caratterizzano le due categorie di verbi intransitivi non sembrano, dunque, distribuite in modo uniforme in tutti i costituenti: si è appena visto, per es., che verbi inaccusativi di movimento direzionale che denotano un mutamento telico di luogo come andare, venire ecc., provvisti, come gli inergativi prototipici, di un soggetto che controlla l’evento, privi, come gli inergativi, di un alternante transitivo, ma tali che possono concettualizzarsi come causati esternamente come gli inaccusativi o internamente come gli inergativi (Levin & Rappaport Hovav 1995: 298: “the meaning of these verbs seems to leave open whether they are to be understood as denoting internally or externally caused eventualities”; cfr. l’it. andare da solo = ‘in solitudine, senza essere ac-compagnato da nessuno’ ma anche ‘senza essere stato mandato da qcn.’) formano, anche in vedico, il causativo indiretto.15 Insomma, c’è da chiedersi se i parametri che configurano la cosiddetta ‘intransitività scissa’ nel gradiente che va dagli inaccusativi agli inergativi bastino da soli a configurare anche il gradiente che va dai causativi diretti ai causativi indiretti; perché se non bastano, allora la correlazione dei causativi con le categorie dell’intransitività scissa potrebbe essere epifenomenica; il parametro dell’azionalità, per es., potrebbe essere sottoordinato al carattere interno o esterno della causazione e alla rappresentazione del causato come capace di controllo sull’evento. Della complessità delle categorie scalari e della difficoltà di rappresentarle come strutture lineari, si è parlato altrove (Lazzeroni 2012). 4. Riassunto e conclusioni La distribuzione delle forme in -áya- nel lessico verbale del RV e dell’AV non è uniforme né per le basi da cui queste sono derivate né per il valore semantico che esse assumono. – I verbi ‘di crescita di entropia’ che formano l’alternanza causativa in cui i causativi, caratterizzati

dall’infisso nasale, sono altamente telici e transitivi e gli anticausativi sono altamente inaccusativi, non ammettono varianti in -áya – probabilmente perché queste sarebbero state interpretate come causativi indiretti su base transitiva (far rompere = ‘ordinare a qlc. di rompere’) mentre il vedico non consente la formazione di causativi indiretti dai verbi transitivi;

– I verbi, compresi quelli caratterizzati dall’infisso nasale, che formano alternanze causative in cui i cau-sativi occupano posizioni basse nelle scale di transitività e telicità e gli anticausativi posizioni altrettan-to basse nella scala di inaccusatività, ammettono varianti in -áya- derivate dalla base anticausativa. Queste per lo più sono sinonimi o quasi sinonimi del causativo diretto (come in italiano: far riscaldare = ‘riscaldare’).

– I verbi inaccusativi privi di un alternante lessicale transitivo (gáchati ‘andare / arrivare / venire’; pá-dyate ‘cadere’ ecc.) formano il causativo morfologico indiretto (gāmáyati/gamáyati ‘far andare / arriva-

14 In RV, II, 11, 10 pādáyati è un causativo diretto: ní māyíno dānavásya māyā ÁPĀDAYAT papivān sutásya ‘(Indra), bevuto il Soma, ABBATTÉ gli incantesimi dell’incantatore Dānava’. In alcuni casi la mancanza, in vedico come altrove, di un alternante transitivo (esempi italiani in Folli 1999) sembra una restrizione idiosincratica: a proposito di cadere Sorace (2000: 873 n.22) cita il caso del francese tomber che, come altri verbi intransitivi nella madrepatria, è usato anche transitivamente nel francese del Canada. 15 Perciò i verbi telici di movimento direzionale come andare, venire, arrivare occuperebbero – contrariamente alla tesi di So-race 2000 – un posto periferico nella gerarchia di inaccusatività; ciò sarebbe confermato anche dalla selezione degli ausiliari (e dal sincretismo in favore di BE) in alcuni dialetti campani dove “verbs denoting telic change of location appear to be more peripheral and rank lower than verbs denoting continuation of a state, which are more resistant historically to the change involving the spread of HAVE […]. On the other hand, verbs denoting definite change of state appear to be affect-ed earlier than telic change of location verbs by the opposite phenomenon, whereby BE gains ground over HAVE” (Cen-namo 2008: 136); ma di ciò altrove.

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re’, ecc.) se il soggetto causato è rappresentato come attivo (actor), diretto (meglio: situato in una po-sizione vicina o uguale a quella del causativo diretto nel continuum che si dispiega fra i due prototipi) se il soggetto è rappresentato come inattivo (undergoer).

– Le categorie verbali caratterizzate dall’infisso nasale sono categorie recessive (Joachim 1978: 63), “moribonde” secondo una definizione di Jamison (1983). Se è vero che nella formazione del causati-vo morfologico gli intransitivi inagentivi precedono gli intransitivi agentivi (e perciò, di conseguenza, gli inaccusativi precedono gli inergativi), allora, in una fase preistorica del vedico i derivati in *-éye- saranno sorti come sostituti delle categorie in nasale recessive nei loro valori non prototipici e avran-no assunto il valore di causativi indiretti quando il suffisso è passato dai verbi inagentivi ai verbi agentivi, in primo luogo agli inergativi. Se così è, la resistenza dei verbi ‘di crescita di entropia’ alle formazioni in *-éye- sarà dovuta anche al fatto che questi verbi rappresentano il prototipo delle classi in nasale e che, nelle categorie recessive, gli ultimi a cedere sono i prototipi. Il processo di sostituzio-ne delle forme in nasale con forme derivate in *-éye- forse è indoeuropeo e sicuramente è indoirani-co: in un gruppo di verbi avestici “le présent en -aiia- semble un substitut du présent à infixe nasal” (Kellens 1984: 39).

– Sulla questione se il valore originario del suffisso *-éye- nel vedico fosse quello di rendere causativo o semplicemente transitivo il verbo a cui si appende S. Jamison (1983: 178 ss.) ha scritto pagine illumi-nanti propendendo, se ho bene inteso, per la tesi della transitività. C’è solo da aggiungere che transiti-vità e causatività non sono nozioni omogenee: non tutti i verbi transitivi sono causativi, ma tutti i causativi sono transitivi; causativo è iponimo di transitivo. Dalle argomentazioni di Jamison e da quanto si è detto fin qui sembra di poter concludere che in vedico -áya- è un suffisso transitivizzante il cui valore di causativo (e in particolare di causativo indiretto) è epifenomeno della semantica verba-le.

– Le lingue vive documentano diverse sfumature semantiche (distanza fra l’evento causante e l’evento causato; carattere ‘sociativo’ dell’evento causante ecc.; Shibatani & Pardeshi 2001) che, non necessa-riamente e non sempre, caratterizzano il causativo morfologico o perifrastico non prototipico diffe-renziandolo dal causativo lessicale. Cogliere queste sfumature nel vedico non sembra possibile: “to find a difference in these cases would seem to us like hearing the grass grow” (Bloomfield & Edger-ton 1930: 153).

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Composti V+N e genere grammaticale in romeno

Michele Loporcaro

Abstract

The paper addresses the long-standing issue of the number of values of the morphosyntactic category gender in Romanian, and argues in favour of a three-gender analysis. This is done capitalizing on one domain of empirical evidence, that of V+N compounds. These compound nouns select the kind of alternating gender agreement (masculine singular/feminine plural) which characterizes the neuter gender under three-gender analyses. The fact that these nouns do not show the inflections (notably, plural -e and -uri) of the productive noun inflection classes to which neuter nouns are otherwise assigned shows the productivity of the neuter (i.e., of the corresponding agreement class per se) and is hence used as an argument against two-gender analyses that deny the existence of the neuter gender and reduce the alternating agreement selected by what is labelled traditionally as neuter nouns to an automatic consequence of the inflectional morphology of the relevant nouns.

KEYWORDS: Grammatical gender • noun inflection • productivity • compounds

Grossmann (2012: 155s.), nel quadro di uno studio di riferimento sulla composizione nel romeno, ha attirato l’attenzione fra l’altro sulle formazioni recenti esemplificate in (1): (1) împinge-tavă ‘ristorante self-service’ (letter. ‘spingi-vassoio’): sing. un împinge-tavă ‘un.M ristorante self-service’, plur. două împinge-tavă ‘due.F ristoranti self-

service’ portchei ‘portachiavi’ (port- < fr. port(er) ‘portare’): sing. un portchei ‘un.M portachiavi’, plur. două portchei ‘due.F portachiavi’ parascântei ‘parascintille’ (< fr. para- ← parer ‘fermare, prevenire’): sing. un parascântei ‘un.M parascintille’, plur. două parascântei ‘due.F parascintille’ Si tratta di composti esocentrici verbo-nominali, possibili in romeno contemporaneo benché la composizione V+N vi sia meno diffusa e pervasiva che non in altre lingue romanze quali l’italiano o il francese.

I composti in (1) dal punto di vista della flessione sono invariabili, non diversamente da ad es. it. il/i parapioggia, il/i paraspruzzi, mentre dal punto di vista morfosintattico selezionano accordo maschile al singolare (un in (1)) e femminile al plurale (două). Stante questo comportamento morfosintattico, essi vengono assegnati al terzo genere che la tradizione grammaticale romena individua, il neutro. Quest’ultimo, come si mostra in (2b), è appunto definito da un simile schema di accordo, tale da determinare un pieno sincretismo (coi nomi maschili al singolare e coi femminili al plurale) ma comunque da configurare, per i lessemi ad esso attribuiti, un comportamento in globo diverso da quello tanto dei maschili ((2a)) quanto dei femminili ((2c)) (comportamento esemplificato in (2) con l’accordo in genere e numero dell’articolo determinativo, encl*tico in romeno, e dell’aggettivo di I classe bun):

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(2) SINGOLARE PLURALE a. pantof-ul e bun pantofi-i sunt bun-i MASCHILE ‘la scarpa è buona’ ‘le scarpe sono buone’ b. vin-ul e bun vinuri-le sunt bun-e NEUTRO ‘il vino è buono’ ‘i vini sono buoni’ c. băutur-a e bun-ă băuturi-le sunt bun-e FEMMINILE ‘la bevanda è buona’ ‘le bevande sono buone’

Se i generi grammaticali si definiscono come “classes of nouns reflected in the behavior of associated words” (così Corbett 1991: 1, citando Hockett 1958: 231; laddove il comportamento in questione è quello ai fini dell’accordo), è chiaro che i lessemi esemplificati con vin in (2b) costituiscono, appunto, una terza classe distinta da maschile e femminile, una classe di accordo tuttora produttiva perché a più d’una delle classi flessive del nome ad essa associate continuano oggi ad essere attribuiti nuovi lessemi, siano essi affluiti in romeno come prestiti (v. oltre in (3) e (7)) o si tratti invece di neoformazioni, come appunto i composti in (1), il cui comportamento sintattico è ivi esemplificato col test “uno/due”, usato popolarmente dai parlanti per determinare il genere.

Con la grammatica romena tradizionale – ad es. “În limba română substantivul are trei genuri” (Graur et al. 1963: 57); o ancora: “Substantivele românesti se încadrează la trei genuri: masculin (dacă la singular se poate număra un, iar la plural doi), feminin (singular o, plural două) si neutru (singular un, plural două)” (Bejan 20013: 34), dove si veda, appunto, la diagnostica “uno/due”, che in (1) si è applicata ai composti V+N – si schiera la maggior parte degli studi, recenti e meno, in linguistica romanza e generale che hanno toccato il tema. Pochi nomi, a titolo puramente esemplificativo, in (3a). Conta tuttavia numerosi sostenitori anche la posizione alternativa (alcuni nomi in (3b)), che nega l’esistenza del neutro e analizza il sistema del genere grammaticale in romeno come articolato su di un’opposizione binaria maschile ≠ femminile:1

(3) a. il romeno ha tre generi: Graur (1928), Graur et al. (1963: 1.57), Bonfante (1964), (1977),

Diaconescu (1964a-b), (1969), Jakobson (1971: 187–189), Windisch (1973: 202), Corbett (1991: 150–153), Chitoran (1992), Carstairs-McCarthy (1994: 750–752), Aikhenvald (2000: 45–46), Acquaviva (2008: 135–140), Livescu (2008: 2647), Kibort (2010: 73), Nedelcu (2013b), ecc.2

b. il romeno ha due generi: Bazell (1952; 1953), Bujor (1955: 59), Hor ejši (1957), Hall (1965), Vrabie (1989: 400), Kopecký (2005), Croitor & Giurgea (2009), Bateman & Polinsky (2010), Giurgea (2010), (2014), Maiden (2011: 701, n. 36; 2013; 2015a-b; 2016), Dinu et al. (2012).

Fra questi ultimi, in numerosi suoi lavori, Martin Maiden, secondo cui un terzo genere per il romeno non andrebbe postulato in quanto il comportamento morfosintattico dei neutri – anzi, ‘neutri’ fra virgolette (“[t]he term ‘neuter’ […] is a superfluous misnomer for a set of nouns whose alternating masculine and feminine gender is a consequence of their morphology”, Maiden 2016: 102), secondo un uso non raro fra i sostenitori della tesi (3b)3 – sarebbe, secondo Maiden (2015a: 6), affatto riducibile a fatti di morfologia (flessiva):

1 Discorro altrove di questa posizione, che ha il difetto principale di considerar dirimente per la negazione dell’esistenza del neutro la mancanza di marche d’accordo sue specifiche, adottando così un’ottica “antisaussuriana” e disconoscendo, implicitamente o esplicitamente, lo statuto di valori della categoria di genere a quelli che Hockett (1958: 230) definisce “generi selettivi”, Corbett (1991: 152) “generi del controllore”, Corbett (2011: 459s.) valori non autonomi del tratto di genere. 2 Anche nel lavoro di Grossmann (2012: 156) da cui abbiamo preso l’avvio si parla di “neuter gender assignment” a proposito dei composti come împinge-tavă, e la tradizionale analisi a tre generi è presupposta anche nella recente panoramica sulla formazione delle parole in romeno di Grossmann (2016). 3 V. ad es. l’aşa-zise ‘cosiddette’ [parole neutre] nel titolo di Hor ejši (1957).

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(4) My position is that the nouns showing genus alternans [ossia i neutri–M.L.] are not a class defined by the

agreement behaviour of associated words, but a class the agreement behaviour of whose associated words is dictated by inflexional morphology4. (Maiden 2015a: 6)

Nel rimandare ad altra sede una discussione più dettagliata di questa posizione, mi limito qui a tematizzarne l’intersezione col dato osservativo da cui abbiamo preso avvio: l’esistenza di composti come quelli in (1). Li menziona Maiden (2015a: §6.4), e con essi menziona i sostantivi come mango, kiwi, cappuccino o tiramisu – prestiti non adattati, affluiti di recente – che anch’essi selezionano accordo alternante, ovvero sono assegnati al genere neutro:

(5) un mango/kiwi/cappuccino/tiramisu ‘un.M mango/kiwi/cappuccino/tiramisù’ două mango/kiwi/cappuccino/tiramisu ‘due.F manghi/kiwi/cappuccini/tiramisù’

La mancata integrazione si traduce nell’assenza di morfologia flessiva, a differenza dei moltissimi prestiti integrati, designanti oggetti inanimati, affluiti durante l’intera storia del romeno e anch’essi assegnati al neutro: (6) a. praf, prafuri ‘polvere’ < slavo prachu

dulap, dulapuri ‘armadio’ < turco dolab chimono, chimonouri ‘kimono’ < giapponese kimono cartel, carteluri ‘cartello/pool’ < francese cartel b. folos, foloase ‘utilità’ < greco bizantino (o)phelós pahar, pahare ‘bicchiere’ < ungherese pohár/serbo-croato pehar bilet, bilete ‘biglietto’ < francese billet tramvai, tramvaie ‘tram’ < francese < inglese tramway

Maiden (2015a: 1) minimizza la rilevanza del comportamento sintattico – dal punto di vista dell’accordo – dei composti in (1) e dei prestiti non integrati in (5) per l’analisi della morfosintassi romena, sostenendo che tali dati mostrerebbero soltanto “that a ‘third gender’ may be ‘latent’ in Romanian, and how it might emerge one day”.

Pur venendo da uno dei massimi esperti di romeno oggi sulla scena, questa conclusione può esser contestata. Vi sono più modi per accertare la consistenza e la produttività di un genere grammaticale entro un dato sistema. Uno di questi, su cui ha attirato l’attenzione ad es. Gardani (2013), è l’essere associato a classi flessive produttive. Il che è senz’altro vero del neutro romeno, che (nelle due classi -Ø/-e e -Ø/-uri) ha accolto neologismi e prestiti per tutta la storia documentata del daco-romanzo (come sopra esemplificato in (6)) ed ancora oggi ne accoglie ((7a)), purché essi denotino entità inanimate (cf. Nedelcu 2013a: 256; 2013b: 276; beninteso, la condizione è necessaria ma non sufficiente, come mostra la doppia possibilità per il ‘mouse’ [= comando mobile del computer] in (7b))5:

4 Osserva giustamente uno dei revisori anonimi che questo assunto “viola l’assioma della morphology-free syntax” (cf. ad es. Corbett 2006: 184; 2009, con riferimento a Zwicky 1996: 301). Casi di violazioni sono stati proposti e richiedono attento esame (v. Corbett 2009 per la confutazione di un esempio addotto per il serbo-croato e Loporcaro 2010: 167-171, 2015: 119-123 per esempi da alcuni dialetti calabresi settentrionali, sinora non rianalizzati altrimenti): quel che non pare legittimo è assumere tali deviazioni dalla norma generale senza di ciò dare esplicita motivazione e in presenza – come qui argomentato – di un’analisi alternativa che non postula alcuna violazione dell’assioma. Ma come detto subito di seguito a testo, in questa sede non si approfondiscono le ulteriori implicazioni delle contrapposte analisi del genere romeno (v. Loporcaro, in preparazione, §4.4.1). 5 Perché si abbia l’opzione fra assegnazione al maschile o al neutro la voce di prestito deve terminare in consonante.

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(7) a. walkman, -e; weekend, -uri b. maus, mausuri (N) o maus, mauşi (M)

Gli esempi in (6)-(7) – in cui produttività di classe flessiva e produttività della classe di accordo (di genere) vanno a braccetto – sono compatibili con la posizione di Maiden, che osserva come il singolare (con uscita in consonante) sia comune ai neutri (già sopra esemplificati) ed ai maschili ((8a)), mentre i plurali in -e ed -uri si trovano, il primo frequentissimamente, il secondo in pochi lessemi, come plurali di nomi femminili ((8b-c)) ma non di nomi maschili:

(8) a. lup,-i ‘lupo(M),-i’, băiat, băieţi ‘ragazzo(M),-i’, om, oameni ‘uomo(M), uomini’ b. capră,-e ‘capra(F),-e’, casă,-e ‘casa(F),-e’, fustă,-e ‘gonna(F),-e’, studentă,-e ‘studentessa(F),-e’ c. cerneală, cerneluri ‘inchiostro(F),-i’, brânză, brânzeturi ‘formaggio(F),-i’

Così non è invece per i composti in (1) e i prestiti non integrati in (5): i parlanti li assegnano infatti a quello che solo l’analisi in (3a) può qualificare come genere neutro, e solo una tale assegnazione può render conto del loro comportamento morfosintattico, il quale invece in base all’analisi (3b) risulterebbe inspiegabile. È in particolare l’idea ((4)) che la morfologia flessiva permetta di spiegare esaurientemente l’accordo alternante dei neutri ad essere crucialmente smentita dai dati in (1) e (5). Benché infatti il romeno sia, indubbiamente, la lingua romanza che presenta il maggior tasso di predicibilità del genere grammaticale a partire dalla flessione del nome, gli invariabili esulano ovviamente da tali rapporti implicativi. Il romeno ha oggi infatti nomi privi di flessione sui quali purtuttavia i parlanti hanno intuizioni circa il genere cui vanno assegnati. Si consideri ad esempio il caso dell’onomatopea bum. Questa è registrata come tale nel Dizionario dell’accademia (DEX 1998 s.v. e edizioni successive)6:

“BUM interj. Cuvânt care imită zgomotul produs de o detunătură de armă, de o lovitură înfundată sau de o cădere. – Onomatopee” [‘parola che imita il rumore prodotto da una detonazione di arma, da un botto sordo o da una caduta. – Onomatopea’].

Non sono rilevanti per noi i due sostantivi omofoni pure registrati dal DEX: “BUM1 s.n. (Mar.) Ghiu. [< engl. boom]” [‘bum1 s.n. albero della nave, dall’ingl. boom] e “BUM2 s.n. v. boom”, variante grafica adattata di “BOOM, boomuri, s.n. Denumire dată perioadei de avânt economic” ecc. [‘denominazione attribuita a un periodo di progresso economico’ ecc.]. Rilevante invece il fatto che la categorizzazione in termini di parte del discorso per il primo bum che abbiamo citato sia solo “interiezione”7. Benché l’origine onomatopeica sia palese, questa caratterizzazione non pare per il romeno odierno esauriente, in quanto bum sembra aver sviluppato almeno per alcuni parlanti uno stabile uso sostantivale: dunque, non solo ‘parola che imita il rumore prodotto da una detonazione’ bensì anche ‘detonazione, botto, esplosione’ tout court. Come tale, può essere assoggettata a flessione. Circa quest’ultima, così come circa l’accordo di genere richiesto da bum in quest’uso sostantivale, i singoli parlanti hanno intuizioni nette, benché tra loro divergenti:

(9) a. am auzit um bum puternic ‘ho sentito un.M forte botto’

b. am auzit două bumuri puternice ‘ho sentito due.F forti botti’ c. am auzit doi bum puternici ‘ho sentito due.M forti botti’

Come già detto a proposito di (7b), i parlanti oscillano nell’assegnazione del genere a nomi uscenti in consonante designanti oggetto inanimato (o entità astratta), il che emerge anche in questo caso. Alcuni integrano bum, pluralizzandolo in bumuri ((9b)) e così annettendolo alla classe flessiva vista in (6a), tuttora produttiva e implicante accordo alternante (două bumuri). Un tale comportamento è compatibile con l’assunto di Maiden in (4). Con esso incompatibile è invece il comportamento degli altri parlanti

6 Consultabili comparativamente in rete: https://dexonline.ro/definitie/bum (accesso il 9.9.2016). 7 All’idea che bum sia una non-parola nel romeno contemporaneo aderisce Corbett (2006: 149).

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che assegnano bum al maschile ((9c)), come mostra l’accordo, lasciandolo formalmente invariato al plurale: doi bum. Un parlante che dica dunque da un lato doi bum ((9c)) e dall’altro două portchei ‘due.F portachiavi’ ((1)), compiendo scelte diverse nelle quali non vi è alcuna morfologia flessiva affissale a guidarlo, deve possedere regole interiorizzate di assegnazione del genere grammaticale le quali non possono che contemplare anche il neutro, accanto al maschile e al femminile, come valore della categoria morfosintattica in questione.

Ringraziamenti Ringrazio Maria Grossmann (consultata, ovviamente, senza specificar lo scopo delle domande), Maria Iliescu, Dumitru Kihai e alcuni altri amici romenofoni che mi hanno aiutato coi loro giudizi di accettabilità, nonché due giudici anonimi per le osservazioni ad una prima versione dello scritto. Riferimenti bibliografici Acquaviva, Paolo. 2008. Lexical Plurals. Oxford: Oxford University Press. Aikhenvald, Alexandra. 2000. Classifiers: A Typology of Noun Categorization Devices. Oxford: OUP. Bateman, Nicoleta & Polinsky, Maria. 2010. Romanian as a two-gender language. In Gerdts, Donna & Moore,

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Polirematiche ‘di colore’ in italiano: uno studio quantitativo

Francesca Masini Abstract This paper investigates the presence and use of basic color terms within Italian multiword expressions, in particular phrasal lexemes (e.g. libro bianco ‘white book’, vedere nero ‘be pessimistic’). The starting hypothesis is that most frequent color terms, especially those that are ranked higher in Berlin & Kay’s (1969) implicational hierarchy, are more widely used within multiword units. In order to test the hypothesis, data from the largest dictionary available for the Italian language are gathered, together with semi-automatically collected data from corpora, which considerably enrich the sample. The hypothesis is confirmed: more frequent, ‘higher-ranked’ color terms (viz. bianco ‘white’, nero ‘black’, rosso ‘red’) are found in a larger set of phrasal lexemes as compared to less frequent color terms. KEYWORDS: color terms • frequency • implicational hierarchy • Italian • multiword expressions • phrasal lexemes 1. Introduzione In questo articolo esporrò alcuni dati quantitativi relativi alla presenza dei termini di colore nelle poli-rematiche italiane, nella speranza che la scelta dell’argomento non risulti troppo ardita, ma anzi gradita alla festeggiata, Maria Grossmann, vista la sua nota predilezione per gli studi sul lessico dei colori (cfr., su tutti, Grossmann 1988). Con il termine ‘polirematiche’ (De Mauro 1999, Voghera 2004, Masini 2011) mi riferisco a ele-menti lessicali complessi, formati da più di una parola e appartenenti a diverse parti del discorso, che presentano un certo grado di fissità interna (sintagmatica e paradigmatica) e un significato unitario e convenzionalizzato (es. bandiera bianca, libro nero, filo rosso, casco blu, telefono azzurro, carta verde, pagine gialle, materia grigia, maglia rosa). Verranno prese in considerazione anche espressioni che possono essere (o so-no state) considerate composti (es. Croce rossa, verde bottiglia, blu elettrico). Lo scopo di questo studio è mostrare come i termini di colore siano impiegati nelle parole poli-rematiche della lingua italiana. L’ipotesi di partenza è che i termini più frequenti siano quelli più utilizza-ti all’interno di questi lessemi complessi. Secondo Voghera (2004: 66), infatti, l’alta frequenza di un les-sema favorirebbe la sua occorrenza all’interno di formazioni polirematiche, perché i lessemi molto fre-quenti sono solitamente polisemici e più vaghi di quelli meno frequenti, e possono quindi comparire in più contesti. Sebbene Voghera qui parli di verbi, il ragionamento può essere esteso anche ad altre parti del discorso. Allo stesso tempo, ci aspettiamo che i termini più usati all’interno delle polirematiche sia-no quelli che si trovano più in alto (o a sinistra) nella nota scala implicazionale di Berlin & Kay (1969), che contiene gli 11 termini di colore considerati ‘di base’ a livello interlinguistico. L’articolo è strutturato come segue. Nel § 2 descriverò la metodologia e le risorse utilizzate nello studio. Il § 3 illustrerà invece i risultati dell’analisi. Nel § 4 trarrò alcune conclusioni. 2. Metodologia La base di dati di partenza per questo studio è costituita dall’elenco dei 12 termini di colore in (1), i qua-li corrispondono agli 11 termini basici della scala implicazionale di Berlin & Kay (1969: 4), riportata in (2). L’unità in più (12 vs. 11) è dovuta al fatto che blue può corrispondere, in italiano, a due termini di colore entrambi considerati basici, ovvero blu e azzurro (Grossmann & D’Achille 2016).

(1) bianco, nero, rosso, verde, giallo, blu, azzurro, marrone, viola, rosa, arancione, grigio

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(2) white | black > red > green | yellow > blue > brown > purple | pink | orange | grey L’uso di questi termini nelle polirematiche italiane è stato investigato utilizzando le seguenti risorse:

• il Nuovo De Mauro (d’ora in poi NDM), che, oltre ad essere liberamente disponibile online1, lemmatizza le polirematiche;

• il corpus di italiano giornalistico la Repubblica (d’ora in poi laR), che contiene 16 annate dell’omonimo quotidiano per un totale di (circa) 380 milioni di token (Baroni et al. 2004)2;

• i dati, estratti automaticamente dal corpus laR, elaborati all’interno del progetto CombiNet sulle combinazioni di parole in italiano.3

Innanzitutto, ho estratto dal NDM tutte le polirematiche relative ai 12 lemmi elencati in (1) (cfr. § 3.1), tenendo traccia della loro marca d’uso, in particolare della marca TS, che indentifica i termini “legati a un uso marcatamente o esclusivamente tecnico-specialistico”, noti “soprattutto in rapporto a particolari attività, tecnologie, scienze” (De Mauro 2005: 60). Trattandosi di una risorsa internet, preciso che l’estrazione dei dati è avvenuta nel corso del mese di luglio 2016. Successivamente, ho calcolato la fre-quenza complessiva degli stessi 12 lemmi nel corpus laR (cfr. § 3.2), per poi passare ai dati CombiNet (cfr. § 3.3). Questi ultimi consistono in liste di combinazioni di parole estratte automaticamente da cor-pora, utilizzando tecniche diverse, e ordinate tramite misure di associazione statistica (ma è disponibile anche il dato di frequenza). In particolare, i dati su cui mi sono basata per questo studio sono stati estratti dal corpus laR tramite una tecnica basata su sequenze lineari di parti del discorso (POS). Le se-quenze POS utilizzate all’interno del progetto CombiNet sono 122 e corrispondono a combinazioni, fino a 5 elementi, di struttura diversa. Si vedano, ad esempio, le sequenze POS illustrate in (3).4

(3) a. N + PREP + N + AGG (→ contratto a tempo determinato) b. V + ARTDET + N (→ alzare il gomito) c. AGG + PREP + N (→ nuovo di zecca) d. PREP + N + AGG (→ di umore nero)

Tali sequenze sono state immesse nel software EXTra (Passaro & Lenci 2016), che ha estratto tutte le combinazioni corrispondenti ai 122 pattern con frequenza <5, ordinandole poi per associazione stati-stica; la misura di associazione statistica utilizzata è la Log Likelihood (il calcolo è effettuato sui lemmi, non sulle forme). L’estrazione è stata effettuata su 4 tornate, suddividendo le sequenze POS in 4 gruppi, ovvero sequenze POS che identificano: i) sintagmi nominali e aggettivali; ii) sintagmi verbali; iii) sin-tagmi preposizionali; iv) e infine sequenze miste/residuali.5 Le liste di stringhe estratte da EXTra sono ovviamente liste di ‘candidati’, in cui troveremo sia combinazioni di parole che corrispondono a polirematiche (o a collocazioni), sia combinazioni sempli-cemente molto frequenti che però non costituiscono espressioni fisse. I dati così estratti, quindi, richie-dono uno spoglio manuale. Per questo specifico studio, ho estratto, dalla base di dati EXTra appena descritta, tutte le strin-ghe contenenti uno qualsiasi dei 12 lemmi di colore elencati in (1). I dati così ottenuti sono stati incro-ciati con quelli del NDM, per verificare quali polirematiche registrate nel NDM siano ricavabili tramite 1 URL: http://dizionario.internazionale.it. 2 Lo studio si basa su una versione del corpus la Repubblica etichettata per parti del discorso tramite la procedura descritta in Dell’Orletta (2009) e annotata sintatticamente tramite DeSR (Attardi & Dell’Orletta 2009). Si tratta dunque di una versione non identica a quella disponibile all’indirizzo http://sslmit.unibo.it/repubblica. 3 Progetto PRIN 2010-2011 n. 20105B3HE8 (Combinazioni di parole in italiano: analisi teorica e descrittiva, modelli computazionali, studio di un layout lessicografico dedicato e realizzazione di un dizionario di combinazioni) finanziato dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca e diretto da Raffaele Simone e Alessandro Lenci. URL: http://combinet.humnet.unipi.it. 4 Lista delle abbreviazioni: AGG = aggettivo; ARTDET = articolo determinativo; AVV = avverbio; N = nome; PREP = preposizione; V = verbo. 5 Per maggiori dettagli sulle tecniche di estrazione dei dati all’interno di CombiNet si vedano i contributi di Castagnoli et al. (2016) e Lenci et al. (2017).

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tecniche di estrazione semi-automatica. Allo stesso tempo, ho effettuato un primo, preliminare spoglio manuale delle liste ottenute da EXTra, allo scopo di verificare se siano presenti combinazioni non regi-strate nel NDM (cfr. § 3.3). 3. Dati 3.1 Le polirematiche ‘di colore’ nel Nuovo De Mauro Come già accennato, nel NDM online le polirematiche sono lemmatizzate (più precisamente, sono regi-strate come sottolemmi dei lemmi monorematici in esse contenuti), e quindi facilmente recuperabili. In coda alla voce per il lemma verde, quindi, troveremo una sezione ‘polirematiche’ in cui figurano tutte le polirematiche in cui compare verde, ad esempio bollino verde, al verde, verde bottiglia. Quest’ultima espressio-ne sarà a sua volta contenuta, come sottolemma polirematico, anche nell’entrata bottiglia. I dati ottenuti dallo spoglio del NDM sono riassunti nella Tabella 1 (l’elenco complessivo è riportato in Appendice).

TABELLA 1. Polirematiche contenenti termini di colore nel Nuovo De Mauro. COLORE N° POLIREMATICHE

NEL NDM N° POLIREMATICHE MARCATE COME TS

POSIZIONE RISPETTO A BERLIN/KAY

bianco 131 67 (51,14%) = nero 91 41 (45,05%) = rosso 75 52 (69,33%) = verde 44 17 (38,63%) = giallo 29 16 (55,17%) = azzurro 19 13 (68,42%) = grigio 18 13 (72,22%) ↑ blu 14 5 (35,71%) ↓ rosa 11 4 (36,36%) ↑ marrone 0 - ↓ arancione 0 - = viola 0 - =

Come possiamo vedere, la prima colonna contiene i termini di colore, ordinati per numero di polirema-tiche registrate nel NDM (colonna 2); la terza colonna mostra invece il numero assoluto e la percentua-le (piuttosto elevata) di polirematiche marcate come TS. Come si può notare, i colori che presentano il numero maggiore di polirematiche sono bianco, nero e rosso, seguiti da verde e giallo e poi da azzurro, grigio, blu e rosa. Non ci sono polirematiche relative a marrone, arancione e viola. Come evidenziato nell’ultima co-lonna a destra, quest’ordine è pressoché corrispondente alla scala implicazionale di Berlin & Kay (1969), salvo la parte medio-bassa, in cui notiamo qualche avvicendamento (es. grigio è più ‘alto’ di blu, rosa è più ‘alto’ di marrone). Per quanto riguarda la posizione relativa di grigio e blu, va ricordato che blu è solo uno dei due termini che si riferiscono a blue in italiano: se lo sommiamo ad azzurro, il numero totale supera quello di grigio (ma anche quello di giallo). Le polirematiche registrate nel NDM sono quasi tutte di natura nominale, come mostrato nella Tabella 2 (che contiene un esempio per ogni tipo). Tutte le altre parti del discorso sono decisamente meno numerose. Vale la pena notare che, tra queste ultime, quella più rappresentata è, forse inaspetta-tamente, quella dei verbi. Inoltre, man mano che scendiamo lungo la scala dei termini di colore, trovia-mo sempre meno varietà a livello di categorie in uscita rappresentate, un altro possibile indice della maggiore combinabilità dei termini più frequenti e più basici. 3.2 Frequenza dei termini di colore nel corpus la Repubblica Per avere un’indicazione di massima dell’incidenza complessiva dei 12 termini di colore oggetto della presente analisi sul lessico dell’italiano (indipendentemente dalla loro occorrenza nelle polirematiche), ho estratto le frequenze complessive di tali termini all’interno del corpus laR. Il computo è stato effet-tuato per lemma e senza restrizioni in termini di POS (nome vs. aggettivo); preciso che si tratta di dati

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grezzi, non sottoposti a controllo manuale, pertanto è possibile che si presentino delle anomalie (cfr. infra). I dati sono riportati nella Tabella 3. Anche in questo caso, notiamo come l’ordine dei termini di colore per frequenza ricalchi grosso modo la scala implicazionale di Berlin & Kay, specialmente nella parte alta. Nella parte centrale osser-viamo qualche cambio di posizione, che però potrebbe essere riconducibile alla natura, poco controlla-ta, dei dati. La posizione ‘alta’ di azzurro, per esempio, potrebbe essere dovuta all’alta frequenza (a mag-gior ragione in un corpus giornalistico) della forma azzurri nell’accezione di ‘italiani’ (es. atleti azzurri, gli azzurri, ecc.).

TABELLA 2. Polirematiche ‘di colore’ e classi di parole nel Nuovo De Mauro. COLORE N V N|AGG AGG AGG|AVV AVV TOTALI bianco 116

sciopero bianco

7 firmare in

bianco

1 russo bianco

3 in bianco e nero

2 in bianco

2 a pane bianco

131

nero 83 buco nero

4 fare nero

1 nero fumo

2 di umore nero

1 in nero

- 91

rosso 70 brigate rosse

1 vedere rosso

1 pelle rossa

2 a luci rosse

1 in rosso

- 75

verde 37 onda verde

1 vedere i sorci

verdi

4 verde acido

- 1 al verde

1 in verde

44

giallo 28 cartellino

giallo

- - - - 1 in guanti

gialli

29

azzurro 19 pesce az-

zurro

- - - - - 19

grigio 18 materia grigia

- - - - - 18

blu 13 casco blu

- 1 blu elettrico

- - - 14

rosa 10 salsa rosa

1 vedere rosa

- - - - 11

TOTALE 394 14 8 7 5 4 432

TABELLA 3. Dati di frequenza (grezzi) per i 12 lemmi di colore nel corpus laR. COLORE FREQUENZA TOTALE

NEL CORPUS laR POSIZIONE RISPETTO A

BERLIN/KAY nero 72358 = bianco 52163 = rosso 45122 = verde 34982 = azzurro 26198 ↑ giallo 21960 ↓ blu 15580 = rosa 14407 ↑ grigio 12184 ↑ viola 5486 ↑ marrone 1280 ↓ arancione 1106 =

3.3 I dati CombiNet In quest’ultimo paragrafo discuteremo i dati CombiNet, estratti automaticamente tramite EXTra (cfr. § 2). Uno spoglio completo dei dati EXTra va al di là dello scopo di questo studio: mi limiterò qui ad illu-

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strare alcuni dati e fatti significativi, concentrandomi sui risultati ordinati più in alto nelle liste generate da EXTra (cfr. infra).

Come possiamo notare dalla Tabella 4, le stringhe totali6 estratte da EXTra variano notevol-mente a seconda del colore: abbiamo ben 1301 combinazioni per nero, ma solo 13 per arancione. Ricor-diamo che si tratta di ‘candidati’, di stringhe considerate statisticamente significative: non tutte corri-sponderanno necessariamente a polirematiche.

TABELLA 4. Dati estratti da EXTra a confronto con il Nuovo De Mauro. COLORE N° STRINGHE

ESTRATTE DA EXTRA

N° POLIREMATI-CHE NEL NDM

N° POLIREMATICHE DEL NDM ESTRATTE

ANCHE DA EXTRA

N° POLIREMATICHE DEL NDM NON ESTRATTE DA EXTRA

TOTALE MARCATE TS

nero 1301 91 62 (68,13%) 29 (31,87%) 24 (82,75%) bianco 1086 131 60 (45,80%) 71 (54,20%) 53 (74,64%) rosso 835 75 27 (36,00%) 48 (64,00%) 40 (83,33%) azzurro 365 19 6 (31,58%) 13 (68,42%) 10 (76,92%) verde 297 44 17 (38,64%) 27 (61,36%) 15 (55,55%) blu 284 14 9 (64,29%) 5 (35,72%) 4 (80,00%) giallo 230 29 12 (41,38%) 17 (58,62%) 9 (52,94%) grigio 220 18 4 (22,22%) 14 (77,78%) 13 (92,85%) viola 94 - - - - rosa 83 11 5 (45,45%) 6 (54,55%) 2 (33,33%) arancione 13 - - - - marrone 0 - - - - TOTALE 4808 432 202 (46,76%) 230 (53,24%) 170 (73,91%)

Incrociando i dati di EXTra con la lista di polirematiche registrate nel NDM, osserviamo che quasi la metà delle polirematiche del NDM è presente anche nelle liste EXTra (202 su 432). Abbiamo invece 230 polirematiche (il 53,24% del totale) che non vengono estratte da EXTra. Va tuttavia sottolineato che la stragrande maggioranza di queste (73,91%) è marcata come TS nel NDM (es. bianco di zinco TS chim., effluente nero TS idraul., trombo rosso TS med.), come illustrato nell’ultima colonna a destra della Ta-bella 4. Trattandosi di termini usati in vari ambiti tecnico-specialistici, non stupisce che non ce ne sia traccia in un corpus di italiano giornalistico come laR, o che siano talmente poco frequenti da non rien-trare nel processo di estrazione messo a punto per CombiNet. Allo stesso tempo, le liste prodotte da EXTra contengono diverse polirematiche che non sono invece presenti nel NDM. Nei paragrafi che seguono illustrerò i risultati dell’analisi delle liste relative a ciascuno dei 12 termini di colore, mettendo in evidenza le polirematiche che si collocano più in alto, ovvero quelle caratterizzate da una maggiore associazione statistica, e quelle che non sono presenti nella nostra risorsa lessicografica di riferimento. Le polirematiche sono state individuate tramite spoglio ma-nuale seguendo un criterio di coesione semantica. Non tutte le polirematiche sono caratterizzate da un significato completamente idiomatico – alcune sono decisamente opache (es. pecora nera, telefono azzurro), altre sono molto più trasparenti (es. sposarsi in bianco, pepe verde) – ma tutte hanno un significato convenzio-nalizzato, atto alla denominazione di un referente stabile.7 Nello spoglio mi sono limitata ai primi 100 risultati di EXTra per ciascuna delle 4 tornate di estrazione (cfr. nota 5, § 2), nei casi in cui, ovviamente, il numero di candidati estratti fosse >100.8 Nelle pagine che seguono chiamerò questo sottoinsieme di

6 Con ‘stringhe totali’ intendo l’unione delle 4 tornate di estrazione descritte nel § 2. 7 La convenzionalizzazione porta tipicamente con sé un surplus semantico. Un panno verde, per esempio, è effettivamente un panno di colore verde, ma non è un panno qualunque: è un panno di colore verde che si usa in un determinato contesto (quello dei giochi da tavolo). Un’espressione come sposarsi in bianco è facilmente interpretabile come ‘sposarsi con un abito bianco’, ma a ben vedere contiene molte più informazioni, come ad esempio il fatto che l’abito bianco in questione si riferi-sce unicamente alla sposa e che la cerimonia è di stampo tradizionale (il bianco simboleggerebbe la ‘purezza’ della sposa): se mi sposassi in comune dopo 15 anni di convivenza al cospetto dei soli testimoni e per l’occasione indossassi un tailleur bianco difficilmente direi che mi sono sposata in bianco. 8 In nessun caso raggiungiamo la teorica cifra di 400 candidati totali (100 per ogni tornata). Se la prima tornata – quella rela-tiva alle sequenze POS che identificano sintagmi nominali e aggettivali – genera per tutti i colori molti risultati, su cui è stato

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dati ‘campione’, per comodità. Fa eccezione, come vedremo, la ricerca di espressioni in cui il termine di colore funge da testa, che è stata effettuata sull’intero set di dati. Nel riportare gli esempi, seguirò l’ordine in cui compaiono nelle liste EXTra, partendo quindi dal più statisticamente significativo (che non necessariamente coincide con il più frequente). 3.3.1 Nero All’interno delle liste EXTra per nero troviamo 62 delle 91 polirematiche registrate nel NDM. Circa un terzo di queste 62 si trova nel campione analizzato. Le espressioni in questione sono riportate in (4).

(4) a. bianco e nero, scatola nera, bestia nera, fumata nera, camicia nera, maglia nera, messa nera, marea nera, borsa nera, cravatta nera, anima nera, pantera nera, bandiera nera, penna nera, continente nero, libro nero, basco nero, umorismo nero, pozzo nero, pecora nera (di fami-glia), vedova nera, perla nera

b. vedere nero c. in bianco e nero, in nero, di umore nero.

Nello stesso campione troviamo anche un discreto numero di polirematiche che non sono presenti nel NDM:

(5) a. bianco o nero, venerdì nero, occhio nero, giornata nera, umore nero, toghe nere, muso ne-ro, incazzato nero

b. vestire di nero, lavorare in nero, pagare in nero, vedere un futuro nero, votare nero, chiude-re in nero

c. di pelle nera, in nero, (essere) in crisi nera. Se consideriamo l’intero set di dati generato da EXTra, e non solo il campione qui preso in esame, tro-viamo anche polirematiche in cui il termine di colore costituisce la testa dell’espressione:

(6) nero corvo, nero fumo, nero lucido, nero nero. Le combinazioni del tipo nero lucido (Colore+AGG) sono normalmente considerate composti e “indica-no una tonalità particolare del colore designato dalla testa” (D’Achille & Grossmann 2010: 409). Anche il tipo nero fumo (Colore+N) viene spesso analizzato come un composto, di tipo appositivo: qui la tona-lità è specificata tramite una comparazione con il colore attribuito per eccellenza o al referente del no-me o a un’entità ad esso strettamente legata (cfr. D’Achille & Grossmann 2013). Infine, nel caso di nero nero siamo chiaramente di fronte a una reduplicazione totale (Colorei+Colorei), che come ci ricordano D’Achille & Grossmann (2010: 407) può sia riferirsi al “punto considerato focale” se il colore in que-stione è usato in senso proprio (es labbra rosse rosse), sia veicolare “intensificazione della qualità” se l’aggettivo di colore è usato in senso traslato (es. partita grigia grigia). 3.3.2 Bianco Per bianco abbiamo ben 131 polirematiche registrate nel NDM, di cui 60 recuperate anche attraverso EXTra. Nel nostro campione ne troviamo quasi la metà:

(7) a. bianco e nero, scheda bianca, carta bianca, cambiale in bianco, semestre bianco, fumata bianca, polvere bianca, (mettere) nero su bianco, vino bianco, mosca bianca, golpe bianco, squalo bianco, bianco e rosso, assegno in bianco, tartufo bianco, notte bianca, settimana bianca, voce bianca, camice bianco, bandiera bianca

necessario operare il taglio a quota 100, le stringhe relative ai sintagmi verbali e preposizionali sono meno numerose (in par-ticolare quelle verbali), spesso <100. I risultati estratti per la quarta tornata (residuale) sono invece praticamente nulli.

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b. alzare bandiera bianca, firmare in bianco, (far) venire i capelli bianchi, andare in bianco c. in bianco e nero, all’arma bianca, di punto in bianco, in bianco.

A queste si aggiunge un altro discreto numero di polirematiche non presenti nel NDM, tra cui figurano anche alcune espressioni idiomatiche verbali e preposizionali:

(8) a. bianco o nero, delega in bianco, balena bianca9, razza bianca, notte in bianco, cooperative bianche, dama bianca, polverina bianca, coop bianche

b. avere i capelli bianchi, indossare il camice bianco, avere la pelle bianca, delegare in bianco, sposarsi in bianco

c. di pelle bianca, di razza bianca. Nel campione in esame troviamo solo un caso di combinazione che presenta bianco come testa: bianco accecante. Se però cerchiamo nel resto dei risultati, otteniamo un insieme più ampio di dati:

(9) bianco accecante, bianco abbagliante, bianco virginale, bianco abbacinante, bianco immacola-to, bianco avorio, bianco sporco, bianco latte, bianco candido.

3.3.3 Rosso Delle 27 polirematiche registrate nel NDM e presenti anche nelle liste EXTra, 19 compaiono nel nostro campione (10).

(10) a. cartellino rosso, filo rosso, bianco e rosso, brigate rosse, stella rossa, libretto rosso, camicia rossa, khmer rossi, armata rossa, linea rossa, guardia rossa, pesce rosso, disco rosso, carne rossa, basco rosso, abete rosso

b. vedere rosso c. a luci rosse, in rosso.

La stringa a luci rosse viene recuperata da EXTra sia come stringa indipendente, sia come modificatore di diversi nominali (es. film a luci rosse, quartiere a luci rosse, cinema a luci rosse). Sempre nel nostro campione di dati troviamo alcune combinazioni preferenziali, come ad esempio mazzo di rose rosse, nonché diverse polirematiche non registrate nel NDM (11). In molte di que-ste espressioni rosso assume il significato traslato di ‘comunista, marxista, di sinistra’ (11b). Alcune delle polirematiche verbali (11c) coinvolgono espressioni nominali (es. tappeto rosso) o preposizionali (es. in rosso) che sono a loro volta polirematiche a sé stanti.

(11) a. semaforo rosso, capelli rossi, tappeto rosso, pianeta rosso, gigante rossa10, telefono rosso, conto in rosso, alga rossa

b. brigatista rosso, cooperativa rossa, coop rossa, toghe rosse, terrorismo rosso, pericolo ros-so, votare rosso, ecc.

c. scattare l’allarme rosso, diventare rosso, avere l’occhio / gli occhi rossi, stendere il tappeto rosso, andare in rosso, passare col semaforo rosso

d. da cartellino rosso. Infine, per il termine rosso EXTra estrae un numero cospicuo di composti del tipo Colore+AGG e Co-lore+N:

9 Nome comune della specie Delphinapterus leucas, ma anche soprannome della Democrazia Cristiana. 10 Stella gigante di massa piccola o intermedia.

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(12) rosso fuoco, rosso sangue, rosso mattone, rosso fiammante, rosso fiamma, rosso pompeiano, rosso carminio, rosso rubino, rosso scarlatto, rosso vermiglio, rosso cupo, rosso bandiera, ros-so acceso, rosso vino, rosso vivo.

Solo i primi 4 si trovano nel nostro campione, tutti gli altri sono collocati più in basso nella lista. 3.3.4 Azzurro Delle 6 polirematiche registrate nel NDM e presenti nelle liste EXTra, 3 compaiono nel campione in esame (maglia azzurra, principe azzurro, pesce azzurro), mentre le altre 3 (arma azzurra, camicia azzurra, telefono azzurro) si trovano molto più in basso. Nel nostro sottoinsieme di dati troviamo anche polirematiche assenti nel NDM:

(13) angelo azzurro11, telefono azzurro, fiocco azzurro, cavaliere azzurro, balena azzurra12, basco azzurro.

Molte delle stringhe che occupano le posizioni più alte nelle liste EXTra contengono azzurro come si-nonimo di ‘italiano, nazionale, relativo alla nazionale italiana’, es.: ct azzurro, squadra azzurra, nazionale az-zurra, tecnico azzurro, panchina azzurra, ritiro azzurro, atleta azzurro, ecc. Dalle liste possiamo recuperare 3 sole combinazioni del tipo Colore+N (solo la prima è presente nel campione):

(14) azzurro cielo, azzurro mare, azzurro acqua. 3.3.5 Verde Nel campione di dati qui esaminato troviamo le seguenti polirematiche già registrate nel NDM:

(15) benzina verde, tavolo verde, raggio verde, tappeto verde, berretto verde, pollice verde, carta verde, tè verde, polmone verde, pepe verde.

Espressioni piuttosto comuni come verde bottiglia, zona verde, numero verde o al verde si trovano molto più in basso. Grazie all’estrazione con EXTra recuperiamo anche le seguenti espressioni non presenti nel NDM:

(16) a. semaforo verde, luce verde, lista verde, libro verde, telefono verde, bandiera verde, panno verde, rivoluzione verde, verde età

b. deputato verde, senatore verde, capogruppo verde, eurodeputato verde, parlamentare ver-de, votare verde

c. dare il semaforo verde, dare la luce verde. Come accade anche per altri lemmi, tra le stringhe verbali troviamo diversi sintagmi aventi come ogget-to una polirematica nominale già individuata separatamente, ad esempio numero verde (chiamare, istituire, attivare).

Le liste EXTra contengono anche un discreto numero di composti con verde come testa (solo i primi 3 si collocano all’interno del nostro campione):

(17) verde oliva, verde smeraldo, verde prato, verde acqua, verde bandiera, verde militare.

11 Nome di un co*cktail alcolico. 12 Nome comune della specie Balaenoptera musculus, detta anche balenottera azzurra.

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3.3.6 Blu Nel campione di dati preso in esame sono presenti le seguenti espressioni già registrate nel NDM:

(18) basco blu, zona blu, blu elettrico, casco blu, auto blu. Tuttavia, notiamo che casco blu e auto blu non compaiono da soli, ma in unione con altri elementi (es. ca-sco blu francese, casco blu olandese, auto blu con autista). Le prime occorrenze di casco blu da solo e auto blu da solo sono successive (posizioni 151 e 158, rispettivamente). Nel campione sono presenti anche le espressioni in (19):

(19) bandiera blu, fascia blu13, fifa blu, amianto blu14, balena blu15, periodo blu, pillola blu. Per quanto riguarda i termini di colore composti, oltre al già citato blu elettrico, abbiamo altri 3 risultati (di cui solo il primo figura nel campione):

(20) blu scuro, blu metallizzato, blu notte. 3.3.7 Giallo Anche per giallo riportiamo le polirematiche presenti nel campione EXTra che sono già registrate nel NDM (21), e quelle invece non contenute nella risorsa lessicografica (22).

(21) maglia gialla, cartellino giallo, fiamme gialle, bandiera gialla, stella gialla, pagine gialle, pericolo giallo, risotto giallo, metallo giallo, oro giallo.

(22) romanzo giallo, febbre gialla, libro giallo, muso giallo, racconto giallo, zucca gialla.

Anche in questo caso i composti con giallo come testa sono in numero ridotto, ma tutti presenti nel campione:

(23) giallo canarino, giallo limone, giallo oro, giallo paglierino. 3.3.8 Grigio Sono solo 4 le polirematiche con grigio che EXTra riesce a estrarre, e si trovano tutte nel campione in esame:

(24) lupo grigio, pantera grigia, materia grigia, eminenza grigia. Abbiamo poi alcune polirematiche, tra cui figurano anche un paio di espressioni verbali, inedite rispetto al NDM:

(25) a. zona grigia, fumata grigia, mercato grigio16, balena grigia17 b. avere i capelli grigi, vedere grigio.

13 Fascia oraria per il consumo dell’energia elettrica. 14 Tipo di amianto noto anche come crocidolite. 15 Altro nome per balena azzurra. 16 Compravendita di beni, a prezzi vantaggiosi, al di fuori dei normali canali di distribuzione (spesso tra paesi diversi). 17 Nome comune della specie Eschrichtius robustus.

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Espressioni come cielo grigio e giornata grigia, che sono riportate molto in alto nelle liste EXTra, ci sem-brano caratterizzabili più come combinazioni preferenziali che non come polirematiche. All’interno del nostro campione troviamo anche i seguenti composti con grigio come testa:

(26) grigio metallizzato, grigio fumo, grigio perla, grigio ferro, grigio topo, grigio piombo, grigio cielo.

3.3.9 Viola Il NDM non registra nessuna polirematica con il lessema viola. EXTra estrae un numero non trascurabi-le di candidati (94), tuttavia nella maggior parte di queste combinazioni la forma viola si riferisce non al colore viola ma alla squadra di calcio Fiorentina (cfr. es. tifoso viola, società viola, squadra viola, ultrà viola, tecni-co viola, giocatore viola, in maglia viola, restare in viola, ecc.). 3.3.10 Rosa Per rosa EXTra estrae solo 83 stringhe, quindi l’intero set di dati è stato esaminato (come del resto per viola). Troviamo dunque tutte le polirematiche registrate nel NDM (27), ma anche qualche polirematica in più (28).

(27) maglia rosa, cronaca rosa, foglio rosa, fenicottero rosa, vedere rosa. (28) a. romanzo rosa, pantera rosa, fiocco rosa, neorealismo rosa, apostrofo rosa, periodo rosa,

spiaggia rosa b. vedere rosa.

Accanto al più convenzionalizzato romanzo rosa troviamo anche romanzetto rosa, rotocalco rosa, stampa rosa, letteratura rosa, favola rosa, giornale rosa, scrittore rosa, storia rosa. Il fatto che rosa abbia assunto un significato traslato indipendente (‘romantico, d’amore’) aumenta dunque la combinabilità di questo termine (cfr. anche scandalo rosa, triangolo rosa). I composti con rosa come testa ammontano invece a 4:

(29) rosa confetto, rosa shocking, rosa pallido, rosa salmone. 3.3.11 Arancione Le 13 stringhe estratte da EXTra per arancione contengono una sola combinazione di parole rilevante ai nostri fini, ovvero (in) tuta arancione, che può riferirsi sia alla tipica tuta da lavoro usata dagli operai (spe-cialmente su strada o in cantiere), sia alla divisa da carcerato statunitense. 3.3.12 Marrone EXTra non ha estratto alcuna stringa con il lessema marrone. Il dato quindi è pienamente in linea con il NDM, che non registra alcuna polirematica per questo termine. 4. Conclusioni Lo studio quantitativo qui condotto, sebbene preliminare, ha mostrato il ruolo attivo dei termini di co-lore nelle polirematiche dell’italiano. L’ipotesi iniziale, che prevedeva un maggiore coinvolgimento dei termini di colore più frequenti – nonché di quelli più in alto nella scala implicazionale di Berlin & Kay (1969) – nella formazione di polirematiche, ha trovato conferma: stando ai dati fin qui analizzati, i ter-mini bianco, nero e rosso sono largamente i più usati nella formazione di polirematiche, seguiti da verde.

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Azzurro e blu compaiono in un numero minore di espressioni, che però si avvicina a quello di verde se considerati insieme. Anche giallo e grigio presentano una buona combinabilità, così come rosa. Lo studio ha mostrato anche come l’estrazione semi-automatica di informazione combinatoria da corpora tramite metodi mirati possa contribuire notevolmente all’ampliamento delle nostre cono-scenze nell’ambito della combinatoria lessicale: l’estrazione con EXTra ha infatti consentito di indivi-duare un alto numero di polirematiche non registrate nel NDM, e questo nonostante l’analisi si sia con-centrata solo su un campione di dati limitato rispetto a quello complessivo disponibile. Peraltro, il pre-sente studio si è focalizzato sulle polirematiche, ma i dati a disposizione si prestano a un’analisi sulla combinatoria lessicale in genere (collocazioni e combinazioni preferenziali). Infine, se da un lato corpora e tecniche computazionali possono aiutarci ad affinare le nostre analisi, dall’altro anche tali tecniche possono essere affinate grazie all’intuizione e alle osservazioni del linguista che ne fa uso. Dai dati EXTra, ad esempio, non emergono alcune combinazioni contenenti termini di colore che sono invece rilevanti per il nostro studio. Si tratta di costruzioni di ‘somiglianza’ come quelle in (30), in cui il termine di colore è seguito da come e da un sintagma nominale:

(30) nero come la pece, bianco come la neve, rosso come il sangue. Tali costruzioni sono state analizzate in Masini (2016, 2017), in relazione anche ai composti del tipo Colore+N di cui abbiamo parlato più sopra (es. rosso sangue vs. rosso come il sangue): entrambi infatti si ba-sano su un meccanismo di comparazione con il colore tipicamente associato al referente del nome coinvolto. L’assenza di queste espressioni nei dati EXTra è dovuta al fatto che il pattern relativo a que-sta costruzione (che peraltro non si limita ai soli termini di colore, es. vecchio come il mondo) non figura tra le sequenze POS utilizzate in CombiNet, che potrebbero quindi essere arricchite, consentendo così l’estrazione di ulteriori combinazioni di parole significative. Riferimenti bibliografici Attardi, Giuseppe & Felice Dell’Orletta. 2009. Reverse revision and linear tree combination for dependency

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Appendice: elenco delle polirematiche ‘di colore’ nel Nuovo De Mauro. bianco 131 a pane bianco, abete bianco, acero bianco, acque bianche, agarico bianco, airone bianco maggiore,

all’arma bianca, alzare bandiera bianca, andare in bianco, arma bianca, assegno in bianco, bandiera bianca, bianco d’uovo, bianco di zinco, bianco e nero, bianco e rosso, bianco mangiare, caffè bian-co, caglio bianco, calore bianco, cambiale in bianco, camice bianco, carlina bianca, carne bianca, carta bianca, Casa Bianca, cedro bianco, cera bianca, cioccolato bianco, clown bianco, colletto bian-co, cravatta bianca, cronaca bianca, cucitrice di, in bianco, da segnare col carbone bianco, delfinatte-ro bianco, di punto in bianco, effluente bianco, elettrodomestici bianchi, far venire i capelli bianchi, farina bianca, fieno bianco, firma in bianco, firmare in bianco, firmare un assegno in bianco, folle bianca, frittura bianca, fumata bianca, gelso bianco, giglio bianco, girata in bianco, globulo bianco, golpe bianco, gorgonzola bianco, gramigna bianca, guelfo bianco, in bianco, in bianco e nero, lava-gna bianca, lepre bianca, libro bianco, loto bianco d’Egitto, luce bianca, lupara bianca, lupino bian-co, magia bianca, mal bianco, matrimonio bianco, matrimonio in bianco, mettere nero su bianco, monte bianco, morte bianca, mosca bianca, nana bianca, nebbiolo bianco, ninfea bianca, notte bianca, olio bianco, olmo bianco, omicidio bianco, ontano bianco, oro bianco, orso bianco, pane bianco, papavero bianco, partita in bianco, pastenula bianca, pepe bianco, perdite bianche, pernice bianca, pinot bianco, pioppo bianco, pizza bianca, poiana dalla coda bianca, polvere bianca, rinoce-ronte bianco, risultato bianco, ruggine bianca, russo bianco, salice bianco, salsa bianca, sandalo bianco, scheda bianca, sciopero bianco, semestre bianco, semestre in bianco, semolino bianco, se-nape bianca, settimana bianca, smergo bianco, squalo bianco, stella nana bianca, strada bianca, tar-tufo bianco, telefoni bianchi, terra bianca, terrore bianco, tonno bianco, topo bianco, tratta delle bianche, trattare con i guanti bianchi, treno bianco, trifoglio bianco, trombo bianco, vedova bianca, vetro bianco, vinificazione in bianco, vino bianco, vite bianca, voce bianca, volpe bianca

nero 91 acque nere, angelo nero, anima nera, aristocrazia nera, bandiera nera, basco nero, bestia nera, bian-co e nero, borsa nera, borsaro nero, brigate nere, buco nero, caffè nero, camicia nera, carne nera, cavolo nero, continente nero, corallo nero, cornacchia nera, corpo nero, cravatta nera, cronaca nera, di umore nero, effluente nero, fa*giolo nero, fare nero, fiamme nere, fondo nero, fumata nera, gelso nero, germano nero, giovedì nero, guelfo nero, in bianco e nero, in nero, lava nera, lavoro nero, li-bro nero, lista nera, magia nera, maglia nera, mano nera, marea nera, mercato nero, messa nera, mettere nero su bianco, morte nera, musulmano nero, nero di seppia, nero fumo, nobiltà nera, olio nero, onda nera, ontano nero, oro nero, orso nero, pane nero, pantera nera, papa nero, pece nera, pecora nera, penna nera, pepe nero, perla nera, peste nera, picchio nero, pinot nero, pioppo nero, piovanello pancia nera, polenta nera, porcino nero, pozzo nero, punto nero, ribes nero, rinoceronte nero, sambuco nero, scatola nera, senape nera, Settembre Nero, storno nero, tartufo nero, tè nero, umore nero, umorismo nero, uomo nero, vedere nero, vedere tutto nero, vedova nera, vernaccia nera, vino nero, vite nera

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rosso 75 a luci rosse, abete rosso, acero rosso, airone rosso, armata rossa, bandiera rossa, barbabietola rossa, basco rosso, bianco e rosso, bietolone rosso, brigate rosse, calore rosso, camicia rossa, canguro ros-so, carne rossa, cartellino rosso, cavolo rosso, corallo rosso, Croce Rossa, Croce Rossa Internazio-nale, Croce Rossa Italiana, disco rosso, fenicottero rosso, fiamme rosse, filo rosso, formica rossa, globulo rosso, guardia rossa, in rosso, khmer rosso, lattuga rossa, libretto rosso, linea rossa, lupino rosso, mezzaluna rossa, mirtillo rosso, nana rossa, ocra rossa, oro rosso, pagello rosso, panda rosso, papa rosso, partito rosso, passaporto rosso, pelle rossa, pepe rosso, perdilegno rosso, perdite rosse, pesce rosso, picchio rosso minore, pimento rosso, pizza rossa, porfido rosso antico, primula rossa, radica rossa, radicchio rosso, ragnetto rosso, rana rossa, ribes rosso, rosso d’uovo, salice rosso, san-dalo rosso, soccorso rosso, spostamento gravitazionale verso il rosso, stella gigante rossa, stella ros-sa, telefono rosso, terra rossa, trifoglio rosso, trombo rosso, vedere rosso, vinificazione in rosso, vino rosso, volante rossa, volpe rossa

verde 44 al verde, balletto verde, basco verde, benzina verde, berretto verde, bollino verde, carta verde, ca-valletta verde, colombina verde, Croce Verde, disco verde, fiamme verdi, frittata verde, in verde, insalata verde, lira verde, luì verde, moneta verde, numero verde, onda verde, ontano verde, pepe verde, picchio verde, pigna verde, pollice verde, polmone verde, porfido verde antico, raggio verde, rana verde, rana verde maggiore, rana verde minore, salsa verde, tappeto verde, tavolo verde, tè verde, valuta verde, vedere i sorci verdi, verde acido, verde antico, verde bottiglia, verde mare, verde penicillina, verde rame, zona verde

giallo 29 ambra gialla, bandiera gialla, cartellino giallo, ditola gialla, farina gialla, fiamme gialle, genziana gialla, giallo di stagno, giallo psicologico, in guanti gialli, ladro in guanti gialli, lupino giallo, maglia gialla, margherita gialla, metallo giallo, ocra gialla, oro giallo, pagine gialle, pan giallo, pane giallo, pericolo giallo, pioggia gialla, radica gialla, risotto giallo, semolino giallo, sindacato giallo, stampa gialla, stella gialla, trifoglio giallo delle sabbie

azzurro 19 arma azzurra, balenottera azzurra, camicia azzurra, corallo azzurro, croce azzurra, fiamme azzurre, ghiandaia azzurra, lupino azzurro, maglia azzurra, morbo azzurro, pagro azzurro, palma azzurra, parco azzurro, partito azzurro, passiflora azzurra, pesce azzurro, principe azzurro, sangue azzurro, telefono azzurro

grigio 18 ambra grigia, canguro gigante grigio, cornacchia grigia, eminenza grigia, foca grigia, grigio isabella, lega grigia, letteratura grigia, lupo grigio, materia grigia, materiale grigio, moretta grigia, notidano grigio, orso grigio, pantera grigia, pinot grigio, squalo grigio, tignola grigia della farina

blu 14 auto blu, bambino blu, basco blu, blu di metilene, blu elettrico, casco blu, colletto blu, mirtillo blu, morbo blu, parco blu, sangue blu, tuta blu, uomo blu, zona blu

rosa 11 balletto rosa, cartolina rosa, colletto rosa, cronaca rosa, fenicottero rosa, foglio rosa, maglia rosa, rosa antico, salsa rosa, telefono rosa, vedere rosa

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Marcatori pragmatici richiestivi in Plauto: una sfida per la traduzione in francese, italiano, rumeno e spagnolo

Piera Molinelli

Abstract This paper examines some Latin predicative expressions that have gradually developed a pragmatic and proce-dural function with a request value (quaeso, obsecro, amabo, rogo) and focuses on the challenge that their translations into French, Italian, Romanian and Spanish poses. The research is based on a parallel corpus of Plautine come-dies together with their translations in some Romance languages (i.e. French, Italian, Romanian, and Spanish). The dialogues in the comedies offer one of the main resources to investigate pragmatic functions expressed by speakers in an ancient language. As early as in Plautus, some predicative expressions can also operate as func-tional signals or resources used by speakers in communicative exchanges to fulfil macrofunctions oriented to the discourse or to the context of interaction. We consider here those Latin verbs that most frequently are used in requests: they operate as markers oriented toward the interlocutor, whose pragmatic function is of promoting social cohesion. Indeed, they encode (a) the characteristics of the relationship between speaker and interlocutor, (b) their social identity (their degree of power and social distance within the context of communication), and (c) the type of speech act accomplished. Building on these premises, we analyse both at an interliguistic and at an intralinguistic level different choices and different solutions in the translation of these markers. The contrastive analysis highlights diachronic phenomena of convergence and differentiation among the Romance languages considered, in terms of maintenance or substitution of a given marker. In the end, this study aims to bring to light the empirical and methodological problems in translating these elements from an ancient language, in order to verify if and how a functional theoretical approach to pragmatic markers may suggest new and consistent in-terpretative solutions. KEYWORDS: Pragmatic markers • speech acts of request • politeness • pragmatic markers in translation 1. Introduzione Dopo una serie di ricerche volte ad esplorare e definire il grande ambito dei cosiddetti discourse markers e i processi che li generano, in questo studio adottiamo la definizione di SEGNALI FUNZIONALI come ipe-ronimo di due tipologie di segnali o marcatori: i SEGNALI DISCORSIVI (orientati al testo) e i SEGNALI PRAGMATICI (orientati agli interlocutori e al contesto discorsivo) e ci concentriamo sulla sfida che questi elementi procedurali, spesso multifunzionali e difficilmente definibili su basi puramente formali, pon-gono alla traduzione, in riferimento a un caso già in sé peculiare, ossia la resa traduttiva in lingue con-temporanee di elementi pragmatico-discorsivi attestati in testi antichi. Si tratta dunque, potremmo dire, di una sfida nella sfida: la traduzione dei segnali funzionali implica già di per sé la ricerca di soluzioni traduttive non sempre scontate1; nel caso che la lingua di partenza sia attestata solo in documenti scritti, dunque non più parlata, l’impresa si connota necessariamente di una serie di difficoltà aggiuntive in quanto i segnali funzionali, in particolare quelli pragmatici, sono strettamente dipendenti dall’interazione. Qui, come in molte ricerche precedenti, punto di partenza è il latino posto a confronto con al-cune delle lingue che da esso derivano. Questo contributo, infatti, prende in considerazione i predicati latini quaeso, obsecro, amabo e rogo, che in momenti diversi del latino hanno sviluppato una funzione

1 Sulla difficoltà di tradurre i discourse markers, si vedano Bazzanella & Morra (2000), Portolés Lázaro (2002) e Borreguero Zuloaga (2011: 123), che propone una sintesi dei problemi principali posti dalla traduzione dei marcatori funzionali: “su ca-rácter polisémico, su polifuncionalidad y su movilidad posicional dentro del enunciado”.

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pragmatica di cortesia in atti linguistici di natura richiestiva2, e si concentra sui problemi posti dalla loro traduzione in alcune lingue romanze, segnatamente in francese, italiano, rumeno e spagnolo: queste tra-duzioni costituiscono dunque un corpus parallelo che rappresenta un utile strumento per gettar luce sul valore delle forme indagate, per esplorare la resa delle medesime funzioni pragmatiche in lingue diverse, e per arrivare ad una loro più precisa definizione sulla base della comparazione interlinguistica.3 Questo studio intende dunque arricchire il quadro di ricerche che si sono precedentemente con-centrate su questi marcatori in relazione al loro valore semantico-pragmatico (si vedano ad es. Risselada 1993, Ferri 2008, Unceta Gómez 2009, Molinelli 2010, Fedriani & Ghezzi 2013), al loro sviluppo (cfr. ad es. Ghezzi 2014), e alla loro posizione nell’enunciato (Ghezzi & Molinelli 2016), concentrandosi su-gli esiti traduttivi di questi elementi. Pensiamo infatti che indagare la loro traduzione in alcune delle lin-gue moderne derivate dal latino da un lato possa apportare conferme o disconferme alle ipotesi sullo status e sulla funzione dei marcatori stessi, dall’altro possa suggerire alcune interessanti riflessioni sul processo di traduzione di elementi funzionali. Inoltre, la traduzione di elementi della lingua madre nelle lingue figlie offre interessanti valuta-zioni sugli esiti dei lemmi considerati, sul loro mantenimento o piuttosto sul loro continuo rinnovamen-to, secondo un processo che altrove abbiamo definito tipicamente ciclico (Ghezzi & Molinelli 2014). In questa prospettiva, un corpus parallelo costituito da traduzioni permette di indagare forme utilizzate negli stessi contesti comunicativi in lingue diverse, creando dei veri e propri “paradigmi di corrispon-denze”: “[s]uccessively using the source and target language as a starting-point, we can establish para-digms of correspondences: the translations can be arranged as a paradigm where each target item corre-sponds to a different meaning of the source item” (Evers-Vermeul et alii 2011: 450). Diversi studi han-no dimostrato che normalmente non esiste una corrispondenza biunivoca stabile e predicibile a priori tra un dato marcatore e il suo corrispondente funzionale in lingue diverse, seppur imparentate; la tradu-zione di elementi dotati di valore pragmatico-procedurale è dunque particolarmente promettente per esplorare corrispondenze e differenze nell’espressione di valori sovrapponibili, anche se espressi me-diante strumenti linguistici diversi, oppure per rilevare casi di mancata traduzione. Merita tuttavia una nota il fatto che le traduzioni francesi considerate, pubblicate tra il 1962 e il 1972, sono dovute ad Alfred Ernout, studioso autorevole che può aver costituito una pietra miliare di paragone per i traduttori nelle altre lingue: la traduzione rumena, di Nicolae Teică (tra il 1968 e il 1978), quella italiana, di Giuseppe Augello (1972), quella spagnola, di José Román Bravo (2012). La ragione per cui non approfondiremo la questione della possibile influenza di una traduzione sull’altra risiede nel considerare il ruolo e la professionalità di ciascun traduttore, che ha certamente reso nella propria lin-gua il testo latino con i mezzi linguistici più confacenti a renderne il significato anche pragmatico. Veniamo ora ad alcune osservazioni di carattere terminologico. La definizione di partenza, mar-catori pragmatici richiestivi, fa riferimento alla funzione dei verbi coinvolti (prototipicamente, quella di in-trodurre e modulare una funzione pragmatica assai frequente nelle interazioni dialogiche, la richiesta, sia essa una domanda o un ordine: cfr. Risselada 1989, 1993), ed è legata alla loro semantica originaria. In questo lavoro ci occuperemo dei valori pragmatici che questi verbi hanno progressivamente acquisito in quello che definiamo processo di pragmaticalizzazione, assumendo lo status di marcatori pragmatici orientati all’interlocutore, volti a esprimere valori interpersonali e intersoggettivi legati alla deissi sociale e all’identità sociale dei parlanti. Parliamo dunque in questo contesto di due diverse ma-crofunzioni, una di coesione sociale e una di atteggiamento personale (o stance). Avendo assunto chiare funzioni pragmatiche volte alla coesione sociale, al mantenimento della faccia negativa, alla cooperazio-ne comunicativa e alla costruzione solidale dell’interazione, parliamo più specificamente in questo caso

2 Unceta Gómez (2015) considera gli stessi verbi nelle commedie plautine sottolineando il processo di soggettivizzazione responsabile del loro passaggio da elementi proposizionali a procedurali. Approfondendo lo sviluppo di amabo, l’autore os-serva la coesistenza in Plauto della forma procedurale con la forma proposizionale del verbo pieno impiegato in vari contesti sintattici, spiegandolo come esempio di degrammaticalizzazione (2015: 476). Questa coesistenza, a nostro parere, è invece un tipico caso di layering, cioè di coesistenza tra usi procedurali e usi proposizionali della stessa forma, processo che, com’è noto, può durare anche molto a lungo. Si pensi alla sequenza da proposizionale a procedurale dell’italiano prego in Prego la Madonna ogni mattina > Signori, vi prego di entrare > Signori, entrate, prego > Grazie – Prego. 3 Sull’uso di corpora paralleli costituiti da traduzioni dello stesso testo in studi di pragmatica si vedano ad esempio Aijmer et alii (2006), Aijmer & Simon-Vandenbergen (2003), Degand (2009).

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di una sottoclasse di marcatori pragmatici richiestivi, ossia di marcatori di cortesia. Queste osservazioni sono riassunte schematicamente nella Tabella 1.

TABELLA1.Segnalifunzionaliemacrofunzioni(Ghezzi2014:14;cfr.Ghezzi&Molinelli2014)Macrofunzione Tipologia

(a) coesione e coerenza testuale e discorsiva, implica la pianificazione e la gestione del discorso in

quanto testo

segnali / marcatori discorsivi

(b) coesione sociale, si riferisce all’interazione tra i partecipanti e all’identità

sociale dei parlanti

(c) atteggiamento personale, si riferisce alla prospettiva del parlante verso il discor-

so e verso il suo interlocutore

segnali / marcatori pragmatici

(d) contesto interazionale, si riferisce alla gestione del contesto dell’interazione

segnali / marcatori contestuali

Il corpus sul quale di basa questo studio è costituito dai dialoghi presenti nelle commedie plautine interrogabili mediante la Bibliotheca Teubneriana Latina (www.degruyter.com/db/btl; 155.967 parole) e sulle rispettive traduzioni romanze di riferimento, elencate alla voce Fonti. Le commedie offrono, per una lingua a corpus chiuso, una delle principali risorse per indagare le funzioni pragmatiche espresse dagli interlocutori: sono infatti testi letterari che contengono però un alto grado di mimesi dialogica (constructed imaginary speech: Culpeper & Kytö 2000; Cuzzolin & Haverling 2009: 38), poiché tendono a riprodurre modelli tipici dell’oralità colloquiale e quotidiana e usi linguistici coerenti con le caratteristiche sociolinguistiche dei personaggi e aderenti alla realtà del momento stori-co-sociale rappresentato. In questo lavoro inquadriamo dunque un momento preciso nella storia del latino di cui cono-sciamo anche gli sviluppi nella diacronia lunga (cfr. Ghezzi & Molinelli 2014), dei quali però in questa sede non ci occupiamo. Ci concentreremo piuttosto sul confronto tra diverse fasi sincroniche e diverse lingue, con lo scopo di accertare e valutare problemi, strategie, tendenze e risorse che emergono nelle traduzioni romanze dei marcatori di cortesia latini. Il resto dell’articolo è strutturato come segue: dopo aver fornito una descrizione sintattica e pragmatica dei verbi pragmaticalizzati che costituiscono l’oggetto di studio di questo lavoro nel paragra-fo 2, in § 3 tratteggiamo brevemente gli esiti romanzi di queste forme. Il paragrafo 4 prende in conside-razione la traduzione dei marcatori di cortesia latini in base ai diversi contesti sintattici in cui questi oc-corrono: congiuntamente a verbi all’imperativo (§ 4.1), in contesti assoluti (§ 4.2) e interrogativi (§ 4.3). La rassegna si chiude con la disamina di un caso piuttosto singolare, costituito dalle traduzioni romanze del marcatore amabo, la cui caratterizzazione sociolinguistica peculiare (è usato generalmente solo da personaggi femminili) pone alcune riflessioni specifiche (§ 4.4). Il paragrafo 5 contiene alcune conclu-sioni. 2. Marcatori di cortesia in Plauto Nelle commedie plautine quattro marcatori di cortesia deverbali, quaeso, obsecro, amabo e rogo, hanno svi-luppato due funzioni pragmatiche principali volte ad attenuare la forza illocutiva impositiva in atti lin-guistici richiestivi, atti che contengono intrinsecamente un potenziale aggressivo e offensivo e veicolano un contenuto impositivo (Brown & Levinson 1987, Ferri 2008; cfr. Akimoto 2000 per simili funzioni dell’inglese pray). Tali funzioni pragmatiche sono, da una parte, quella di mitigare ordini e richieste, co-munemente espressi da imperativi; dall’altra, introdurre domande, di fatto un particolare tipo di richie-sta che può minacciare la faccia, attenuando dunque l’atto linguistico che le contiene. A partire da que-ste due funzioni principali, si sono marginalmente sviluppati altri valori di tipo esclamativo legati al con-testo dell’enunciazione.

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Obsecro si è cristallizzato a partire dall’arcaica formula di supplica di, obsecro vos (o, ancora più an-ticamente, con tmesi: ob vos sacro, si veda Hofmann 2003[1936]: 285). In Plauto, occorre in entrambe le funzioni appena delineate: in giustapposizione con imperativi, per modularne la forza illocutiva (es. 1), oppure in frasi interrogative, ad esempio per sottolinearne l’urgenza (es. 2); nella sua forma più opaca e pragmaticalizzata, può anche occorrere in contesti assoluti (es. 3) e funzionare come interiezione di stu-pore: in questo caso è spesso seguito da una frase esclamativa e unito a vocativi o altre interiezioni (es. 4).

(1) Cas. 196 MY. Obsecro, dice. ‘Parla, ti scongiuro’ (2) Stich. 326a PAN. Quisnam obsecro has frangit foris? ‘Misericordia! Ma chi è che sta fracassando la porta?’ (3) Asin. 926 DEM. iam, obsecro, uxor ‘per favore, moglie…’ (4) Am. 299 SO. Obsecro hercle, quantus et quam ualidus est. ‘Guarda lì, per Ercole, com’è grande e grosso!’

Anche quaeso è arcaica formula sacrale (derivante dal tema i.e. *kṷais- con l’aggiunta di un suffisso desi-derativo -s-), tipicamente seguita, nel suo valore lessicale originario, da una completiva introdotta da ut o dal semplice congiuntivo; mostra però già in Plauto un avanzato stadio di pragmaticalizzazione in cui tende, come nel caso di obsecro, a occorrere con imperativi (es. 5) o a introdurre domande (es. 6); può inoltre comparire in contesti assoluti (es. 7) (si veda Molinelli 2010 per ulteriori esempi).

(5) Mil. 496 SC. Vicine, ausculta quaeso ‘Buon vicino, ascoltami, per carità’ (6) Merc. 214. AC. Quaeso, quid rogas? ‘Su, cosa vuoi sapere?’ (7) Bacch. 1063 CHR. Non equidem capiam. NI. At quaeso. ‘C. No, non lo prendo. N. Ti prego.’

Amabo (anch’esso forma pragmaticalizzata a partire dall’originaria formula di supplica ita te amabo ut hoc facies: Hofmann 2003[1936]: 231) è caratterizzato da una specifica distribuzione diastratica, poiché è ti-picamente utilizzato delle donne (Adams 1984: 61-62), differenziandosi in questo senso dai marcatori equifunzionali quaeso e obsecro, insensibili al genere (Dutsch 2008: 53). Amabo è usato per mitigare ordini e richieste espressi all’imperativo (es. 8) e in frasi interrogative, con sfumatura fàtica (es. 9); può occor-rere anche da solo, per esempio per incitare la presa di turno da parte dell’interlocutore (es. 10).

(8) Persa 245 SO. Dic amabo. ‘Parla, ti prego’ (9) Rud. 249 AM. Quo amabo ibimus? ‘E dove andremo, di grazia?’ (10) Bacch. 1149 SO. Eho, amabo. ‘Dimmi pure’

La Tabella 2 illustra l’incidenza quantitativa delle occorrenze pragmaticalizzate dei marcatori di cortesia analizzati nel corpus plautino.

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TABELLA2.Imarcatoridicortesianelcorpusplautino:occorrenzetotaliepragmaticalizzate

Attestazioni totali nel corpus plautino

Occorrenze pragmaticalizzate (dato assoluto)

Occorrenze pragmaticalizzate (in percentuale)

Amabo 98 82 84% Obsecro 170 121 71% Quaeso 150 100 67% Rogo 35 0 0%

I dati riportati in Tabella 1 consentono di richiamare alcuni fatti fondamentali. Innanzitutto, amabo è il verbo che mostra una maggiore tendenza a occorrere nella sua forma pragmaticalizzata: si ha dunque un avanzato stadio di indebolimento semantico in base al quale il verbo è ormai diventato opaco e ha sviluppato invece chiare funzioni procedurali. D’altro canto, obsecro e quaeso, che gli si avvicina per fre-quenza, sebbene usati nella maggioranza dei casi come marcatori di cortesia (nel 71% e 67% dei casi, rispettivamente), conservano ancora il loro uso lessicale pieno accanto a quello pragmaticalizzato (rea-lizzando dunque una situazione di multifunzionalità, o layering). Da ultimo, merita di essere rimarcato come rogo, benché presente nel corpus, non occorra come forma di cortesia, valore che invece assumerà in fasi diacronicamente successive (Molinelli 2010). Il Grafico 1 illustra invece la frequenza relativa dei diversi marcatori di cortesia nel corpus plau-tino e mostra chiaramente che il marcatore più frequente in assoluto è obsecro, seguito da quaeso e da amabo. Rogo non ha ancora sviluppato chiare funzioni intersoggettive in Plauto, e sarà interessato da un processo di pragmaticalizzazione solo successivamente (in Petronio è già in atto l’erosione, da parte di rogo, del dominio funzionale di quaeso: si veda Molinelli 2010).

GRAFICO1.Frequenzarelativadidiversimarcatoridicortesianelcorpusplautino

La Tabella 3 illustra infine la frequenza con cui ciascun marcatore occorre nei diversi contesti sintattici all’interno del corpus plautino.

TABELLA3.Contestidioccorrenzadeimarcatoridicortesianelcorpusplautino Contesto

assoluto In frase

interrogativa Con

imperativo In contesto esclamativo

Quaeso 3 32 64 3 Amabo 3 36 42 1 Obsecro 2 63 54 5

20

40

60

80

100

120

140

obsecro quaeso amabo rogo

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quaes-

quaes-s-o

quaeso

quaes-o

quaero

it.chiedofr.quierssp.quieroport.querorum.cer

rog-

it.rogare(notarile)port.rogosp.rogar

rum.rog

vă rog

prec-

prĕcor

it.prego

prego

fr.prie

jete/vousenprie

La Tabella 3 permette di osservare che il contesto esclamativo, sebbene quantitativamente minoritario, è attestato per tutti e tre i marcatori. Riporto qui un’interessante osservazione di Luis Unceta Gómez relativamente al marcatore di cortesia spagnolo por favor, che ha subito un percorso di espansione fun-zionale simile, dal momento che occorre anche in contesti esclamativi, soprattutto per esprimere disac-cordo (¡por favor!). Questo, peraltro, sembrerebbe valere anche per l’italiano per favore (per favore, ma cosa dici!) in contesti molto marcati prosodicamente. 3. Lo sviluppo dei marcatori di cortesia tra latino e lingue romanze

Nelle lingue romanze, quaeso non mantiene valore di marcatore di cortesia; il verbo corrispondente, quaero, permane, ma senza valore pragmatico. In rumeno tale valore è assunto da rogo attraverso l’espressione formulaica te/vă rog; invece in italiano e in francese un altro verbo performativo scarsa-mente attestato in latino, prĕcor (derivato da prex ‘preghiera’ (i.e. *prek-; latino volgare *precāre) assume il valore di marca di cortesia (italiano prego, francese je vous en prie). Sia obsecro4 che amabo non hanno continuatori romanzi. Le evoluzioni pragmatiche delle forme latine nelle diverse lingue romanze sono rappresentate nel Grafico 2 (si veda inoltre Ghezzi e Molinelli 2014).

GRAFICO2.Evoluzionepragmaticaromanzadeiperformativilatiniquaeso,rogo,prĕcor

Ovviamente l’esito romanzo dei tre verbi performativi latini non esaurisce le strategie pragmatiche per veicolare la cortesia nelle lingue romanze: in francese coesistono le formule je te/vous en prie e s’il te/vous plait (cfr. catalano si us plau), entrambe originatesi da perifrasi verbali, mentre spagnolo e portoghese hanno progressivamente privilegiato strategie diverse attraverso l’utilizzo di perifrasi nominali, come nel caso dello spagnolo por mi/tu vida (XVI-XVII sec.) e por favor (King 2012). L’italiano stesso ha entrambe le possibilità con gli esiti di prego e per favore/per piacere. 4. La traduzione dei marcatori di cortesia plautini nelle lingue romanze 4.1 I marcatori di cortesia con imperativi

Quando il marcatore di cortesia accompagna un imperativo per mitigare la forza illocutiva dell’atto lin-guistico che lo contiene, le traduzioni romanze mostrano una spiccata uniformità traduttiva sia a livello 4 Obsecro sembra peraltro avere avuto alcune propaggini romanze di scarso rilievo: il Dizionario della Lingua Italiana di Tomma-seo e Bellini registra la voce italiana ossecrare (sub voce), citando alcune attestazioni secentesche del predicatore Paolo Segneri e il dizionario Treccani tuttora registra la voce come antica. Nella sfera nominale lo spagnolo obsecración, il francese obsécration, il rumeno obsecráţie e l’italiano ossecrazione sono riportati nei dizionari come voci letterarie o antiche, derivate dal latino obsecratio.

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intralinguistico (ogni lingua mostra una traduzione in generale omogenea: italiano per favore, ti prego, francese je te/vous en prie, s’il te/vous plait, spagnolo por favor, rumeno te/vă rog), sia a livello interlinguistico (i marcatori di cortesia equifunzionali e corrispondenti nelle diverse lingue tendono a occorrere rego-larmente negli stessi contesti). Gli esempi (11) e (12) evidenziano entrambi i tipi di regolarità appena presentati.

(11) As. 596 AR. Mitte quaeso.

It. Lasciami andare, ti prego. Fr. Lâche-moi, je te prie. Sp. Suéltame, por favor. Rum. Lasă-mă, te rog.

(12) Am. 540 Noli amabo, Amphitruo, irasci Sosiae causa mea.

It. Ti prego, Anfitrione, non adirarti con Sosia per causa mia! Fr. Je t’en prie, Amphitryon, ne va pas, à cause de moi, t’emporter

contre Sosie. Sp. No, por favor, Anfitrión, no te enfades con Sosia por mi culpa. Rum. Fii bun, Amphitryo, şi iartă-l pe Sosia, de dragul meu.

Con obsecro viene mantenuta in alcuni casi l’antica sfumatura semantica dell’atto di supplica (italiano ti scongiuro, francese je t’en supplie, spagnolo te lo suplico):

(13) Cas. 196 Obsecro, dice.

It. Parla, ti scongiuro. Fr. Je t’en supplie, raconte-moi tout. Sp. Dime, por favor. Rum. Vorbeşte, te rog.

(14) Curc. 628 PL. Phaedrome, obsecro, serua me.

It. Fedromo, ti prego, pensa a me! Fr. Phédrome, je t’en supplie, protège-moi. Sp. ¡Fédromo, te lo suplico, sálvame!

Rum. Phaedromus, te rog, ajută-mi! L’uniformità traduttiva si ha anche quando l’ordine non è espresso da verbo esplicito; in (17) si ha un caso interessante, in quanto tre traduzioni romanze aggiungono un verbo di dire.

(15) Merc. 952 Clementer, quaeso: calces deteris. Audin tu?

It. Piano, per favore! Mi pesti i piedi. Mi ascolti sì o no? Fr. Doucement, s’il te plaît; tu m’écorches les talons. Ecoute donc. Sp. Con cuidado, por favor, que me lastimas los talones. Escúchame. Rum. Încet, te rog; mă calci pe tocuri. Asculţi?

(16) As. 40 Age quaeso hercle usque ex penitis faucibus: Etiam amplius. It. Forza, per favore, dal fondo della gola, per Ercole! Anche di più! Fr. Vas-y, mordieu, s’il te plaît; du plus profond du goisier. Encore plus fort. Sp. Vamos, por favor, sigue; desde lo más profundo de la garganta; todavía más. Rum. Ba, nu! Pe Hercle! N-am spus asta şi nici n-am vrut să spun; Te rog, te rog din suflet să scuipi acest cuvânt

(17) Cist. 110 Sed, amabo, tranquille: nequid, quod illi doleat, dixeris.

It. Vacci piano, ti prego, non dirgli nulla che gli possa dispiacere

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Fr. Parle-lui doucement, je t’en prie: ne lui dis rien qui puisse le blesser Sp. Por favor, háblale dulcemente. No le digas nada que pueda hacerle daño Rum. Te rog vorbeşte-i cu blândeţe; nu-l supăra cu vreun cuvânt

In definitiva, nei contesti più frequentemente associati all’uso di marcatori di cortesia, ossia richieste e ordini espresse da verbi all’imperativo, la resa traduttiva dei marcatori che ne modulano la forza illocu-tiva è generalmente uniforme e coerente a livello inter- e intralinguistico.5 Possiamo dunque dedurre che il core funzionale di questi elementi viene facilmente colto e interpretato dai traduttori e dunque reso con strumenti equifunzionali univoci nelle lingue bersaglio. 4.2 Marcatori di cortesia in contesti assoluti

I marcatori di cortesia romanzi funzionano in modo analogo nei contesti assoluti, ad esempio quando costituiscono da soli un turno di parola. I diversi traduttori possono imprimere connotazioni pragmati-che specifiche a seconda del contesto. L’esempio riportato in (18) mostra le seguenti tendenze: al quaeso assoluto latino rispondono un più aderente ti prego italiano, mentre il traduttore francese e quello rume-no sono ricorsi a una domanda supplichevole maggiormente connotata dal punto di vista emotivo, e quello spagnolo a un simile ampliamento enfatico:

(18) Bacch. 1063 C. Non equidem capiam. NI. At quaeso. It. C. No, non lo prendo. N. Ti prego. Fr. C. Non, te dis-je, je ne le prendrai pas. N. Et si je t’en prie? Sp. C. No, no lo cogeré. NI. Por favor, te lo pido. Rum. C. Tu cere-i banii, -atâta; încolo, nici o vorbă. NI Ei, cum e?

4.3 Marcatori di cortesia in contesti interrogativi

I marcatori di cortesia romanzi hanno perso il valore di attenuazione che i corrispettivi marcatori latini svolgevano in contesti interrogativi, sia in posizione iniziale, come introduttori di un’interrogativa diret-ta (es. 19, 20, 21), sia in posizione incidentale intermedia (es. 22), sia in posizione finale, come in (23), dove obsecro esprime incredulità e stupore e le cui traduzioni romanze ricorrono piuttosto a interiezioni esclamative o a rese che si discostano radicalmente dall’originale latino. La perdita nelle lingue romanze della funzione attenuativa delle marche di cortesia nei contesti interrogativi in latino trova un parallelo nel processo che in inglese ha portato all’abbandono di pray in favore di please6 confermando il carattere interlinguistico della ciclicità degli sviluppi funzionali. Vediamo nel dettaglio alcuni esempi. In (19), al quaeso latino che apre una domanda concitata francese e spagnolo rispondono con un verbum dicendi in forma esortativa che invita l’interlocutore a prendere il turno per fornire una risposta (dis-moi e dime), mentre il traduttore italiano ricorre a una espressione apparentemente di cortesia, che però in realtà di cortesia non è, e lascia invece intravvedere una certa insofferenza e insistenza da parte del parlante. Il traduttore rumeno sceglie una soluzione an-cora diversa, e non traduce quaeso, la cui funzione in questo dato contesto presumibilmente non ha un corrispettivo chiaro in grado di renderne la precisa sfumatura in questa lingua.

(19) Rud. 1006 Quaeso, sanus es? TR. Elleborosus sum. It. Ma fa’ il favore: sei o non sei in cervello? T. Pazzo sono e da curare con l’elleboro. Fr. Dis-moi, es tu sain d’esprit? T. Je suis au régime de l’ellébore.

5 I marcatori di cortesia con gli atti direttivi costituiscono d’altra parte un contesto tipico di tutte le lingue (cfr. ad es. King 2012 per lo spagnolo moderno). 6 Questo punto è sviluppato in Ghezzi & Molinelli (2016) e riprende considerazioni di Traugott & Dasher (2002), Akimoto (2000) trovandone corrispondenza in latino. Di particolare interesse il fatto che in latino come in inglese i verbi usati come forme di cortesia introducono, attenuandola, la domanda all’interlocutore che è direttamente implicato nell’atto linguistico direttivo (“Io ti prego/chiedo di rispondere alla domanda”).

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Sp. Dime, ¿tú estás bien de la cabeza? TR. Soy un loco furioso. Rum. Eşti sănătos la cap? TR. Iau leacuri de nebunie. non tradotto

Gli esempi (20) e (21) mostrano la divergenza sia interlinguistica, sia, fatto ancor più interessante, intra-linguistica nel rendere lo stesso marcatore (quaeso) nell’identico contesto sintattico e comunicativo di (19): come si può notare, nessun traduttore adotta la stessa resa riportata nelle traduzioni in (19). Dal punto di vista interlinguistico, il quaeso in contesto interrogativo mostra un ampio spettro di strategie traduttive: a quelle elencate in (19) si aggiungono in (20) un verbo di percezione uditiva in francese, ed espressioni di cortesia in spagnolo, rumeno e in italiano (ove di grazia ha una sfumatura di nervosa ur-genza); in (21) un’esclamazione in spagnolo (¡santo cielo!) e due casi di mancata traduzione, in italiano e in rumeno.

(20) Ps. 1080 Quid ait? quid narrat? quaeso, quid dicit tibi? It. Che dice? Che racconta? Di grazia, che t’ha detto? Fr. Eh bien? Que raconte-t-il? Que t’a-t-il dit, voyons? Sp. ¿Y qué dice? ¿Qué cuenta? Por favor, ¿qué te dijo? Rum. Şi ? Ce poveşti înşiră? Şi ce ţi-a spus, mă rog?

(21) Men. 910 Salvos sis, Menaechme. Quaeso, cur apertas brachium? It. Salve Menecmo! Perché ti scopri il braccio?’ non tradotto Fr. Salut, Ménechme. Pourquoi te découvres-tu le bras, s’il te plaît? Sp. Salud, Menecmo. Pero, ¡santo cielo! ¿Cómo descubres el brazo? Rum. A, bine te-am găsit, Menaechmus! De ce zvâcneşti aşa din braţ? non tradotto

La stessa discrasia emerge nelle traduzioni romanze di amabo (22) e obsecro (23) in contesti interrogativi.

(22) Poen. 1265 AD. Vbi ea, amabo, est? HA. Apud hunc est. It. A. Sì? E dov’è ora? AN. A casa sua’ non tradotto Fr. AD. De grâce, où est-elle? A. Chez lui Sp. AD. ¿Y dónde está ella, por favor? HA. En casa de Agorastocles. Rum. AD. Te rog, şi unde-i? HA. La el.

(23) Merc. 888 E. Ubi sit ego scio. CH. Tune, obsecro? It. E. So dov’è. C. Tu? È possibile? Fr. E. Je sais où elle est. C. Toi, grands dieux! Sp. E. Yo lo sé. CA. Pero preferiría saberlo yo. Rum. E. Ştiu unde este. CH. Ştii tu, ştii? (‘sai tu, sai?’)

4.4 Un caso particolare: amabo e la resa della connotazione diastratica Abbiamo accennato nell’introduzione che amabo è solitamente impiegato solo da donne in Plauto (e an-che in Terenzio; si vedano ad es. Adams 1984, Fedriani in stampa). La traduzione di questo marcatore di cortesia pone dunque un’interessante sfida che i traduttori hanno generalmente raccolto, tentando di conferire una connotazione diastraticamente marcata al corrispettivo romanzo di volta in volta adotta-to. Vediamo alcuni casi. Gli esempi (24) e (25) riportano due contesti in cui amabo modula la forza illo-cutiva di un ordine espresso da un imperativo. Le strategie più frequentemente utilizzate sono l’impiego di vocativi vezzeggiativi tipicamente femminili, come in (24), ove colpisce l’uniformità interlinguistica nella resa romanza, o l’arricchire il contesto ove amabo ricorre di elementi linguistici connotati in senso diastraticamente marcato (diminutivi, vezzeggiativi accompagnati da un possessivo, vocativi in genere: es. 25).

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(24) As. 939 De palla memento, amabo. It. Ricordati del mantello, caro Fr. N’oublie pas le manteau, mon chéri Sp. No te olvides del manto, cariño. Rum. Să nu uiţi, dragule, mantila.

(25) Cist. 113 Cura te, amabo It. Via, datti un’aggiustatina. Fr. Arrange-toi un peu, ma chère. Sp. Pero, mujer, arréglate un poco. Rum. Aşază-ţi straiul.

È interessante notare che quando eccezionalmente amabo è usato da un uomo con fini comici volti al rovesciamento temporaneo dell’identità virile (come nel caso in cui è usato dall’adulescens Argirippo: es. 26), la traduzione converge su soluzioni invece non marcate e assolutamente coerenti a livello interlin-guistico. Dunque possiamo ricavarne che nessuna delle lingue romanze considerate affida una connota-zione diastratica particolare alle forme di cortesia, nominali o verbali, utilizzate.

(26) As. 707 Amabo, Libane, iam sat est. It. Ti prego, Libano, ora è abbastanza. Fr. Je t’en prie, Liban, en voilà assez. Sp. Por favor, Líbano, ya basta. Rum. Te rog, ajunge-atât, Libanus.

5. Riflessioni conclusive Per cogliere il valore del confronto tra testo originario e traduzioni moderne in diacronia, possiamo pensare al valore dei prestiti nella storia delle lingue: come esempio può essere utile pensare ad un paio di prestiti latini in tedesco. Com’è noto, il mondo romano e quello germanico ebbero un primo lungo periodo di contatti intensi dalla conquista della Gallia da parte di Cesare (50 a.C.) per circa sei secoli. In questa prima fase, tra i molti elementi passati nelle lingue germaniche consideriamo il prestito Keller ‘cantina’, dal latino cellarium (a sua volta derivato da cella). Lo stesso etimo, cella, rientra nel mondo ger-manico anche nella seconda fase di contatti con la lingua latina, avvenuta nella fase della cristianizzazio-ne (tra il VI e il IX secolo d.C.) con il prestito Zelle ‘cella del monaco’. Che cosa ci dice questo doppio prestito? Della lingua di origine ci dice il valore fonetico-fonologico della consonante iniziale, che muta da una occlusiva velare sorda [k] ad una affricata alveola-re sorda [ts]; in pratica di una lingua lontana nel tempo che non ha certezze fonetiche i prestiti ci resti-tuiscono preziose tracce per comp*rne il quadro. Della cultura di origine il doppio prestito ci dice l’utilizzo nella vita quotidiana, legato non tanto alla dimensione o ad altre caratteristiche concrete, quanto alla funzione. E i due prestiti nella lingua di arrivo designano entità con due funzioni tanto diverse da oscurare la loro comune origine. Della cultura di arrivo, questi prestiti ci testimoniano l’inserimento di nuovi oggetti, nuove pratiche quotidiane e nuovi accadimenti socioculturali. In modo simile, tradurre i marcatori pragmatici di cortesia significa, guardando la lingua di ori-gine, cogliere il valore funzionale al di là dell’ampiezza del portato semantico delle forme originarie. La sensibilità del traduttore parte dal significato funzionale e QUESTO diventa l’elemento da trasporre nella lingua d’arrivo. La traduzione del valore pragmatico non dipende più dalle caratteristiche sintattiche o semantiche del lemma, ma dal corrispondente valore nelle lingue (e nelle culture) verso cui si traduce. Il processo di traduzione ci aiuta dunque a confermare nella lingua di partenza il valore procedurale, fun-zionale di elementi come i verbi richiestivi, per loro natura performativi e quindi semanticamente lonta-ni dall’essere elementi procedurali.

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In questo lavoro è emerso come nelle lingue di arrivo il processo di traduzione evidenzi somi-glianze e differenze tra l’originale e una data lingua, ma anche tra le lingue sincronicamente vicine. Più nello specifico, si possono trarre due ordini di conclusioni.

In primo luogo, in contesti ove le diverse lingue romanze possiedono marcatori equifunzionali rispetto ai marcatori di cortesia latini, i traduttori tendono a mostrare soluzioni traduttive coerenti sia a livello della singola lingua sia in prospettiva interlinguistica. Ciò avviene tipicamente quando un marca-tore serve a modulare la forza illocutiva di un comando espresso da un imperativo (es. 11-17) o quando costituisce da solo un turno di parola (es. 18). D’altro canto, i contesti critici per la traduzione sono invece costituiti da quei casi ove si verifica uno scarto funzionale tra la fonte latina e le lingue target: ad esempio, nelle frasi interrogative, per le quali le lingue romanze non dispongono di marcatori di cortesia dedicati, o comunque impiegati stabil-mente in quei contesti. Per attenuare questo tipo particolare di richiesta, infatti, le lingue romanze non ricorrono agli stessi marcatori di cortesia utilizzati in contesti imperativali, come faceva il latino, ma a forme che esprimono piuttosto urgenza e impazienza (italiano di grazia, francese de grâce) o a esclama-zioni (ad es., spagnolo ¡santo cielo!, francese grands dieux!); una terza via è quella di omettere la traduzione. I traduttori ricorrono dunque di volta in volta a diverse strategie dipendenti dal contesto. Un’ulteriore riflessione che scaturisce da queste osservazioni è che mentre il core meaning prototi-pico di questi marcatori, ossia quello di modulare un comando o una richiesta solitamente espressi all’imperativo, dà adito a soluzioni traduttive lineari e coerenti, la resa di funzioni probabilmente secon-darie e derivate (come il marcare l’urgenza di una domanda, o sottolinearne l’enfasi) pare più soggetta a interpretazioni diverse e soggettive. Questa variabilità è certamente alimentata dalla co-occorrente man-canza di marcatori equifunzionali nelle lingue target. Da ultimo, è interessante osservare in alcuni casi la consapevolezza dei traduttori della variazio-ne sociolinguistica nell’uso di marcatori di cortesia latini, osservata nell’analisi delle rese romanze di amabo. L’analisi di alcuni passi significativi ha mostrato come vengano adottate soluzioni traduttive di-verse e interessanti, che generalmente rendono giustizia all’uso diastraticamente connotato in latino.

Ringraziamenti Questo lavoro trae origine dalla ricerca PRIN 2010 (prot. 2010 HXPFF2_001) dal titolo «Rappresentazioni lin-guistiche dell’identità. Modelli sociolinguistici e linguistica storica». Diversi studi condotti all’interno del progetto sono raccolti nel portale http://www.mediling.eu. Ringrazio Luis Unceta Gómez e Mihaela Popescu per avermi segnalato le traduzioni plautine spagnole e rumene citate nelle fonti. Un grazie particolare a Chiara Fedriani e Chiara Ghezzi, stimolanti compagne della ricerca.

Fonti Per l’italiano: Plauto, Le commedie, a cura di Giuseppe Augello, 2a ed., Torino, UTET, 1980 (19721). Per il francese: Plaute, I, Amphitruo, Asinaria, Aulularia; texte établi et traduit par A. Ernout. Paris, Les Belles Lettres, 1967. Plaute, II, Bacchides, Captivi, Casina; texte établi et traduit par A. Ernout. Paris, Les Belles Lettres, 1964. Plaute, III, Cistellaria, Curculio, Edipicus; texte établi et traduit par A. Ernout. Paris, Les Belles Lettres, 1965. Plaute, IV, Menaechmi, Mercator, Miles gloriosus; texte établi et traduit par A. Ernout. Paris, Les Belles Lettres, 1970. Plaute, V, Mostellaria, Persa, Poenulus; texte établi et traduit par A. Ernout. Paris, Les Belles Lettres, 1962. Plaute, VI, Pseudolus, Rudens, Stichus; texte établi et traduit par A. Ernout. Paris, Les Belles Lettres, 1972. Plaute, VII, Trinummus, Truculentus, Vidularia, fragmenta; texte établi et traduit par A. Ernout. Paris, Les Belles Let-

tres, 1972. Per lo spagnolo: Plauto – Terencio, Comedia Latina. Obras completas de Plauto y Terencio (Traducción: José Román).

Bravo. Edición, introducciones y notas: Rosario López Gregoris), Madrid, Cátedra, 2012.

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Per il rumeno: Titus Maccius Plautus, Teatru, vol. 1: Casa cu stafii (Casa cu stafii - Mostellaria, Gemenii – Menaechmii, Odgonul – Ru-

dens), Traduction roumaine par Nicolae Teică, Préface par Eugen Cizek, Bucarest, Editura pentru litera-tură, 1968.

Titus Maccius Plautus, Teatru, vol. 2: Comedia măgarilor (Comedia măgarilor – Asinaria, Gărgăriţa – Curculio, Pseudolus, Stichus), Traduction roumaine par Nicolae Teică, Bucarest, Editura Minerva, 1970.

Titus Maccius Plautus, Teatru, vol. 3: Cartaginezul (Cartaginezul – Poenulus, Cutia cu jucării – Cistellana, Epidicus, Per-sanul – Persa), Traduction roumaine par Nicolae Teică, Bucarest, Editura Minerva, 1972.

Titus Maccius Plautus, Teatru, vol. 1: Casa cu stafii (Bacchidele – Bacchides, Captivii - Captiui, Militarul fanfaron – Miles gloriosus, Negustorul – Mercator), Traduction roumaine par Nicolae Teică, Bucarest, Editura Minerva, 1973.

Plaut, Terenţiu, Comedia latină [pour Plaute: Amphitryo, ilitarul fanfaron – Miles gloriosus et Ulcica – Aulularia] Nicolae Teică, Préface, tableau chronologique et bibliographie par Eugen Cizek, Bucarest, Editura Albatros, 1978.

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La composizione in abruzzese

Diana Passino

Abstract This contribution offers a general description of compounding in Abruzzese, focusing on V+N e N+A com-pounds, particularly vital in the dialect. However, other kinds of compounds are also discussed, as well as redu-plicative constructions, despite the fact that the latter do not correspond in all cases to prototypical compounds and do not have nouns as output category. KEYWORDS: Abruzzese dialect • Romance compounding • reduplication • linking vowels • stress assignment in compounds • plural of compounds 1. Introduzione Per omaggiare Maria Grossmann, che mi ha guidato alla scoperta della linguistica, ho scelto un tema a lei caro, la composizione, sul quale è intervenuta spesso. Il contributo di Maria alla composizione spazia dall’articolo sui composti V+N catalani (Grossmann 1986) al recente articolo con Paolo D’Achille sui composti italiani formati con nomi di colore (D’Achille & Grossmann 2013), passando per il volume monografico curato insieme a Livio Gaeta (Gaeta & Grossmann 2009) sui composti fra sintassi e lessi-co, i lavori sui composti aggettivali scritti in collaborazione con Franz Rainer (Grossmann & Rainer 2009) e Paolo D’Achille (D’Achille & Grossmann 2009, 2010), e quello sui composti romeni (Gross-mann 2012). A quest’ultimo contributo si ispirano le presenti note sulla composizione in abruzzese. L’Abruzzo dialettale non è unitario e comprende, oltre alla zona prevalente alto-meridionale, anche una piccola parte dell’area dialettale mediana (Pellegrini 1977). Sulla prima area, raffigurata nella carta 1, e in particolare sull’abruzzese orientale, si concentra il presente lavoro, basato in special modo sul dialetto di Teramo, rappresentativo della zona 1b e di San Valentino in Abruzzo citeriore, rappre-sentativo della zona 1c.

CARTA 1. Dialetti alto-meridionali1

1 Immagine scaricata da Wikimedia Commons, https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Neapolitan_language.jpg il 12.07.16

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Data la complessità dell’argomento della composizione romanza e la vastità della bibliografia esistente al riguardo, si riporteranno qui delle osservazioni preliminari. Per le nostre osservazioni ci si baserà su un corpus costituito da uno spoglio del DAM, dizionario abruzzese-molisano (Giammarco 1968-79) e del lessico raccolto da Savini (1881) in calce alla sua Grammatica del dialetto teramano, dallo spoglio del li-bro Piante Velenose d’Abruzzo (Pirone et al. 1992) e di quello della raccolta di vocaboli dialettali teramani Lu languazazze (Sardella 2001) nonché da dati di prima mano raccolti tramite ricerca sul campo con in-formatori di Teramo e San Valentino in Abruzzo citeriore (d’ora in poi San Valentino). In abruzzese, tramite composizione, sono stati creati produttivamente un gran numero di zoonimi e fitonimi attraver-so formazioni metaforiche del tipo V+N o N+A, che evocano animali e piante tramite espressioni ste-reotipiche, come spesso accade nella tassonomia popolare. Riportiamo qualche esempio da Teramo e San Valentino in (1):

(1) a. V+N preihaddì scaccialebbrə spaccapegnətə ngannapastorə prega-Dio scaccia-lepre spacca-pignatta inganna-pastore ‘mantide religiosa’ ‘Reichardia picroides’ ‘ciclamino’ ‘nottolone’ b. N+A jervamuritə celləvolarellə jervaricciə camumillamattə erba-murata uccello-svolazzante erba-riccia camomilla-matta ‘Parietaria’ ‘coccinella’ ‘Marrubio volgare’ ‘Adonide annua’ I composti abruzzesi V+N sono inoltre largamente usati per la denominazione di utensili (cacciamac-carunə togli-maccheroni ‘scolapasta’, rattacasciə gratta-cacio ‘grattugia’, bbruscacafé tosta-caffè ‘tostacaffè’) ed esseri umani. A questi ultimi ci si riferisce tramite epiteti ottenuti da formazioni metaforiche che in-dicano un’attività caratterizzante del designato (bbottapallunə gonfia-palloni ‘bugiardo’, ngiambacasə sba-glia-casa ‘maldestro’). Per formazioni riferite ad umani, allo stesso tempo metonimiche (il nome indica una parte saliente del designato e l’aggettivo la descrive), e metaforiche (una caratteristica del designato è evocata metaforicamente dalla combinazione di nome e aggettivo) sono frequentemente usati anche i composti N+A (vɔccapertə bocca-aperta ‘idiota’, scarpasciɔddə scarpa-sciolta ‘trasandato’, languazazzə lingua-sporca ‘pettegolo’, fregnammollə vagin*-molle ‘incapace’).

Nonostante in abruzzese siano documentati vari schemi di composizione, solo i tipi menzionati, ossia V+N e N+A, sembrano essere produttivi. Può apparire paradossale pronunciarsi sulla produttivi-tà di un processo di formazione di parola in un dialetto che nella sua forma più arcaica e originaria si può definire in via di estinzione secondo i criteri di Krauss (1992) e che nella sua fase moderna mostra forti interferenze con l’italiano, con il quale condivide la quasi totalità degli schemi di composizione. Parlando di produttività si è inteso qui indicare la prevalenza nel dialetto di composti ottenuti tramite questi due schemi di composizione rispetto agli altri e la possibilità testimoniata dai parlanti di creare nuovi composti secondo lo schema V+N e N+A. Secondo l’informante di San Valentino in Abruzzo citeriore, un mangione potrebbe essere catalogato come magnatwʊttə ‘mangiatutto’, una persona che spreca l’acqua potrebbe essere qualificata come spreicacquə ‘sprecaacqua,’ una con i capelli biondi come cocciabbiɔndə ‘testabionda’, un gatto particolarmente attivo nella caccia dei topi come cacciaswʊrgə ‘caccia-sorci’.

In questo contributo per questioni di spazio tratteremo prevalentemente di questi due tipi di composto, riservando un piccolo spazio agli altri schemi di composizione, secondo la seguente struttu-ra: il § 2 discute dell’accentazione dei composti, argomento importante ai fini della comprensione di al-cuni punti sviluppati in seguito; i §§ 3 e 4 sono dedicati rispettivamente ai composti V+N e N+A, men-tre il § 5 presenta una breve rassegna dei restanti tipi di composto; il § 6 si occupa delle costruzioni re-duplicative e il § 7 è dedicato alle conclusioni. Per non appesantire la lettura, si è pensato di limitare l’uso dei caratteri dell’Alfabeto Fonetico Internazionale (IPA) alle vocali, dato che i fenomeni rilevanti per la discussione dei composti, riduzione e metafonia, riguardano unicamente le vocali. Trascrivendo le vocali in IPA si è fatta in alcuni casi astrazione da alcune distinzioni non rilevanti per gli scopi di questo

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contributo.2 Ciononostante, non si è potuto uniformare totalmente il vocalismo, che presenta in alcuni casi delle differenze rilevanti tra Teramo e San Valentino. Le apparenti incongruenze di trascrizione che a volte appaiono, come ad esempio squajapatətə/squajapatatə, capəlummə/chəpəlwʊmmə, lan-guazazzə/languazɔzzə, dipendono dall’uso di dati provenienti da entrambe le varietà di abruzzese. Per il resto il dialetto è trascritto usando le norme ortografiche che regolano la grafia dell’italiano. 2. Schema accentuale dei composti I composti abruzzesi, non diversamente da quelli italiani (Nespor & Vogel 1986, Peperkamp 1997), hanno un accento di parola su ognuno dei due membri e seguono la tendenza generale riscontrata inter-linguisticamente secondo la quale i composti mostrano un comportamento fonologico più simile a quello di strutture sintattiche che di parole singole (cf. Montermini 2010: 86-87). In altre parole, ogni membro di un composto costituisce una parola a sé stante dal punto di vista fonologico. Come in ita-liano, il membro più a destra è più prominente, coerentemente con le caratteristiche intonative dell’enunciato. Come per il catalano, una delle diagnostiche dell’accentazione dei composti abruzzesi è il feno-meno di riduzione vocalica sincronica che caratterizza le vocali protoniche nelle varietà alto-meridionali.3 Generalmente in questi dialetti le vocali posteriori si riducono a [u], mentre quelle anteriori a schwa. Solo /a/ è immune alla riduzione. In una sottoarea alto-meridionale orientale che va dall’Abruzzo centro-meridionale alle Puglie esiste inoltre una differenza di qualità vocalica anche tra vo-cali toniche all’interno di frase e vocali toniche con accento di frase, e quindi anche in isolamento. Que-ste ultime si frangono nei dialetti in questione dando origine a dittonghi pesanti. A San Valentino questa alternanza vocale/dittongo pesante, a causa di successivi monottongamenti, concerne unicamente gli esiti di Ĕ, Ŏ, Ū, rispettivamente [e]/[ei], [o]/[ou], [ø]/[əu] (Passino & Pescarini in corso di pubblicazio-ne). Se osserviamo i composti abruzzesi esemplificati in (2), notiamo l’assenza di allofoni ridotti nei membri dei composti teramani (2a). A San Valentino, oltre all’assenza di vocali ridotte, si possono os-servare dittonghi pesanti nei membri a sinistra (2b) e a destra del composto (2c). Non solo dunque i due membri del composto hanno ognuno un accento di parola, ma i dati di San Valentino indicano che entrambi i membri presentano un accento di frase, il che indica la presenza di una frontiera fonosintat-tica importante tra i due membri del composto.

(2) a. b. c. vɔccapertə *vuccapertə leiccamɔssə *leccamɔssə stracciacourə *stracciacorə bocca aperta lecca muso strappa cuore ‘idiota’ ‘ruffiano’ ‘scena straziante’ Dal punto di vista accentuale dunque, i membri dei composti abruzzesi sono due parole fonologica-mente autonome. Discutendo dello schema accentuale dei composti è importante segnalare che all’interno dei composti riaffiora, a causa della posizione protonica, la /a/ finale di parola etimologica indicata in grassetto in (3), che normalmente si è ridotta a schwa nella diacronia dei dialetti abruzzesi. A San Valentino, nella stessa posizione in cui a Teramo riaffiora /a/, riemergono anche le altre vocali ri-dotte in fine di parola in diacronia, ma di questo parleremo più avanti. In (3a) esemplifichiamo, con dati di Teramo, la presenza di /a/ etimologica in posizione finale del primo membro di composto a con-fronto con l’assenza della stessa vocale in posizione finale di parola mostrata in (3b):

2 Invitiamo il lettore interessato al dettaglio degli inventari fonologici di Teramo e San Valentino a consultare le ricostruzioni in Passino (2016), Passino & Pescarini (in corso di pubblicazione), Passino & Pescarini (ms). 3 Non tutti gli autori sono d’accordo sul fatto che l’assenza di riduzione nel primo membro dei composti catalani sia una prova della presenza di un accento di parola (cf. Mascaró 2016 per una rassegna). Per quanto riguarda l’abruzzese, se si con-sidera oltre alla mancata riduzione, che potrebbe derivare da un accento secondario, anche il dittongamento registrato a San Valentino ed esemplificato nella parte finale di questo paragrafo, le prove a sostegno di un trattamento fonologico di ogni membro come parola isolata sono piuttosto forti.

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(3) a. scannacavallə magnapanə ‘rangasacchə jervaricciə scanna-cavallo mangia-pane aringa-secca erba-riccia ‘orzo murino’ ‘scarafa*ggio’ ‘troppo magro’ ‘Marrubio volgare’

b. scannə magnə ‘ranghə jervə ‘scanna’ ‘mangia’ ‘aringa’ ‘erba’

Questo fenomeno di resistenza alla riduzione della /a/ etimologica è stato descritto da Rohlfs (1966: 177) per quanto riguarda quelli che definiva nessi sintattici in relazione stretta. Alcuni esempi sono pre-sentati in (4), dove la /a/ compare in fine di parola all’interno del sintagma nominale, ma non in posi-zione finale di frase o sintagma :

(4) na bbella femmənə ‘una bella donna’

na femməna bbellə ‘una donna bella’

È interessante notare che la presenza di /a/ finale del primo membro è possibile anche quando essa non è etimologicamente motivata, come esemplificato in (5) con esempi rilevati in teramano:

(5) vattacəcirchjə frijaovə turciavədellə batti-cicerchia friggi-uova torci-budella ‘batticicerchia’ ‘padella’ ‘diverticoli’

La presenza di /a/ finale del primo membro esemplificata in (3) e (5) non è però generalizzata a tutti i composti, come si evince dai dati in (6):

(6) cambəsandə mistəcottə fenərikə campo-santo mosto-cotto fieno-greco ‘cimitero’ ‘mostocotto’ ‘fieno greco’

Quando non etimologica, /a/ si trova unicamente all’interno dei composti V+N. In Passino (2014), per rendere conto dei dati attestati, si è proposto di separare il fenomeno di riaffioramento di /a/ etimolo-gica da quello di inserzione di /a/ non etimologica. Secondo questa proposta, nel primo caso assistiamo a un fenomeno fonologico di resistenza alla riduzione in posizione pretonica, mentre nel secondo a un fenomeno d’interfaccia tra fonologia e morfosintassi: si è avanzata l’idea di considerare la /a/ non eti-mologica come una vocale di raccordo a tutti gli effetti, che concerne prevalentemente i composti V+N. Questi composti, a cui è dedicato il § 3, presentano uniformemente la vocale [a] che lega il primo membro del composto al secondo, mentre altri tipi di composti mostrano la presenza di [a] solo quan-do è etimologica e resiste alla riduzione. La presenza di vocali di raccordo che legano i due membri di un composto è un fatto abbastanza comune a livello interlinguistico.

3. I composti V+N 3.1 Introduzione I composti sono costruzioni formate a partire da parole che possono appartenere a categorie lessicali diverse o alla stessa categoria. La combinazione di parole appartenenti a due categorie lessicali produce in uscita dei composti che hanno generalmente il nome come categoria (cfr. Scalise 1994: 123–125). Esistono molti casi in cui però si forma un composto aggettivale. Oltre al caso menzionato da Scalise

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(1994: 123–125), in cui entrambi i costituenti siano degli aggettivi, composti V+N (mozzafiato, tagliafuoco) e A+N (verde bottiglia, giallo ocra) possono essere produttivamente aggettivali (Gaeta & Ricca 2009, Ricca 2010). Per quanto riguarda la classificazione dei composti seguiamo qui quella proposta da Scalise & Bi-setto (2009), nella quale, a un primo livello, la partizione rispetta la relazione grammaticale intrattenuta dai due membri di un composto (attribuzione, subordinazione o coordinazione) i composti si differen-ziano quindi in subordinativi, attributivi, coordinativi. All’interno di ognuna di queste tre classi di com-posti, a seconda della presenza o meno di testa all’interno del composto, i composti si dividono in en-docentrici ed esocentrici. I composti V+N in abruzzese sono subordinativi ed esocentrici. Come quelli descritti da Maria Grossmann in romeno (Grossmann 2012: 155-156) e in catalano (Grossmann 1986), questi composti denominano animali e piante (ngannəpastorə inganna-pastore, ‘nottolone’, cecasurgə acce-ca-topi, ‘agrifoglio’, cecapascə acceca-pesce, ‘Euphorbia helioscopia’) o si riferiscono ad esseri umani tra-mite epiteti, metafore di tipo generalmente dispregiativo (scjɪnciapajə; spargi-paglia, ‘buono a nulla’, pia-gnapezzə piangi-pezzi ‘lamentoso’). Dal punto di vista semantico, ritroviamo in abruzzese alcune forma-zioni metaforiche esistenti altrove nel dominio romanzo come ngannapastorə inganna-pastore ‘nottolone’ o fermavuvə ferma-buoi ‘Onionis spinosa’, che ha un corrispondente spagnolo detienebuey, prehaddì prega-dio ‘mantide religiosa’, metafora esistente anche in alcuni dialetti del dominio occitano e catalano. Come osserva Ricca (2015: 690), un significato comune di questi composti può essere riassunto come un’entità che tipicamente attua l’azione V sul nome N. Il carattere di V è dunque agentivo, mentre il ruolo dell’argomento N è di paziente.

Oltre a piante, animali ed esseri umani, tramite questo tipo di composto è possibile indicare in maniera metaforica anche cibi (stracciavocchə strappa-bocca ‘pagnotta’, mazzafamə ammazza-fame ‘frittel-la’, crepaflanghə crepa-fianchi ‘specie di fico piccolo’), carte (tajacoccə taglia-testa ‘asso pigliatutto’, crijapopulə ricrea-popolo ‘asso di bastoni’).4 A differenza del romeno, dove sono limitatamente produttivi (Gross-mann 2012: 155), in abruzzese, come in catalano (Grossmann 1986), lo schema di composizione è mol-to produttivo, e designa tra le altre cose utensili o arnesi vari descrivendone l’uso (squajapatatə squaglia-patate, ‘passapatate’, appennaramə appendi-rame ‘appendipentole’, scaricatuppə scarica-palline di canapa ‘cerbottana’, tajafenə taglia-fieno ‘grossa lama’). Nei composti V+N abruzzesi, come in quelli italiani, il tratto di animatezza non è quindi specificato. 3.2 Forma del costituente verbale Come osservato in Thornton (1990) e Bisetto (2004) tra gli altri, questi composti, tipici delle lingue ro-manze (cfr. Tekavčić 1980, § 1127), sono stati fin dalla seconda metà dell’Ottocento al centro dell’attenzione dei romanisti, che si sono interrogati sulla forma del costituente verbale, compatibile con varie ipotesi: (a) un imperativo di seconda persona singolare (cfr. Diez 1870–1875, Darmesteter 1894, tra gli altri), (b) un presente indicativo di terza persona singolare (Tollemache 1945: 183), (c) un tema verbale (Pagliaro 1930, Bork 1990, Vogel & Napoli 1995, Gather 2001). Queste opzioni cambiano se consideriamo i verbi che non appartengono alla prima coniugazione, nel qual caso la forma verbale può essere analizzata come seconda persona dell’indicativo, oltre che dell’imperativo (Masini & Scalise 2012) e non più come terza dell’indicativo. Come sottolinea Ricca (2015: 700), discutere di queste alternative ha senso unicamente da una prospettiva diacronica, dato che sincronicamente ci sono pochi dubbi sul fatto che si tratti di un tema verbale il cui significato non è connesso a quello di alcun morfema flessivo verbale o di persona. Per la costruzione del template morfologico si fa dunque uso di un morfoma (nel senso di Aronoff 1994) e non di una forma verbale flessa. Tuttavia (cfr. Ricca 2015: 700-701) resta il problema della forma sulla quale questo morfoma è basato. Ricca (2015: 700-701) osserva a questo ri-guardo che anche solo paragonando lo spagnolo e l’italiano si nota una variazione interlinguistica (Rai-ner 2001: 389-391). Dal punto di vista dell’identità della forma verbale del composto, l’osservazione de-lle lingue romanze nel loro insieme è importante. Come osserva Floričić (2008), Darmesteter (1894) ha sfruttato la ricchezza morfologica di altri sistemi verbali romanzi, dato che il francese non era rivelatore, per farsi un’idea della struttura di questi composti. Secondo Darmesteter i dati italiani supportano l’ipotesi dell’imperativo in quanto la seconda e la terza coniugazione italiana distinguono chiaramente 4 La metafora crijapopulə si riferisce all’organo sessuale maschile ed è poi estesa all’asso di bastoni.

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l’indicativo e l’imperativo (Napoli & Vogel 1990), come mostrato nella Tabella 1 adattata da Floričić (2008); cfr. anche Thornton (1990: 178-181) e, per una tabella più completa sui rapporti tra diverse basi e diverse forme flesse nei verbi italiani, Thornton (2005: 158).

TABELLA1.Coincidenzatraimperativo2SGeformeverbalideicompostiV+Ninitaliano

1a coniugazione 2a coniugazione 3a coniugazione 3a coniugazione in -isc Infinito presente amare battere coprire pulire Indicativo presente (2sg) ami batti copri pulisci Indicativo presente (3sg) ama batte copre pulisce Imperativo (2sg) ama batti copri pulisci Primo membro di V+N ama batti copri pulisci

Ampliamo allora l’osservazione della morfologia verbale romanza ai dialetti, nel nostro caso l’abruzzese. Esemplifichiamo la situazione abruzzese riproducendo nella Tabella 2 una tabella sul modello di quella precedente utilizzando i dati di San Valentino. In questa tabella, seguendo la Tabella 1 fatta per l’italiano, faremo la distinzione tra seconda e terza coniugazione e all’interno di quest’ultima distingue-remo anche i verbi in -isc. Useremo come esempi i verbi sanvalentinesi magnə` ‘mangiare’, ɔgnə ‘ungere’ e armurò ‘spegnere’, rispettivamente della prima, seconda e terza coniugazione e il verbo puliscə per la terza in -isc5. Questi verbi formano rispettivamente i composti magnapanə ‘scarafa*ggio’, ɔgnamɔssə ‘ruffiano’, ar-mouracannalə ‘smorzacandela’, pulisciascarpə ‘lustrascarpe’:

TABELLA2.Coincidenzatraindicativo3SGeformeverbalideicompostiV+Ninabruzzese

1a coniugazione 2a coniugazione 3a coniugazione 3a coniugazione in –isc Infinito presente magnə` ɔgnə armurò puliscə

Indicativo presente (2sg) mignə ugnə armurə puliscə Indicativo presente (3sg) magnə ɔgnə armourə puliscə Imperativo (2sg) magnə ugnə armurə puliscə Primo membro di V+N magna ɔgna armoura puliscia

Come si vede nella Tabella 2, facendo astrazione dal timbro della vocale finale, che nel primo membro dei composti è la vocale di raccordo [a] mentre nei verbi flessi è ridotta a schwa, per la prima coniuga-zione le opzioni sono le stesse che in italiano: il costituente verbale coincide con l’imperativo di seconda singolare e con il presente indicativo di terza singolare. La seconda persona singolare dell’indicativo in questi dialetti è ottenuta tramite innalzamento vocalico da morfologizzazione della metafonia (cf. § 3.3.1), che generalmente non riscontriamo nei primi membri dei composti V+N, come esemplificato in (7).

Per quanto riguarda i verbi delle altre coniugazioni, possiamo considerarli come parte di un’unica ma-croclasse, applicando la proposta di Dressler & Thornton (1991) riguardante la flessione verbale italia-na. Le prove a sostegno di questa proposta fornite dai due autori sono applicabili anche al teramano, dove le classi flessive evolutesi dalle quattro classi latine sono distinte unicamente dall’imperativo non metafonico/metafonico nella seconda persona e dalla terminazione -atə/-utə del participio passato. L’imperativo non metafonico e la terminazione -atə sono caratteristici della prima coniugazione mentre l’imperativo metafonico e il participio in -utə sono caratteristici delle altre tre. Savini (1881: 67) distingue

5 Nel dialetto di San Valentino A latina tonica in sillaba aperta evolve in schwa mentre Ī tonica nello stesso contesto evolve in [o] per monottongazione della fase dittongale [oi].

(7) magnapanə passafarinə mangia-pane passa-farinə ‘scarafa*ggio’ ‘setaccio’ *mignapanə *pissafarinə

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quattro coniugazioni per il teramano scarsamente differenziate tra loro tanto che propone di ridurle a una.

Per la seconda macroclasse il ventaglio di possibilità compatibili con la forma del costituente verbale sembra ridursi: come la seconda persona singolare, l’imperativo non è un’opzione possibile, da-to che in questi verbi anche l’imperativo presenta un innalzamento della vocale accentata del radicale (sində ‘senti’ < sendì ‘sentire’, vitə ‘vedi’ < vedé ‘vedere’, appinnə ‘appendi’ < appennə ‘appendere’). Nei com-posti abruzzesi con primo membro della seconda macroclasse, tuttavia, il costituente verbale non pre-senta innalzamento metafonico, come mostrato in (8):

Ad un primo sguardo dunque, come ci mostra la Tabella 1, l’assenza di metafonia nei primi membri dei composti indicherebbe nella terza persona singolare l’origine della forma verbale, come per lo spagnolo (Rainer 2001: 391).

La coincidenza delle forme verbali però, come abbiamo visto, non è totale, a causa della presen-za della vocale finale di raccordo [a] nei primi membri dei composti abruzzesi V+N. Se i composti fos-sero formati da reali terze persone dell’indicativo, dunque complete di flessione verbale, o temi coinci-denti con esse, non avremmo la comparsa generalizzata della vocale [a] finale, dato che essa è tipica del-la sola prima coniugazione. Sembrerebbe quindi che in abruzzese più che a una terza persona dell’indicativo, o a un tema verbale omofono ad essa, si faccia ricorso a una radice, che si lega poi al membro successivo del composto tramite una vocale.6 Questa radice coincide in generale con quella della terza persona singolare ed è dunque non metafonica. Esiste però una serie di composti che fanno eccezione a questa generalizzazione e presentano delle radici metafoniche nei primi membri. Abbiamo visto in precedenza che le radici metafoniche nei verbi della seconda macroclasse coincidono con la se-conda persona singolare e con l’imperativo, mentre nella prima macroclasse esse coincidono solo con la seconda singolare perché l’imperativo non è metafonico. Tuttavia abbiamo rilevato nella nostra inchie-sta un gruppo di verbi sanvalentinesi della prima coniugazione come sutterrə` ‘sotterrare’, apparecchjə` ‘ap-parecchiare’, prehə` ‘pregare’, arecetə` ‘recitare’, ammucchə` ‘versare’, annudə` ‘annodare’, treschə` ‘trebbiare’, abbrwʊschə` ‘abbrustolire’, avvətə` ‘avvitare’ che possiedono imperativi metafonici. Tra queste eccezioni troviamo verbi come abbruschə` e prehə` che, come visto in precedenza, formano composti con la radice non metafonica (abbrwʊscacafé, prehaddì), ma troviamo anche il verbo scrətə` ‘pulire dalla terra/fango’, che usa la radice metafonica. Quando le forme metafoniche sono usate eccezionalmente nei primi membri dei composti, esse coincidono con la seconda persona singolare ma anche sempre con l’imperativo. Esemplifichiamo questa situazione di eccezionale impiego di forme metafoniche e sincretismo tra for-me verbali della seconda dell’indicativo e imperativo nella Tabella 3. I verbi sanvalentinesi scrətə` ‘pulire dalla terra/fango’, rombə ‘rompere’, durmò ‘dormire’, pʊliscə ‘pulire’ che formano i composti scritazappe ‘ar-nese per pulire la zappa’, rwʊmbacistə ‘rompiscatole’, dwʊrmasembrə ‘persona che dorme molto’7, puliscia-scarpə ‘pulisciscarpe’ sono usati per esemplificare il nostro punto:

6 Si vedano Dressler & Thornton (1991) per la discussione del ruolo della base tematica e base radicale in italiano e nei com-posti V+N). 7 Nel caso del verbo dormire, intransitivo, non abbiamo ovviamente esempi di V+N, essendo solitamente N un argomento interno diretto e dunque un oggetto del verbo.

(8) ɔgnamɔssə appennaramə vɔllalattə armouracannalə ungi-muso appendi-rame bolli-latte smorza-candela ‘ruffiano’ ‘appendipentole’ ‘bollilatte’ ‘spegnicandele’ * ʊgnamɔssə *appinnəramə *vʊllalattə *armuracannalə

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TABELLA3.Coincidenzaeccezionaletraindicativo2SG,imperativoeprimimembrideicompostiV+Nnell’abruzzesediSanValentino.

1a coniugazione 2a coniugazione 3a coniugazione 3a coniugazione in -isc Infinito scretə` rɔmbə durmò puliscə Indicativo presente (2SG) scritə rwʊmbə dwʊrmə puliscə Indicativo presente (3SG) scretə rɔmbə dormə puliscə Imperativo (2SG) scritə rwʊmbə dwʊrmə puliscə Primo membro di V+N scrita rwʊmba dwʊrma puliscia

Nelle Tabelle 2 e 3 abbiamo visto dunque la presenza di basi diverse nella composizione V+N in abruzzese: da un lato la terza persona dell’indicativo e dall’altra la seconda, coincidente con l’imperativo. Per spiegare la loro presenza, possiamo supporre che il sincretismo tra imperativo e terza persona singolare dell’indicativo nei verbi della prima coniugazione possa aver favorito la rianalisi di una composizione basata su radici di terza persona singolare dell’indicativo come invece basata su im-perativi, o viceversa. Di conseguenza, un secondo strato in cui la composizione è basata su basi meta-foniche per i verbi della coniugazione non prima (rwʊmb-, dwʊrm- etc.) si sarebbe sovrapposto a quello già esistente. Segnaliamo che per i composti della seconda macroclasse la metafonia della base del pri-mo membro è spesso opzionale (rwʊmbacistə/rɔmbacistə). La presenza di imperativi metafonici della prima coniugazione, rappresentata nella Tabella 3 per completezza, e ancora di più la scelta di radici metafoni-che per i composti della prima, sono eccezionali rispetto alla scelta di radici metafoniche nei composti da verbi della seconda macroclasse.

Il costituente verbale è stato anche analizzato come un nome di agente con suffisso troncato (Coseriu 1977; Zuffi 1981; Bisetto 1999; cfr. anche Grossmann 1986). Questa opzione permetterebbe di evitare la classificazione di questi composti come esocentrici, spiegando anche la presenza della voca-le tematica i nelle basi di seconda coniugazione. I problemi di queste ipotesi, già sottolineati per l’italiano (cfr. Dressler & Thornton 1991, Ricca 2015 tra gli altri), esistono anche per l’abruzzese: in par-ticolare l’utilizzo della base in -isc nei composti e non nei deverbali agentivi. 3.3 Genere e numero dei composti V+N Per quanto riguarda il genere di questi composti, quando si tratta di esseri umani, esso deriva automati-camente dal sesso del designatum. Mentre però nelle lingue romanze standard gli altri tipi di composto V+N sono generalmente maschili per default, salvo qualche caso in cui l’iperonimo più comune sia femminile come nel caso di lavastoviglie (Ricca 2015: 691), in abruzzese per i composti che non denotano umani non è facile raggiungere una generalizzazione riguardante l’attribuzione del genere tramite una regola che lo assegni a partire da quello di un iperonimo. Thornton (2009) discute del ruolo degli ipero-nimi nell’assegnazione del genere, evidenziando la possibilità di trasmettere il genere agli iponimi solo nel caso di iperonimi che siano basic level terms (Rosch et al. 1976, Rosch 1978), ovvero di livello di speci-ficità ottimale per categorizzare nuove entità senza appesantire la cognizione. I dati abruzzesi non sono facilmente interpretabili in questo senso, senza uno studio specifico della tassonomia popolare e della cultura locale. A San Valentino scannacavallə ‘orzo murino’ è femminile mentre scaccialeibbrə ‘Reichardia picroides’ è maschile. La parola per ‘ciclamino’, scɔccapegnətə, è femminile pur designando un fiore. Tra gli utensili, se passafarinə ‘setaccio’, vattacicirchjə ‘batticicerchie’ e abbrwʊscacafé ‘tostacaffé ‘ sono maschili, squajapatətə, rattachəsce, cacciamaccarunə e frijaovə sono femminili. Tra gli animali si registra il maschile (ngan-napastorə ‘nottolone’, spiapascə ‘gerride’) come il femminile (prehaddì ‘mantide religiosa’). Dato però che i basic level terms sono per certi versi specifici ad ogni cultura (Dougherty 1978: 67), non è possibile esclu-dere che l’assegnazione del genere degli zoonimi e fitonimi avvenga ereditando il genere di iperonimi. È anche possibile che il genere venga assegnato copiando quello di un nome a cui il designatum viene asso-ciato o in alcuni casi anche copiando il genere del corrispondente italiano. Questi ultimi due criteri sono stati proposti da Thornton (2003a, b; 2009) come rilevanti per l’assegnazione del genere ai prestiti in ita-liano (cf. anche Corbett 1991).

Per quanto riguarda il numero, il costituente nominale dei composti V+N è un oggetto del ver-bo che può essere singolare, come in stracciacourə strappa-cuore ‘scena straziante’, o plurale, come in va-

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sciapitə bacia-piedi ‘Centaurea solstitialis’. Mentre in romeno (Grossmann 2012: 156) e in italiano (Biset-to 2004: 46)8 questo tipo di composto è generalmente invariabile, nell’abruzzese di San Valentino e di Teramo presenta diverse opzioni di pluralizzazione, che mostrano un’interazione con il genere. 3.3.1 Metafonia e pluralizzazione: flessione interna in abruzzese Prima di discutere della pluralizzazione dei composti in abruzzese, è importante illustrare brevemente come la pluralizzazione in generale avvenga nei dialetti in questione, ossia attraverso una chiusura voca-lica dipendente dalla morfologizzazione della metafonia. La metafonia è un processo fonologico di in-nalzamento della vocale radicale accentata sotto l’influsso di vocali alte finali atone, attivo in tardo-latino e comunemente attribuito alla fase proto-romanza (Lausberg 1976: 228, Loporcaro 2011: 127). Mentre generalmente nei dialetti centro-meridionali il processo era avviato da -i e -u finali e solitamente colpiva unicamente le vocali medie, nella zona abruzzese orientale di cui ci stiamo occupando, salvo poche eccezioni, la metafonia era generalmente indotta unicamente da -i finale e colpiva anche /a/ in-sieme alle vocali medie (Maiden 1991). In seguito alla riduzione delle vocali finali a schwa negli stessi dia-letti, dato che -i finale, non sempre originario, contraddistingueva le seconde persone singolari del pre-sente indicativo e imperativo nonché i plurali maschili, l’innalzamento vocalico ha conseguito il valore di esponente di plurale nei maschili e di seconda persona singolare nell’indicativo, mentre i femminili, tranne alcuni casi che riguardano soprattutto gli aggettivi, sono invariabili. Il plurale si ottiene quindi tramite flessione interna. I femminili e i maschili con vocali radicali alte sono invariabili. La situazione descritta è esemplificata in (13) con dati del teramano: (13) Singolare Plurale la pannə li pannə la penna/le penne lu pannə li pinnə il panno/i panni lu pascə li piscə il pesce/i pesci

lu vɔvə li vuvə il bue/i buoi lu fijə la fijə il figlio/la figlia li fijə li fijə i figli/le figlie

lu ciucciə li ciucciə l’asino/gli asini nɔvə nɔvə nuova/nuove nɔvə nuvə nuovo/nuovi Avendo illustrato il valore morfologico dell’innalzamento vocalico in abruzzese, possiamo tornare a di-scutere delle opzioni possibili per la pluralizzazione dei composti V+N. 3.4 Pluralizzazione dei composti V+N Nel dialetto di Teramo i composti V+N restano generalmente invariabili quando femminili (rattacasciə gratta-cacio ‘grattugia/e’, frijaovə friggi-uova ‘padella/e’), dato che il femminile nel dialetto è solitamente invariabile, non mostrando flessione interna. Se il composto è maschile, esso pluralizza tramite flessione interna del secondo membro, secondo il pattern di innalzamento metafonico del dialetto in questione: a Teramo magnapanə mangia-pane ‘scarafa*ggio’ diventa magnapinə, (g)uastammastə guasta-basto ‘maldestro’ diventa (g)uastammistə, struscicafornə ‘spazza-forno’ diventa struscicafurnə, a San Valentino caccialeibbrə ‘Rei-chardia picroides’ diventa caccialjɪbbrə. Il genere maschile del composto forza l’innalzamento vocalico nel

8 In italiano tra i composti V+N esiste in realtà un numero non trascurabile di composti variabili es. il tergicristallo/i tergicristal-li, che non giustificano un plurale “esterno” motivato da una (inesistente) opacizzazione del composto (Ricca 2016: 701-703).

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plurale anche in argomenti del verbo femminili, che in isolamento sarebbero invariabili, i.e stannəmassə9 stendi-massa ‘matterello’ diventa stannəmissə, nonostante la massə sia invariabile, scardalənə carda-lana, ‘fi-gura che andava in giro a cardare la lana’, che diventa al plurale scardalinə. Il genere maschile del compo-sto può forzare l‘innalzamento vocalico (opzionale) anche sul verbo: il composto scɔngiafamijə ‘rovina-famiglie’ ha il plurale scwʊngiafamijə, ɔgnamɔssə ungi-muso ‘ruffiano’ può avere oltre ɔgnamʊssə anche wʊgnamwʊssə. La pluralizzazione sulla radice verbale a San Valentino sembra possibile solo coi verbi in vocale posteriore (cf. ɔgnamɔssə/wʊgnamwʊssə vs. lɛccamɔssə che pluralizza unicamente innalzando la vocale nel nome, lɛccamwʊssə). Il DAM tuttavia riporta casi come scherdəlé carda-lana M.PL., in cui la vocale del verbo è innalzata al maschile plurale. 4. I composti N+A Uno tra i tipi di composto più produttivi in abruzzese è il tipo N+A esocentrico, indicato da Maria Grossmann come raro in romeno, ad es. pieptalb petto-bianco ‘pettobianco’ (Grossmann 2012: 163-164). Si tratta di composti attributivi esocentrici dove l’aggettivo funge da modificatore del nome, ma la testa del composto è esterna, non realizzata. In abruzzese tramite questi composti si formano prevalen-temente epiteti offensivi riferiti ad umani in maniera metonimica, indicandone un tratto caratteristico, che per metafora si riferisce a una qualità generalmente negativa i.e facciaggiallə faccia-gialla ‘infame’, vɔc-capertə bocca-aperta ‘sciocco’, mɔssəɔndə muso-unto ‘che si vende al migliore offerente‘, cɔcciaschiɔrtə testa-storta ‘che agisce in maniera sbagliata’, caddzəcalatə calze-calate ‘moccioso, di scarso credito’, languazɔzzə lingua-sporca ‘pettegolo’. 4.1 Genere e numero nei composti N+A esocentrici Nei casi degli epiteti, l’attribuzione del genere al composto è semantica, ossia determinata dal genere biologico del referente. Il genere del composto è visibile nell’accordo ma anche nella pluralizzazione. Come già visto per i composti V+N, la pluralizzazione di questi composti interagisce con il genere del composto secondo la generalizzazione interna al dialetto che i nomi femminili non subiscono innalza-mento vocalico, e mostra inoltre altre peculiarità. Esistono infatti casi in cui si pluralizza il composto tramite la flessione interna derivante dalla morfologizzazione della metafonia del solo secondo mem-bro, come ad esempio nel caso di facciaggiallə e scarpascioutə che, quando denotano individui di sesso mas-chile, diventano rispettivamente facciaggjɪllə e scarpasciəutə a San Valentino ma anche nel dialetto di Tera-mo. Esistono in aggiunta casi in cui entrambi i membri flettono al plurale (cɔcciaschiɔrtə che diventa cʊcciaschiwʊrtə, mɔssəɔndə che diventa mʊssiwʊndə a San Valentino, vɔccapertə che diventa vʊccapirtə) 10. In questi casi è interessante notare che, come si è visto in precedenza per i composti V+N, il plurale dei membri del composto è ottenuto tramite innalzamento vocalico (morfologizzazione della metafonia) e che questo innalzamento riguarda anche i membri del composto femminili che non dovrebbero essere sen-sibili alla metafonia: presi singolarmente, i nomi cɔcciə ‘testa’, vɔcca ‘bocca’ e gli aggettivi femminili giallə, stɔrtə, apertə, scioutə sono invariabili). Nel plurale mʊssiwʊndə, più regolare dato che il nome e l’aggettivo sono maschili e quindi pluralizzati ordinariamente tramite innalzamento, è interessante notare la riappa-rizione della /i/ finale in protonia sintattica, che nei dialetti alto-meridionali è ridotta a schwa in posizio-ne finale di parola. A San Valentino, in effetti, osserviamo il riaffioramento di alcune vocali interne pre-toniche anche diverse da /a/ (cf. § 2). I primi membri dei composti N+A, se pluralizzati, mostrano me-tafonia e /i/ finale se maschili (mʊssiwʊndə), radice non metafonica e schwa finale se femminili (mɔssewʊndə).

Verrebbe spontaneo ascrivere i casi di pluralizzazione del solo membro a destra a opacizzazioni, univerbazioni del tipo pomodoro > pomodori, ma la situazione non è così chiara. Una diagnostica dell’opacizzazione è fornita dalla riduzione vocalica: se il confine morfologico si fosse offuscato in

9 Stannəmassə e ratəmassə, che hanno più o meno lo stesso significato, ‘mattarello’ sono le uniche due eccezioni finora riscon-trate nel nostro corpus alla presenza di una [a] di raccordo nei composti V+N. 10Vɔccaperte è attestato anche con la pluralizzazione del solo secondo membro del composto, i.e. vɔccapjɪrtə.

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questo tipo di composti, dovremmo assistere ad una riduzione vocalica nel primo membro, che avrebbe perso lo status di parola autonoma e dunque l’indipendenza fonologica testimoniata dall’accento (Pe-perkamp 1997 mostra la possibile riduzione vocalica di /ɛ/ in italiano in ‘familiar compounds’ come reg-giseno); cosa che invece non avviene in situazioni come quella di vɔccapirtə, pluralizzato sull’ ultimo mem-bro ma con vocale non ridotta nel primo.

Ricapitolando i dati esaminati, osserviamo che la pluralizzazione dei composti N+A esocentrici concerne l’ultimo o entrambi i membri e avviene tramite innalzamento vocalico che colpisce anche nomi e aggettivi femminili membri del composto, diversamente dalla situazione documentata per gli stessi nomi in isolamento.

La pluralizzazione tramite innalzamento è sensibile unicamente al genere del composto e non a quello dei singoli membri. Essa infatti avviene solo quando il composto qualifichi un essere animato maschile (‘ssu languazazzə ‘questo pettegolo’ vs. ‘ssi languazizzə ‘questi pettegoli’), mentre se riferito a es-seri animati di sesso femminile il plurale non mostra innalzamento vocalico: a Teramo i composti N+A femminili sono invariabili (‘ssa/‘sse languazazzə ‘questa/queste pettegole’); a San Valentino allo stesso modo i maschili pluralizzano tramite innalzamento al contrario dei femminili, che però, pur non presen-tando innalzamento, non sono invariabili a causa del riaffioramento della vocale finale originaria in po-sizione protonica nel singolare ma non nel plurale(la languazɔzzə vs. le languəzɔzzə). Quando essi siano ri-feriti ad esseri dotati di sesso biologico, sembra quindi possibile descrivere la pluralizzazione dei com-posti N+A esocentrici come determinata dal genere, attribuito su base semantica, di un controllore animato non espresso. 4.2 Composti N+A endocentrici Tra i composti N+A esistono anche delle formazioni epitetiche endocentriche, create tramite metafora ma non metonimiche e dove quindi è presente una testa. In (14), riportiamo alcuni esempi di appellativi riferiti ad umani:

(14) canəmortə cane-morto ‘indolente’ ceppəsicchə ceppo-secco ‘persona magra’ Oltre ai soprannomi che riguardano umani, tramite i composti N+A endocentrici vengono formati una serie di composti utilizzati nella tassonomia popolare (jervavulparjə erba delle volpi ‘Aconito napoletano’, jervabruciosə erba-bruciante ‘Mezereo’, jervamarə erba-amara ‘Dulcamara’ nocəpazzə noce-pazza ‘Stramonio’ sammucəfemmenə sambuco-femmina ‘Ebbio’, merlə acquarolə ‘merlo acquaiolo’). Per quanto riguarda la plu-ralizzazione, nei composti N+A endocentrici, se la testa è maschile entrambi i membri pluralizzano tramite metafonia (chinəmurtə, merlə acquarulə)11, se la testa è femminile invece, nel teramano il composto è invariabile, dato che la pluralizzazione in questo dialetto avviene tramite innalzamento vocalico metafo-nico che riguarda, salvo eccezioni, unicamente i maschili. A San Valentino invece, la vocale finale origi-naria del primo membro che riaffiora in posizione protonica distingue il femminile singolare dal plurale. Le condizioni non sono quindi differenti da quelle dei composti esocentrici visti sopra.

Tra i composti N+A endocentrici, esistono composti opacizzati del tipo cambəsandə ‘camposan-to’ che pluralizza unicamente sull’ultimo membro: cambəsində. 5. Altri tipi di composto Oltre ai composti N+A e V+N esaminati sopra, esistono in abruzzese un certo numero di composti N+N e composti formati con nomi e numerali o preposizioni/avverbi. Tra i composti formati con numerali troviamo cendəhammə cento-gambe ‘millepiedi’, cendəpillə cento-pelli ‘stomaco dei ruminanti’ cin-11Sardella (2001) però riporta la pluralizzazione del solo secondo membro in hallə cetrunə gallo-cedrone ‘vanitoso’ quando quest’ultimo si riferisce metaforicamente ad umani, con il senso di ‘vanitoso’. Possiamo attribuire questo fatto ad una pro-babile opacizzazione, che coinvolge anche qualche altro composto come cambəsandə ‘cimitero’, che in teramano pluralizza come cambəsində, invece che chimbəsində.

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guəfronnə cinque-fronde ‘schiaffo’. Tra quelli formati da avverbi e preposizioni abbiamo capassɔttə capo-sotto ‘tuffo a mo’ di delfino’ a Teramo e lo stesso, chəpassɔttə, ‘a testa in giù’ a San Valentino. A San Va-lentino esiste anche chəpasottə senza raddoppiamento dal significato ‘in basso rispetto a...’ come in cə stəivə chəpəsottə alla preitə ‘sta in basso rispetto alla pietra’. Chəpassɔttə nel senso di ‘a testa in giù’ è ovviamente invariato, mentre il secondo può pluralizzare tramite flessione interna del secondo membro chəpəswʊttə. In ultimo abbiamo i composti con condr- ‘contro’ condrastratə o cundrastratə contro-strada, entrambi col senso di ‘scorciatoia’ o ‘strada alternativa’ e condrachjivə ‘chiave di riserva’.

I composti N+N sono perlopiù subordinativi endocentrici (capəbbarchə ‘capobarca’ crucəramə cro-ce-rami -croce di rami- ‘biforcazione di un tronco’, crucəstratə croce-strada -croce di strade- ‘incrocio’12, e dvandva, ossia copulativi di coordinazione (casciabbangə cassa-panca ‘cassapanca’, maschiəfammənə maschio-femmina ‘di sesso incerto, omosessuale’). Questi ultimi hanno la caratteristica di avere due teste: non si può infatti affermare la prominenza semantica di uno dei due nomi e considerare l’altro nome come un modificatore (Bisetto 2004: 37 per l’italiano). Tra i dvandva abbiamo di nuovo una serie di composti me-taforici (mazzafrustə mazza-frusta o mazzafiondə mazza-fionda ‘correggiato’, mazzafɔstə mazza-fusto ‘arne-se per battere i cereali e legumi’, mazzaforbəcə mazza-forbice ‘forfecchia’). I composti menzionati, anche se dvandva, sembrano pluralizzare sul secondo membro (mazzafwʊstə), il che potrebbe indicare che si tratta di composti opacizzati.

Per quanto riguarda i composti N+N subordinativi endocentrici, essi sono soggetti a diverse in-terpretazioni semantiche ascrivibili alla relazione che intercorre tra i due nomi. L’interpetazione del sin-golo composto dipenderà quindi dal contesto, dalla conoscenza enciclopedica del parlante e dell’ascoltatore e dall’esistenza di composti formati sullo stesso modello (Bisetto 2004:39, Grossmann 2012:150). Come in italiano (Bisetto 2004: 40), può accadere che il significato del nome testa non sia sempre identico. Nell’insieme di composti in cui capo è il nome testa, si possono distinguere due gruppi: nel primo il termine capə ha il significato di ‘capo, dirigente, responsabile’ (i.e. capəvottərə ‘capobuttero’ capəbrihandə ‘capobrigante’, capəbbarchə ‘capobarca’) mentre nel secondo gruppo capo fa riferimento ad una posizione preminente. A San Valentino abbiamo cəpəpɔstə ‘capotavola’, a Teramo capəfuchə ‘alari’, capəlommə ‘lonza’ (fatta con la parte vicino alla testa), capəcollə ‘lombata di maiale’ (fatta con la parte della zona cervicale), capətestə ‘testiera del letto’. Per quanto riguarda la pluralizzazione, generalmente questi ultimi pluralizzano metafonicamente solo sul secondo membro (cəpəpwʊstə, capəlwʊmmə, a Teramo capəlummə). Tuttavia a San Valentino esistono casi attestati di pluralizzazione su entrambi i membri (chipi-lwʊmmə) o sentiti come grammaticali (chipipwʊstə), che secondo un reviewer, obbedirebbero alla tendenza di far coincidere scope e locus formale.

Anche tra i primi sono possibili pluralizzazioni di entrambi i membri (chipəbbrehjində, chipəvwʊt-terə), solo del primo (chipəbbarchə), o solo dell’ultimo (capəvwʊtterə).

Oltre ai composti N+N esistono anche in abruzzese composti V+V e A+A. Se escludiamo i V+V dvandva del tipo calascinnə sali-scendi ‘saliscendi’, V+V e A+A si ottengono generalmente tramite reduplicazione, argomento a cui è dedicato il prossimo paragrafo. 6. Strutture a reduplicazione

Le strutture a reduplicazione totale sono considerate in lavori recenti di morfologia (Todaro & Mon-termini 2015) come un tipo particolare di composizione. Gli autori osservano che, come per la compo-sizione, è utile distinguere casi in cui le strutture a reduplicazione sono il risultato dell’abilità generale umana di combinare parole, che ha luogo in tutte le lingue ed è probabilmente universale, e i casi in cui esse corrispondano a strategie grammaticalizzate di formazione di lessemi soggetti a vincoli specifici di una lingua (Todaro & Montermini 2015: 169). In abruzzese nomi, verbi e aggettivi possono fungere da base di strutture reduplicative. Reduplicando i nomi si ottengono in uscita modificatori avverbiali di ti-po distributivo (cfr. Amenta 2010, Emmi 2011, Sgarioto 2006 per il siciliano), come esemplificato in (15): 12 La prima vocale di crucəstratə e crucəramə, entrambi di genere maschile, è ridotta (in isolamento crocə), il che indica un’opacizzazione del composto.

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(15) collə > collacollə ‘collina dopo collina, lungo le colline’ marə > maramarə ‘lungo la costa’ cambagnə > cambagnacambagnə ‘attraverso la campagna’ Notiamo in questi composti la presenza della vocale di raccordo [a], incontrata nella composizione V+N.

La reduplicazione verbale produce invece, come in italiano, nomi in uscita, che Thornton (2008) ha definito nomi d’azione, sottolineando come l’italiano sia eccezionale rispetto ad altre lingue romanze dove le reduplicazioni verbali non formano nomi d’azione. L’abruzzese, forse influenzato dall’italiano, costituisce un’altra eccezione, come esemplificato in (16), dove mostriamo alcuni nomi d’azione genera-ti tramite reduplicazione verbale:

(16) corrə > cwʊrracwʊrrə corri-corri ‘corricorri’ magnə` > magnamagnə mangia-mangia ‘mangiamangia’ pijə` > pijapijə piglia-piglia ‘pigliapiglia’ spennə > spinnaspinnə spendi-spendi ‘spendispendi’ acchjappə` > acchjappacchjappə acchiappa-acchiappa ‘acchiappacchiappa’ pjagnə > piagnapiagnə piangi-piangi ‘piangipiangi’ combrə` > combracombrə compra-compra ‘compracompra’ parlə` > parlaparlə parla-parla ‘parlaparla’

La sintassi e la semantica della reduplicazione verbale in abruzzese non sono distanti da quelle descritte da Thornton (2008) per l’italiano. Queste reduplicazioni formano nomi d’azione che richiedono che il soggetto si riferisca a una pluralità di individui e per questo sono state definite da Thornton come espressioni di numero verbale. Per quanto riguarda la forma verbale utilizzata per la reduplicazione, come nel caso dei composti V+N, ci troviamo di fronte alla presenza di radici metafoniche di verbi del-la coniugazione non prima (cwʊrr-, spinn- compatibili con la seconda persona singolare dell’indicativo e dell’imperativo) e con radici non metafoniche della prima coniugazione, anch’esse compatibili con l’imperativo ma anche con la terza persona singolare dell’indicativo. Essendo l’imperativo l’unica forma compatibile con entrambe le macroclassi, tutto porterebbe a credere che, come proposto per l’italiano da Thornton, queste forme abbiano origine appunto da imperativi, o meglio da radici di imperativi, data la presenza costante della vocale di raccordo [a] presente anche nei composti V+N. Ciononostante, l’esistenza a San Valentino di reduplicazioni di verbi della coniugazione non prima con basi non meta-foniche (corracorrə in alternativa a cwʊrracwʊrrə, piagnəpiagnə) compatibili dunque con la terza persona sin-golare, indicano che, come per il caso dei composti V+N, è possibile che il sincretismo di alcune forme possa aver favorito rianalisi che hanno portato alla sovrapposizione di strati differenti in cui la redupli-cazione è avvenuta a partire da basi diverse.

La reduplicazione aggettivale forma avverbi o aggettivi intensificati. Gli aggettivi sono formati tramite reduplicazione semplice della base aggettivale come in (17a), mentre gli avverbi sono ottenuti reduplicando la radice che si lega al suo reduplicato tramite la vocale di raccordo [a], come esemplificato in (17b) con dati del dialetto di Teramo:

(17) a. lɛmmə > lɛmməlɛmmə ‘lento’ > ‘lento lento (molto lento)’ zullə > zulləzullə ‘piccolo’ > ‘piccolo piccolo (molto piccolo)’

b. lestə > lestale(stə) ‘svelto’ > ‘rapidamente’ huattə > huattahuattə ‘quatto’ > di ‘soppiatto’

Come abbiamo visto sopra, il processo di reduplicazione totale funziona come operazione che ha l’effetto di cambiare la categoria della base. Gil (2005), Forza (2011) e Todaro (2012) distinguono redu-plicazione morfologica (reduplicazione stricto sensu) e reduplicazione sintattica (ripetizione, reiterazione). La reduplicazione del primo tipo è un processo di formazione di parola, non ricorsivo. Una reduplica-

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zione morfologica non ha necessariamente un’interpretazione iconica né ha la funzione pragmatica di rinforzare la comunicazione. La reiterazione invece è un processo sintattico ricorsivo (è possibile anche la triplicazione), ed ha lo scopo di rinforzare la comunicazione nonché un’interpretazione iconica. Nel dialetto di Teramo, la vocale di raccordo a viene inserita unicamente nelle reduplicazioni morfologiche, fornendo dunque una prova a sostegno della distinzione discussa sopra. Nelle reduplicazioni sintattiche, o reiterazioni, la vocale di raccordo in generale manca (cf. 17a). Possiamo trovare occasionalmente /a/ unicamente nel caso essa sia etimologica, ovvero nel caso degli aggettivi femminili singolari, dato che in posizione protonica questa vocale riesce a resistere alla riduzione (cf. Passino 2014), come esemplificato in (18):

(18) bellə > bellabbellə > ‘molto bella’

7. Conclusioni Questo contributo, basandosi sulla sistematizzazione di dati sparsi esistenti riguardanti i composti abruzzesi, integrati da una serie consistente di dati di prima mano raccolti sul campo, ha presentato una descrizione generale della composizione in abruzzese, fornendo delle osservazioni preliminari. L’interesse dei dati discussi e della descrizione fornita è duplice. Da un lato quello di complementare dati e proposte esistenti intorno ai vari quesiti legati al vasto soggetto della composizione romanza, dall’altro di contribuire potenzialmente all’indagine sui rapporti tra fonologia, morfologia e sintassi, avendo portato alla luce la delicata interazione tra un fenomeno fonologico morfologizzato sì, ma pur sempre fonologico (l’innalzamento vocalico), e la marcatura delle categorie di genere e numero. Si è po-tuto osservare che dal punto di vista fonologico i membri del composto conservano un’indipendenza che comporta il mantenimento dell’accento primario su ognuno di essi, come mostrato dall’assenza di riduzione vocalica e presenza di dittongamento. La presenza dell’accento primario su ognuno dei mem-bri del composto fa sì che la pluralizzazione dei composti, che avviene tramite innalzamento della voca-le accentata, possa in molti casi riguardare entrambi i membri. L’innalzamento della vocale accentata che può riguardare entrambi i membri nelle forme plurali dei composti V+N e N+A non deve però in-gannare: come si è mostrato, esso non corrisponde a uno statuto indipendente dei due membri dal pun-to di vista morfologico, oltre che fonologico. Si è visto al contrario che il tratto morfosintattico di gene-re dei singoli membri non è visibile alla flessione di numero, sensibile unicamente al genere dell’intero composto. Nei composti V+N e N+A, a due parole indipendenti dal punto di vista fonologico corri-sponde dunque una parola morfologica. Ringraziamenti

I miei ringraziamenti vanno innanzitutto ad Anna M. Thornton per avermi suggerito di sviluppare co-me omaggio a Maria questo tema da me parzialmente affrontato in Passino (2014) e per aver riletto una prima versione di questo lavoro. I suoi commenti insieme a quelli di Fabio Montermini, Franz Rainer e Davide Ricca, che ringrazio ugualmente moltissimo, mi hanno permesso di migliorare la forma e il con-tenuto di questo contributo. Questo lavoro deve molto anche alla pazienza dei miei informatori di San Valentino in Abruzzo citeriore e di Teramo: Silvio Pascetta, Serafino e Domenica Di Mattia, Sergio Co-stantini e Sandro Melarangelo. Li ringrazio di cuore. Riferimenti bibliografici Amenta, Luisa. 2010. La reduplicazione sintattica in siciliano. Bollettino del Centro di Studi Filologici e Linguistici Sici-

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On the origin of Italian adjectival colour compounds of the type grigioverde ‘grey-green’

Franz Rainer

Abstract Intersective Italian adjective-adjective compounds of the type grigio-verde ‘grey-green’ first became frequent in languages for specific purposes in the 18th century. In this paper, I intend to show that both the chronology and the genre restriction are naturally explained if we assume that these Italian compounds are adaptations of the corresponding Neo-Latin type, which was itself an innovation of the 17th century. KEYWORDS: adjective-adjective compounds • colour terms • Neo-Latin • Italian • language history 1. Introduction Colours have been at the centre of Maria Grossmann’s scholarly interest right from the start of her career in real-socialist Bucharest (cf. Grossmann & Mazzoni 1972). The chromatic climax was reached in the 1980s with her Tübingen dissertation on the semantics of colour adjectives in six languages (Grossmann 1988), but in more recent times she has returned to the subject area in a couple of papers coauthored by Paolo D’Achille, dedicated either specifically to the history of adjectival colour compounds (D’Achille & Grossmann 2013) or to adjective-adjective compounds more generally (D’Achille & Grossmann 2009, 2010). In their 2013 paper D’Achille & Grossmann point out that Old Italian preferred syntactic means for expressing intermediate colour shades, while compounds did not become frequent before the 18th century. They first appeared in languages for specific purposes and only later on in literary texts. Both facts made the authors think that these compounds follow “il modello dei composti classici” [the model of classical compounds] (D’Achille & Grossmann 2013: 2168), where ‘classical’ was meant to refer to Neo-Latin. In my contribution to the Festschrift for our colourful colleague I would like to corroborate this conclusion by tackling the problem from an onomasiological perspective. 2. The expression of intermediate shades in Classical Latin and in Neo-Latin The Italian compounds expressing intermediate shades, of the type grigioverde ‘grey-green’, could not, in fact, be imitations of Classical-Latin models for the simple reason that Classical Latin had no established pattern of compounds of this type. In André’s (1949: 229‒232) section on “Les composés”, several Latin compounds containing a colour term are listed, but none of the type adjective + adjective. D’Achille & Grossmann (2009: 145) mention nigrogemmeus (glossed as ‘resplending and dark’) from Solinus (3rd c.) and albogilvus ‘white-yellowish’ from Servius (4th/5th c.) documented in Bader (1962), but these examples are too marginal to be taken into consideration as potential starting points for the Italian or even the Neo-Latin pattern. When Roman writers wanted to express a shade that had no name of its own but was situated between two established colours, they resorted to syntactic patterns, for example, the construction type ex nigro viridis ‘black-green; lit. from black green’. The Oxford Latin Dictionary (OLD) registers this construction under 13c in the entry dedicated to the preposition ex: “(indicating a transitional stage between one quality and another) cutis […] colorem […] habet ex rubro subnigrum CELS.5.28.4.B […] bacis […] e uiridi rubentibus PLIN.Nat.15.127.”

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The writers of the Renaissance still followed this Classical-Latin usage. Gesnerus 1 (1565), however, preferred the preposition in, i.e. the pattern in nigro viridis; he did not use in his Latin adjective-adjective compounds any more than the writers of Roman Antiquity. I hereafter quote some of Gesner’s examples together with his own German translations:

In rubro fuluum. Rothgelbes eckstein. (p. 22r) ‘red-yellow; lit. in red yellow’2

In candido flauum. Gelblichter. (p. 23r) ‘white-yellow; lit. in white yellow’

in rubro niger […] bräunlicher (p. 34r) ‘red-black; lit. in red black’

In viridi nigra. Schwartzgrün. (p. 51v) ‘green-black; lit. in green black’

Hydrensis in rubro nigra […] Ein schwarzroth quecksilber ertz auß Hidria (p. 65) ‘red-black quick-silver from Hydria; lit. in black red’

Some of these examples are also valuable because they show that German, contrary to Latin (and Italian, as we will see), at that time already routinely expressed intermediate shades by means of adjective-adjective compounds (rothgelb, schwartzgrün, schwartzroth), a fact that is also amply documented in Jones (2013)3. The situation we found in Gesnerus (1565) still obtains in Caesius4 (1636), whose expressive means are decidedly more varied than Gesner’s but still ignore the adjective-adjective type. In the following enumeration, I provide a representative sample of passages from Section 4 of Chapter 3, entitled “De colorum divisione”:

ex albo nigricans (169a) ‘greyish; lit. from white being-black’

Rauus color, fuluus est, nigroris aliquid habens (169a) ‘The colour ravus is a kind of orange with a touch of black’

ex caeruleo tendens in viridem (169a) ‘blue (lit. from blue) tending towards green’

Luridus […] ex viridi, & nigro intermixtus (171a) ‘green-yellow, mixed with some black’

caeruleus virore permixtus (183b) ‘blue mixed with green’

1 Conradus Gesnerus [Conrad Gesner] (1516‒1565), a Swiss doctor, naturalist and philologist. 2 The English glosses of Latin colour terms are just meant to give a rough idea. The exact colour referred to by a Latin colour term is not always easy to fix, and the chromatic correspondences between Latin and English colour terms are quite intricate. Furthermore, the intransitive/stative Latin colour verbs are difficult to translate; in the literal glosses I render their participial forms with the formula “being + colour adjective”. 3 I will only treat intermediate shades in this paper. Nevertheless, it might be of interest for future diachronic studies of the coordinative type to learn that alternate colors are also expressed syntactically in Gesner (1565), although with different patterns:

Lapis colore nigro & rubro, parens sulfuris. Ein schwartz unnd roth gemengt schwebelstein (p. 19r) squamis […] partim luteis, partim nigris (p. 41v) Virides com luteis pellucidis striatim mixti. (p. 43v) Purpurei viridibus striatim appositi & permixti. (p. 44)

4 Bernardus Caesius [Bernardo Cesio] (1581‒1630), a Jesuit from Modena (Italy). His treatise on mineralogy was published posthumously.

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Color […] qui est inter rufum, & nigrum, […] heluus dicitur (169b) ‘The colour between red and black is called helvus’

Quidam tamen melinum colorem volunt esse medium inter album, & fuscum (170b) ‘Some say melinum is a colour intermediate between white and dark’

croceus enim sensim flauescens transit in viridem (182b) ‘(the colour) saffron gradually turns into golden yellow and then into green’

Things changed in the 17th century, especially in the second half. First adjective-adjective compounds started creeping into Neo-Latin texts. Here are some of the earliest examples which I could spot on Google Books (since they can easily be retrieved from the Internet, I simply quote the year of edition of the source, the name of the author, part of the title, as well as the page number):

atrovirens (1620, Gaspard Bauhin, Prodromos theatri botanici, p. 1) ‘black-green; lit. black being-green’

nigro-purpureum (1641, Johann Schröder, Pharmacopoeia, p. 180) ‘black-purple’

cinereo-fuscus (1657, Jan Jonston, Historia naturalis, p. 144) ‘grey-dark’

luteo-viridis (1659, Denis Joncquet, Hortus, p. 97) ‘yellow-green’

atro-fusca (1676, Ornithologiae libri tres, p. 100) ‘black-dark’

nigro-luteum (1676, Pierre Magnol, Botanicum Monspeliense, p. 119) ‘black-yellow’

Michelius5 (1729) shows that, by the beginning of the 18th century, the traditional syntactic means of the Antiquity and the Renaissance already lived together in harmony with the new type of compound in one and the same work. Syntax and compounding each provide more or less half of the expressions for intermediate shades in this work (it will be enough to quote the types of the first 70 pages):

atro-virens (p. 9) ‘black-green; lit. black being-green’

nigro-purpureum (p. 10) ‘black-purple’

ex obscuro virescens (p. 10) ‘dark-green; lit. from dark being-green’

floribus ex viridi pallescentibus (p. 13) ‘green-pale flowers; lit. from green being-pale’

colore […] luteo-viridi (p. 16) ‘yellow-green colour’

flore ex albo purpurascente (p. 23) ‘white-purple flower; lit. from white being-purple’

è luteo virescentibus (p. 29) ‘yellow-green; lit. from yellow being-green’ 5 Petrus Antonius Michelius [Pier Antonio Micheli] (1679‒1737), an Italian botanist.

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spicis […] fusco-ferrugineis (p. 56) ‘dark-rust-coloured ears’

capsulis […] spadiceo-viridibus (p. 59) ‘brown-green capsules; lit. brown being-green’

squamis è spadiceo, vel fusco rutilante viridibus (p. 60) ‘brown-green or grey-dark red scales; lit. from brown or dark-being-red green’

Graminis nigro-lutei (p. 62) ‘black-yellow grass’

squamis […] atro-rufis (p. 63) ‘black-red scales’

capitulis [...] atro-fuscis (p. 68) ‘black-dark heads’

cinereo-virescentibus ramulis (p. 75) ‘grey-green twigs; lit. grey being-green’

Lichen [...] cinereo-rufescens (p. 75) ‘a grey-red lichen; lit. grey being-red’

e glauco subvirescens (p. 75) ‘grey-greenish; lit. from grey being-greenish’

ex cinereo rutilans (p. 77; on the same page also: ex cinereo-rutilans, with a hyphen) ‘grey-reddish; lit. from grey being-reddish’

cinereo-fuscus (p. 78) ‘grey-dark’

ex cinereo virescens (p. 80) ‘grey-green; lit. from grey being-green’

e cinereo-viridi rufescens (p.80) ‘grey-green red; lit. from grey-green being-red’

e cinereo viridans (p.80; on the same page also: e cinereo-viridans, with a hyphen) ‘grey-green; lit. from grey being-green’

e viridi obsolete lutescens (p. 80) ‘green-yellow; lit. from green being-yellow’

It is this change in Neo-Latin that we have to bear in mind if we want to understand why Italian compounds of the type grigioverde originate in the 18th century, as correctly observed by D’Achille & Grossmann (2013)6. 3. The Italian usage up to the Renaissance D’Achille & Grossmann (2013: 2160) claim that intersective7 colour compounds of the type adjective-adjective are already occasionally attested in Old Italian, but they remain somewhat hesitant about the 6 The Neo-Latin colour compounds of the type atro-rufus are a side-line of the adjective-adjective pattern ethico-moralis, which was itself a Neo-Latin innovation of the late 16th century, probably due to German-speaking humanists (cf. Hatcher 1951; Lindner & Rainer 2015: 1587; on the integration of this compound type into Italian, cf. Grossmann & Rainer 2009: 74‒75). 7 I will not here take into consideration determinative compounds of the type verde chiaro ‘light green’, whose history seems to be quite different from that of intersective compounds. It seems to me that many of the older examples of determinative compounds quoted in D’Achille & Grossmann (2013) should probably be viewed more conservatively as syntactic constructions. A phrase such as “trementina […] bionda chiara” (14th c., Pegolotti) should probably be given the bracketing

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exact usage and status of these compounds, as well as about the question of their potential origin. Since there are no Classical-Latin antecedents, one would probably have to think of such compounds as the result of an endogenous process of univerbation. The number of known examples, however, is still exceedingly small, and the interpretation of these is not without philological problems. As D’Achille & Grossmann (2161, n. 10) point out, the expression verdegiallo of Boccaccio’s “viso verdegiallo” [green-yellow face] (1354‒1355) appears as “verde, giallo” in the edition used by the OVI, whose lexicographers probably used the edition that looked most authoritative to them from a modern perspective. Whatever the correct interpretation of this expression may be, the fact remains that the univerbated form verdegiallo became established already in older editions of Boccaccio and therefore may have exerted some influence on the use of compounds with verde as a first member in the Italian literary language of the following centuries. D’Achille & Grossmann (2013: 2161) themselves mention that verdegiallo was taken up by Ariosto in 1532 and that it received the approval of the Accademia della Crusca. According to the GDLI, the compound was also used by Daniello Bartoli (before 1685) and Francesco Redi (before 1698). The GDLI also provides one example of verdebruno from the second half of the 14th century (“veste verdebruna”, Franco Sacchetti), one of verdazzurro, used as a noun (‘lapis lazuli’), from the end of the Middle Ages (Ricettario fiorentino, edited in 1498)8, one of verdenegro from around 1600 (Bartolomeo Crescenzio) and one of verdenero from before 1623 (Pantero Pantera). The suspicion that these verde-compounds might eventually have been sparked off by Boccaccio’s verdegiallo ‒ whether apocryphous or not ‒ is strengthened by the observation that for none of the compounds in the GDLI that have as a first member bianco ‘white’, rosso ‘red’, bruno ‘brown’, grigio ‘grey’, or nero ‘black’ examples prior to the 19th century are attested9. Boccaccio’s example, however, might not be the only relevant case from Old Tuscan. Each example, however, will have to be subjected to the same kind of scrutiny as the case of Boccaccio just mentioned, in order to make sure that the univerbation is really in the original manuscript and has not been added by the editors on the basis of a more modern linguistic sensibility. D’Achille and Grossmann quote the following two additional examples in their article, both possibly amenable to alternative interpretations:

panni […] due verdi kiari e due verdi bruni (Doc. fior., 1278‒1279) (p. 2157, 2163)

cianbellotto rosato biadecto (Ranieri Sardo, 1399) (p. 2161)

All things considered, it seems that intersective colour compounds may well have existed in Old Tuscan, at least as an incipient category, which, if this was indeed the case, must have arisen through an endogenous process of univerbation. Be that as it may, an analysis of Imperato (1599) shows that by that time such compounds had not yet made their way into ‘standard Italian’ (whatever that could have meant for a Neapolitan writer such as Imperato in 1599). The subject matter of Imperato’s book obliged him to speak continuously about intermediary shades of colours, but despite this fact he never resorted to a compound of the grigioverde type. All his expressions are syntactic. One such means of expressing intermediate shades that he cherished is an obvious calque of the Latin pattern in nigro viridis that we have already found abundantly in Gesnerus (1565):

[[trementina bionda] chiara], not [trementina [bionda chiara]], and similarly for other examples. This does not exclude the possibility that at some later moment in the history of the language a reanalysis may have taken place. 8 Note that the adjectival use is only attested in the GDLI in the second half of the 18th century. At first sight, the noun looks like a conversion of the corresponding adjective-adjective compound, but the following example from Imperato (1599: 95) could also point to another possible interpretation of the origin of the noun, namely as a colour name where the noun verde was specified by the adjective azzurro: “Minerali sono, la cerussa, giallolino, minio, cinabrio, biadetto, verde detto montagna, e verde azzurro: […]”. 9 The only exception I have found is rossinegro (around 1600, Bartolomeo Crescenzio), which is also surprising because it contains a linking vowel -i- typical of Spanish, but not of Italian compounds.

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marga […] nel rosso nera, e colombina […] nell’azzurro verdeggiante (p. 21) ‘red-black marl, and a blue-greenish kind of mineral’

L’acque […] di Auerno nereggiano nel celeste. (p. 162) ‘The waters of hell are blackish-blue; lit. blacken in the blue’

fumi gialli nel rosso (p. 523) ‘yellow-red smoke’

si veggono alcuni di essi nel biondo chiari ; altri oscuri, e nel biondo neri (pp. 654‒655) ‘some of these are blond-bright, others dark, blond-black’

sono per lo più di color bianco nel fumoso (p. 659) ‘they are mostly white-smokey’

pulito rosseggia alquanto nel nero (p. 686) ‘when polished it is somewhat red-black; lit. reddens in the black’

li fiorini, che nel bianco porporeggiano (p. 755) ‘the florins, which are white-purple; lit. which purple in the white’

Despite its popularity with Imperato, this calque did not gain definitive citizenship in Italian, which a century later will rather opt for compounding as the main means of expressing intermediate shades. In the absence of this handy means a great number of somewhat roundabout circumlocutions had to be resorted to:

di color [verde] accompagnato con azzurro (p. 111) ‘green accompanied by blue’

La terra pauonazza è di color rossaccio & azurro partecipe (p. 121) ‘the purple earth participates in the red and blue colour’

di color fumoso tra il nero e cinereo mezzano (p. 141) ‘of a smokey colour in the middle between black and ash-grey’

di color tra l’ochra e fuligine (p. 154) ‘of a colour between ochre and soot’

al ceruleo & verde inchina (p. 394) ‘tends towards blue and green’

di color giallo, che imita l’arancio (p. 431) ‘of a yellow colour that imitates the orange’

di color che del celestino e del nero alquanto partecipa (p. 466) ‘of a colour that participates both in blue and black’

fumo giallo & aureo (p. 472) ‘yellow and golden smoke’

hanno il color rosso pendente al paonazzo agre, e crudo (p. 600) ‘they have a red colour leaning towards purple’

accostandosi al color del vino, non pigliano interamente il suo colore, ma passa in viola (p. 617) ‘coming close to the colour of wine, they do not match it entirely, but turn into purple’

di color bianco, che và al cinereo (p. 774) ‘of a white colour going towards ash-grey’

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These examples from Imperato (1599) probably are quite representative of the usage in Italian before the big change that the language witnessed in this area in the 18th century. 4. The establishment of intersective colour compounds in the 18th century As already pointed out by D’Achille & Grossmann (2013), intersective colour compounds of the type adjective + adjective only became really current in Italian in the 18th century. In the light of what we have seen so far, this is perfectly to be expected if we assume that present-day compounds of the type grigio-verde are not descendants of those few Old Tuscan compounds ‒ if indeed they can be called compounds ‒ that have become known to date, but adaptations of the Neo-Latin type that established itself in the second half of the 17th century. Italian followed Neo-Latin with a delay of 50 to 100 years. A source that permits us to observe this process of adaptation almost in fieri is the translation into Italian in 1778 of Giovanni Antonio Scopoli’s Principia, which had first been published in Latin in 1772. As can be seen in the following examples, by that time Italian had fully adopted the Neo-Latin compound type, at least at the level of languages for specific purposes.

particulis […] atro-plumbeis (§ 44) / di colore oscuro-piombino (§ XLIV) ‘black-lead-grey particles’

vitrum fusco-rubens (§210) / di color fosco-rosso 164 (§ CCX) ‘black-red glass’

color atro-fuscus (§ 212) /coloriti di un nero-fosco 166 (§ CCXII) ‘black-dark colour’

cum flamma luteo-viridi (§ 225) / con fiamma giallo-verde 175 (§ XXXIV)10 ‘with a yellow-green flame’

[Pseudogalena] saepius tamen fusco-flava (§ 226) / per lo più però di giallo fosco (§ CCXXVI) ‘often also black-yellow’

substantia quaedam fusco-grisea (§ 227) / una certa sostanza fosco grigia (§ CCXXVII) ‘some black-grey substance’

cristallos nigras, aut fusco nigricantes (§ 237) / cristalli neri, o fosco-nerognoli (§ CCXXXVII) ‘black, or dark-blackish crystals’

[Argentum] fusco-rubens (§ 278) / di color fosco-rosso (§ CCLXXVIII) ‘black-red [silver]’

5. Conclusion The aforegoing considerations have highlighted once again the crucial role of Neo-Latin in the history of Italian adjective compounds. By and large, the history of intersective colour compounds is parallel to that of the etico-morale type described in Grossmann & Rainer (2009), of which they are a subtype. This Neo-Latin origin also explains why such compounds first established themselves in languages for specific purposes with an urgent need for expressions for intermediate shades of colours such as mineralogy or botany, and only with a certain delay spread to literature and the general language in the 19th century, as D’Achille & Grossmann (2013) already observed. D’Achille & Grossmann had reached these conclusions on the basis of a semasiological approach that consisted in extracting adjective-adjective compounds from historical dictionaries and corpora. In the present study, I have adopted an onomasiological approach, reading through Neo-Latin and Italian works where many expressions for intermediate shades of colours could be expected and observing how this expressive need was satisfied

10 The number of this paragraph is wrong.

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linguistically. This onomasiological approach fully corroborated the generalizations reached by D’Achille & Grossmann in their paper. A priori other possibilities than a Neo-Latin origin would be conceivable. Tollemache, for example, in his standard work on Italian compounds classified colour adjectives of the type adjective + adjective, such as bianco giallastro ‘yellowish white’ and verde chiaro ‘light green’, among the Italian compounds (1945: 235), rather than in the chapter “I composti di formazione latina” (1945: 250‒254). In that way he implicitly claimed that this compound type ‒ which in reality represents two different types, with different diachronic trajectories ‒ had arisen through a process of univerbation. D’Achille & Grossmann also considered this possibility, but remained hesitant. The interpretation of the Old Tuscan examples, as we have seen, is riddled with philological problems and awaits closer study. But even if the existence of authentic colour compounds could be ascertained for Old Tuscan, the evidence adduced in this paper, notably their complete absence from Imperato (1599), clearly shows that the establishment of the intersective compound type in the 18th century was not due to these possible Old-Tuscan antecedents, but to an adaptation of the corresponding Neo-Latin type which had arisen one century earlier. A third theoretically conceivable option would consist in attributing the rise of the Italian compounds to German influence. As we have seen, German already used intersective adjective-adjective compounds in the Renaissance, and the paramount importance of German scholars especially in mineralogy11 would also provide a plausible channel of transmission. However, the international reception of the mineralogical or naturalistic works written by German scholars was based essentially on their Latin books, as was the case with Scopoli’s Principia (Scopoli was born ‒ and died ‒ in what today is Italy, but his native Cavalese was then part of the Habsburg Empire, and he received a doctor’s degree from the University of Innsbruck). If German had any influence on our area of compounding, it should be sought in the rise of the Neo-Latin type, which Hatcher (1951) had already attributed to German-speaking humanists. The desire to dispose of a handy compound type equivalent to the German intersective adjective-adjective compounds may well have had some catalyzing function in the early days of the Neo-Latin compound type. References André, J[acques]. 1949. Étude sur les termes de couleur dans la langue latine. Paris: Kliencksieck. Bader, Françoise. 1962. La formation des composés nominaux du latin. Paris: Les Belles Lettres. Caesius, Bernardus. 1636. De mineralibus […] Lugduni: Prost. D’Achille, Paolo & Grossmann, Maria. 2009. Stabilità e instabilità dei composti aggettivo + aggettivo in italiano.

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11 Cf. Scopoli (1778: 140): “[…] de‘ Tedeschi, nostri Maestri nella Metallurgia” [of the Germans, our masters in metallurgy].

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Morfomi, allomorfie, partizioni: uno sguardo ai paradigmi verbali del torinese

Davide Ricca Abstract This contribution provides an overview of Turinese verb inflection, evaluating the different descriptive options in the light of the current theoretical proposals about morphomic patterns and the distribution of allomorphy between stems and endings. The significant structural differences with Italian are highlighted (above all a very low amount of intraparadigmatic allomorphy in the PN markers, the irrelevance of stem vowels, and a different distribution of the rhizotonic forms in the Present Indicative and Subjunctive), and it is consequently argued that the stem-space approach in its extreme “maximize-stem” version, although equally feasible, is much less profita-ble from the point of view of descriptive economy. KEYWORDS: Turinese • Romance verb inflection • inflection classes • morphomic patterns • stem allomorphy • stem vowels • heteroclisis • analogy 1. Introduzione Negli approcci teorici alla morfologia flessiva dell’ultimo decennio, i paradigmi verbali delle lingue ro-manze sono stati analizzati secondo diverse prospettive. In particolare, i numerosi fenomeni di allomor-fia sono stati descritti facendoli ricadere maggiormente sulla flessione, oppure sul tema, fino ad arrivare a modelli che riconducono sostanzialmente tutta l’allomorfia alle basi tematiche, vanificando di fatto la nozione di classe flessiva. Un trattamento di questo tipo per l’italiano è Montermini & Boyé (2012); per una disamina critica dei diversi approcci, cfr. Loporcaro (2012). Questo contributo non ha ambizioni teoriche, ma intende essere poco più di un esercizio, nel quale si prenderanno in esame i paradigmi verbali del torinese cercando di confrontare tra loro le diver-se opzioni descrittive. Il torinese è stato la base della koiné regionale piemontese in via di progressiva espansione dal Settecento fin verso la metà del Novecento, ma oggi, avendo perso ogni funzione comunicativa come varietà veicolare tra varietà diverse, si può dire estremamente circoscritto nell’uso parlato, per cui è senz’altro a rischio di un’estinzione più rapida rispetto alle varietà locali non urbane. Per una valutazio-ne del complesso status odierno del dialetto in Piemonte, si veda Berruto (2006). Naturalmente la koiné a base torinese (una recente discussione del concetto applicato allo scena-rio italoromanzo si trova in Regis 2011: 7-36) rimane la lingua utilizzata dai promotori del piemontese – anche su Internet, si veda ad esempio la Wikipedia in piemontese, https://pms.wikipedia.org/wiki/Intrada – e rappresenta il grosso delle produzioni scritte (anche se non più di quelle letterarie, specie poetiche, dove negli ultimi decenni tendono a prevalere le varietà locali, cfr. Tesio & Malerba 1990). Si tratta anche della varietà meglio descritta in termini lessicografici, ma non necessariamente di grammatiche (in linea di massima, infatti, tranne Aly-Belfàdel 1933, sono tutte di impianto tradizionalista e normativo: di queste la più recente e completa è Villata 1997). Ai nostri fini la dimensione sociolinguistica, e in particolare la questione di quanto le descrizioni normative riflettano l’uso reale, non è pertinente, perché, giudicando dalla mia competenza semi-nativa1 e dal controllo con alcuni informanti, non c’è sostanziale variazione tra la koiné normativa e l’uso attuale, sia pur limitato, per quanto riguarda i paradigmi morfologici (se si esclude qualche variante nella forma fonologica di al-cune basi – in particolare oscillazioni nelle vocali atone – peraltro spesso segnalate come varianti anche nelle descrizioni grammaticali normative). 1 Come molti parlanti cittadini della mia generazione, sono stato esposto fin dalla prima infanzia, e ben oltre la tarda adole-scenza, a molto input di torinese in famiglia, ma non sono stato che molto raramente il destinatario di questo input, con limi-tate occasioni di produzione da parte mia.

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2. La flessione regolare del torinese a confronto con l’italiano 2.1 Paradigma completo del verbo regolare Non volendo assumere nei lettori alcuna familiarità con una varietà italoromanza sensibilmente diver-gente dall’italiano, riportiamo in (1) per riferimento l’intera coniugazione dei verbi regolari (tempi com-posti esclusi), nelle tre coniugazioni tradizionali, indicate con i numeri romani. I modi e i tempi sono gli stessi dell’italiano, escluso il passato remoto, completamente scomparso intorno al 1800. Per maggiore comodità di lettura – e anche per illustrare un tratto significativo per il relativo grado di Ausbau della koiné torinese, su cui si veda Tosco (2008) –, il paradigma in (1) è citato nell’ortografia standardizzata2, mentre in tutte le analisi successive si farà uso in linea di massima delle trascrizioni IPA, a meno che non ci si stia riferendo a testi scritti non contemporanei. Per quanto riguarda le abbreviazioni delle cate-gorie grammaticali, in tutto l’articolo si sono utilizzate le convenzioni, ormai ampiamente diffuse, delle Leipzig Glossing Rules, con pochi adattamenti suggeriti dalla lingua italiana del contributo.3 (1) I II III buté ‘mettere’ lese ‘leggere’ finì ‘finire’ INDICATIVO PRESENTE 1SG (i) but-o (i) les-o (i) finiss-o 2SG it but-e it les-e it finiss-e 3SG a but-a a les a finiss 1PL (i) but-oma (i) les-oma (i) fini-oma 2PL (i) but-e (i) les-e (i) finiss-e 3PL a but-o a les-o a finiss-o INDICATIVO IMPERFETTO morfema TAM: I -av-, II-III -ì- 1SG (i) but-av-a (i) les-ì-a (i) fin-ì-a 2SG it but-av-e it les-ì-e it fin-ì-e 3SG a but-av-a a les-ì-a a fin-ì-a 1PL (i) but-av-o (i) les-ì-o (i) fin-ì-o 2PL (i) but-av-e (i) les-ì-e (i) fin-ì-e 3PL a but-av-o a les-ì-o a fin-ì-o

2 I tratti salienti di questa ortografia non coincidenti con l’italiano sono: per le vocali, o vale [u] (spesso [ʊ]), mentre ò vale [ɔ] (solo tonico in torinese); u vale [y], eu vale [œ] (anch’esso solo tonico) ed ë vale [ə] (che può essere anche tonico). Per quanto riguarda le consonanti, in posizione intervocalica n- nota la [ŋ] e n la [n] (ran-a ‘rana’ ~ cana ‘canna’), mentre in fine di parola n vale [ŋ] e [n] si nota con nn (pan ‘pane’ ~ pann ‘panno’); le affricate [tʃ] e [dʒ], mai geminate, in fine di parola sono rese con cc, gg (specc ‘specchio’, magg ‘maggio’); infine, s vale [z] in posizione intervocalica e in fine di parola dopo vocale, mentre vale [s] all’inizio di parola e dopo consonante; la grafia segnala però sempre il contrasto tra i fonemi /s/ e /z/, ricorrendo a ss per [s] – non geminata! – nel primo caso (piasa ‘piaccia’ ~ piassa ‘piazza’, nas ‘naso’ ~ nass ‘nasce’), e a z nel secondo per [z] (zinch ‘zinco’ ~ sinch ‘cinque’, monzù ‘munto’ ~ monsù ‘signore’, stòrz ‘storce’ ~ mars ‘marcio’, ‘marzo’). 3 Si è dunque scritto dappertutto CONG e non SBJV, inoltre il familiare PP anziché il laborioso PTCP.PST. Così anche IMPF per ‘imperfetto’: per essere strettamente fedeli alle Leipzig Glossing Rules (dove IPFV vale ‘imperfettivo’) bisognerebbe infatti scri-vere IPFV.PST, che per un lettore italiano appare a un tempo opaco e pesante. Infine, per il passato remoto (che compare so-lo in Tab. 2) si è preferita l’etichetta ad hoc PREM rispetto all’opzione IND.PFV.PST, corretta, ma alquanto ridondante nel con-testo.

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INDICATIVO FUTURO morfema TAM: I-II -(e)r-, III -r- 1SG (i) but-(e)r-ai (i) les-(e)r-ai (i) fini-r-ai 2SG it but-(e)r-as it les-(e)r-as it fini-r-as 3SG a but-(e)r-à a les-(e)r-à a fini-r-à 1PL (i) but-(e)r-oma (i) les-(e)r-oma (i) fini-r-oma 2PL (i) but-(e)r-eve (i) les-(e)r-eve (i) fini-r-eve 3PL a but-(e)r-an a les-(e)r-an a fini-r-an CONGIUNTIVO PRESENTE morfema TAM: -Ø- 1SG ch’i but-a ch’i les-a ch’i finiss-a 2SG ch’it but-e ch’it les-e ch’it finiss-e 3SG ch’a but-a ch’a les-a ch’a finiss-a 1PL ch’i but-o ch’i les-o ch’i finiss-o 2PL ch’i but-e ch’i les-e ch’i finiss-e 3PL ch’a but-o ch’a les-o ch’a finiss-o CONGIUNTIVO IMPERFETTO morfema TAM: - èiss- 1SG (i) but-èiss-a (i) les-èiss-a (i) fini-èiss-a 2SG it but-èiss-e it les-èiss-e it fini-èiss-e 3SG a but-èiss-a a les-èiss-a a fini-èiss-a 1PL (i) but-èiss-o (i) les-èiss-o (i) fini-èiss-o 2PL (i) but-èiss-e (i) les-èiss-e (i) fini-èiss-e 3PL a but-èiss-o a les-èiss-o a fini-èiss-o CONDIZIONALE morfema TAM: I-II -(e)rì-, III -rì- 1SG (i) but-(e)rì-a (i) les-(e)rì-a (i) fini-rì-a 2SG it but-(e)rì-e it les-(e)rì-e it fini-rì-e 3SG a but-(e)rì-a a les-(e)rì-a a fini-rì-a 1PL (i) but-(e)rì-o (i) les-(e)rì-o (i) fini-rì-o 2PL (i) but-(e)rì-e (i) les-(e)rì-e (i) fini-rì-e 3PL a but-(e)rì-o a les-(e)rì-o a fini-rì-o

IMPERATIVO 2SG but-a les finiss 1PL but-oma les-oma fini-oma 2PL but-é les-e fin-ì INFINITO but-é les-e fin-ì GERUNDIO but-and les-end fini-end PARTICIPIO PASSATO but-à M/F.SG/PL les-ù M.SG/PL fin-ì M.SG/PL les-ùa F.SG, -ùe F.PL fin-ìa F.SG, -ìe F.PL

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In (1) si sono già introdotte delle segmentazioni, sia pure a carattere pre-teorico, che permetto-no di evidenziare la struttura fondamentale dei paradigmi verbali del torinese, caratterizzata da:

1. Una chiara articolazione delle marche flessive in termini di una struttura binaria: marca TAM (tempo-aspetto-modo) – marca PN (persona-numero). Se la marca TAM = Ø è assegnata al congiunti-vo presente, risultano esterni allo schema proposto (le marche TAM sono esplicitate in (1) accanto a ciascuna etichetta di tempo-aspetto-modo) solo il presente indicativo e l’imperativo. In realtà, solo tre persone dell’indicativo presente sono rilevanti, e precisamente 1SG, 3SG e 1PL. Le prime persone presen-tano le marche [u] al singolare e ['uma] al plurale, che non si ritrovano altrove con questi valori di PN; la 3SG è l’unico caso di variazione di una marca PN al variare della coniugazione, presentando -[a] per la prima coniugazione e Ø per le altre due.

Le altre tre marche PN dell’indicativo presente coincidono con le corrispondenti flessioni del congiuntivo, anche se le forme possono differire nei pochi verbi “irregolari” che presentano una classe di partizione specifica per il congiuntivo (si veda oltre al § 3.4).

Quanto all’imperativo, tutte e tre le forme presentano un sincretismo sistematico con altre for-me del paradigma, esprimibile con le seguenti regole di rimando (rules of referral, Zwicky 1985: 377):4

(2) IMP.2SG = IND.PRS.3SG: buta, les, finiss

IMP.1PL = IND.PRS.1PL: butoma, lesoma, finioma IMP.2PL = INF: buté, lese, finì

2. Un grado minimo di allomorfia inter-paradigmatica, al variare della classe flessiva, sia nelle

marche PN che nelle marche TAM. Per quanto riguarda le marche di persona-numero, si è detto sopra che c’è addirittura un’unica marca non invariante rispetto alla classe flessiva, quella di IND.PRS.3SG, coincidente con IMP.2SG. Per quanto riguarda i morfemi TAM, all’unica marca che contrasta chiaramen-te la prima coniugazione con le altre due (l’imperfetto indicativo [byt-'av-a] ‘mettevo’ vs [lez-'i-a] ‘leg-gevo’, [fin-'i-a] ‘finivo’), si aggiunge una variazione a carattere più fonologico che morfologico nelle marche TAM per il condizionale e il futuro5, dato che nelle prime due coniugazioni la [e] davanti alle marche [r]-, ['ri]- può anche realizzarsi con [ə] o zero. Questa [e]/[ə] si configura quindi, almeno in sin-cronia, come una sorta di vocale epentetica opzionale, tanto più che tende a realizzarsi preferenzialmen-te con alcuni nessi consonantici “difficili” come [dʒr], [lr], e molto più raramente nel nesso occlusiva + [r] (cfr. Aly-Belfàdel 1933: 195). Oggi peraltro appare in espansione, probabilmente su pressione dell’italiano (Clivio 1976[1972]: 100; Villata 1997: 179; 204).

4 La prima coppia in (2) costituisce un sincretismo molto diffuso nelle lingue romanze, e parzialmente presente anche in ita-liano (solo nella prima coniugazione; in spagnolo in tutte e tre, sia pur con eccezioni), che va peraltro contro il principio del sincretismo compensativo, cioè la tendenza a sviluppare sincretismi soprattutto tra celle di bassa frequenza (cfr. Milizia 2013). Va detto che in torinese, includendo nel quadro il cl*tico soggetto obbligatorio in IND.PRS.3SG e assente in IMP, questo sincretismo non è mai funzionalmente problematico. Lo stesso problema dell’alta frequenza di celle sistematicamente sincre-tiche si pone per la terza coppia INF – IMP.2PL. Infine, la seconda coppia in (2) evidenzia come in torinese l’IMP.1PL non pos-sa essere visto semplicemente come un congiuntivo esortativo, come di solito si fa per l’italiano: infatti la forma del congiun-tivo, rizotonica, è sempre distinta (va detto che sincronicamente anche in italiano le due forme contrastano per la diversa sintassi dei cl*tici). Sarebbe interessante verificare più in generale se nelle lingue romanze con congiuntivo interamente rizo-tonico, studiate da Maiden (2012), la cella dell’IMP.1PL si adegui tendenzialmente al congiuntivo o all’indicativo. Ci sono senz’altro casi paralleli al torinese, come Sisco in Corsica, che ha congiuntivo interamente rizotonico e IMP.1PL uguale all’indicativo (Barbato 2013a: 33). 5 Si noterà che in questa proposta di analisi, che è piuttosto ending-oriented rispetto alle trattazioni di tipo radicalmente maxi-mize-stem attualmente maggioritarie (si veda la disamina in Loporcaro 2012), si ritiene di distinguere per il torinese una marca -['ri]- per il condizionale da una marca -[r]- per il futuro, dando ad entrambe statuto morfemico e non morfomico, mentre l’approccio corrente per l’italiano è quello di considerare -er-/-ir- un morfoma, formante di una base semanticamente vuota alla quale si applicano le marche PN di futuro e condizionale, uniche portatrici dell’informazione semantico-sintattica sulla categoria TAM oltre che su quelle di persona e numero (cfr. Pirrelli 2000: 73). L’analisi qui preferita – che ovviamente non riflette l’origine diacronica dei formanti in questione – è particolarmente vantaggiosa per il torinese in quanto consente di estendere al condizionale il set invariante di marche PN che già caratterizza tre altre categorie TAM. Dato che la stessa ope-razione non sarebbe fattibile per l’italiano, non si sostiene affatto che lo stesso tipo di segmentazione sarebbe la scelta mi-gliore per questa lingua.

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In questo la differenza strutturale con l’italiano è sensibile, dato che in italiano il contrasto delle marche di persona-numero tra la prima coniugazione e le altre due non si limita alle due celle del torine-se IND.PRS.3SG e IMP.2SG (identiche in torinese, ma non in italiano), ma si estende – senza considerare il passato remoto – ad altre cinque celle: tutto il presente congiuntivo singolare (parli vs legga) e la 3PL di entrambi i modi (parlano/parlino vs leggono/leggano). Va detto, peraltro, che il basso grado di allomorfia inter-paradigmatica delle marche flessive è un tratto caratteristico della flessione verbale romanza nel suo complesso, ed è alla base della fortuna dei modelli orientati a eliminarla del tutto, facendo ricadere tutta l’allomorfia sul tema (per una recente illustrazione si veda Montermini & Bonami 2013: 176-180).

In definitiva, in torinese le tre classi flessive si differenziano soprattutto nelle forme non finite, il che si avvicina alla situazione di distinzione minima in campo romanzo, dove l’infinito è l’unica forma a distinguere ovunque (almeno) tre coniugazioni, e il participio passato fa lo stesso in un’ampia area, escludendo però l’iberoromanzo e vari dialetti dell’Italia meridionale (Maiden 2016a: 509-510). Il gerun-dio è più sottoposto a livellamenti, anche totali come ad esempio in francese.

3. Un grado parimenti molto ridotto, rispetto all’italiano, di allomorfia intra-paradigmatica delle

marche PN, al variare delle categorie tempo-aspettuali. Qui la differenza con l’italiano è maggiore. Per precisare questo fatto in termini più quantitativi, si può fare riferimento alle Tabelle 1 e 2,

che rappresentano in forma compatta tutte le marche flessive delle forme finite di un verbo della prima coniugazione (imperativo escluso) in torinese e in italiano. Per un riscontro grafico con quanto detto sopra in 2., nelle due tabelle si sono anche contraddistinte in grassetto le marche con allomorfia dipen-dente dalla coniugazione.

TABELLA1.Allomorfiaintra-paradigmaticadellemarchePN:torinese[(')kant]-TAM persona e cl. sogg.

1 IND.PRS Ø

2 IND.FUT (e)r-

3 IND.IMPF 'av-

4 CONG.PRS Ø

5 CONG.IMPF 'ɛjs-

6 COND (e)'ri-

N. di marche PN diverse

N. di marche PN diverse nei TAM 3-6

1SG (i) u 'aj a a a a 3 1 2SG (i)t e 'az e e e e 2 1 3SG a a 'a a a a a 2 1 1PL (i) 'uma 'uma u u u u 2 1 2PL (i) e 'eve e e e e 2 1 3PL a u 'aŋ u u u u 2 1 media sulle 6 persone 2,17 1

TABELLA2.Allomorfiaintra-paradigmaticadellemarchePN:italianocant-/canta-

TAM persona

1 IND.PRS Ø

2 IND.FUT er-

3 IND.IMPF v-

4 CONG.PRS Ø

5 CONG.IMPF s(s)-

6 COND er-

7 PREM Ø

N. di marche PN diverse

N. di marche PN diverse nei TAM 3-6

1SG o ò o i i èi '_i 5 3 2SG i ài i i i ésti '_sti 4 2 3SG a à a i e èbbe ò 6 4 1PL iàmo émo àmo iàmo imo émmo '_mmo 6 4 2PL te éte àte iàte te éste '_ste 6 4 3PL ano ànno ano ino ero èbbero '_rono 6 4 media sulle 6 persone considerando 7 TAM 5,5 3,5 media sulle 6 persone considerando 6 TAM (passato remoto escluso) 4,5

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Pur con tutti i limiti di una segmentazione volutamente “ingenua”6, appare evidente dal confronto tra le due tabelle la grande differenza nei livelli di allomorfia intra-paradigmatica tra le marche PN delle due lingue, evidenziata dalle due colonne di destra di Tabella 1 e Tabella 2. Anche eliminando il passato re-moto, presente solo in italiano, per le rimanenti 6 categorie TAM l’italiano presenta un minimo di 3 marche PN distinte, e ben 5 distinte su 6 in quattro delle sei persone, con una media di 4,5; mentre nel torinese la media è appena di 2,17. Una differenza così macroscopica dipende dal completo azzeramen-to dell’allomorfia nelle marche PN che il torinese presenta in quattro tempi/modi: indicativo imperfet-to, congiuntivo presente, congiuntivo imperfetto e condizionale, tutti caratterizzati dalla stessa sequenza di marche: 1SG -[a], 2SG -[e], 3SG -[a], 1PL -[u], 2PL -[e], 3PL -[u]. Si noti che l’economia anche formale del sistema, con solo tre marche distinte, ciascuna costituita da un segmento vocalico, non comporta neutralizzazioni morfologiche purché nel paradigma si tenga conto dei cl*tici soggetto (assenti in italia-no), che disambiguano tutte e tre le coppie di forme contraddistinte dalla stessa marca PN.7 2.2 Hanno senso le vocali tematiche in torinese? I paradigmi del verbo torinese come presentati in (1) contrastano con i corrispondenti italiani da un al-tro punto di vista molto evidente: pur nell’ambito di una segmentazione “ingenua”, non si è operato al-cun tentativo di separare una vocale tematica (VT), o comunque un segmento formante di temi che possa individuarsi come un predittore di classe flessiva. In effetti, per il torinese una tale operazione sa-rebbe impossibile, o quanto meno ben poco significativa, per due classi flessive su tre. Consideriamo la costruzione delle forme flesse del verbo italiano nelle prime due coniugazioni, lascian-do da parte il solo passato remoto, che non ha equivalenti nel paradigma del torinese. Nella prima, la vocale tematica -a- appare segmentabile in 19 celle su 42 (45,2%): INF, GER, PP, IND.PRS.3SG, IND.PRS.2PL, IND.IMPF, CONG.IMPF, IMP.2SG, IMP.2PL. Per tutte queste celle, infatti, si può costruire un tema verbale nella forma B0 + a a cui si aggiungono marche flessive invarianti rispetto alle coniugazioni: nell’ordine -re, -ndo, -to, -Ø, -te, -v+marca PN, -s(s)+marca PN, Ø, -te. Per i verbi regolari della seconda coniugazione si può compiere la stessa operazione con la voca-le tematica e: il tema B0 + e “funziona” nelle stesse celle, salvo PP e IMP.2SG: quindi 17 celle su 42 (40%).8 Su questa base è plausibile ipotizzare (come già proposto in Dressler & Thornton 1991 e poi, in un diverso quadro teorico, da Thornton 2007), che la base di default dei verbi regolari italiani, B1 nello schema di Pirrelli (2000: 75), sia in realtà da scindere in una base senza VT (che ho chiamato qui B0), indipendente dalla classe flessiva e presente in forme come am-o/am-iamo, tem-o/tem-iamo, dorm-o/dorm-iamo, e una base B1 costruita a partire dalla precedente secondo la semplice regola di realizzazione B1 = B0 + VT, dipendente ovviamente dalla classe flessiva. Ciò significa che le vocali tematiche a ed e sono dei buoni indicatori di classe flessiva in italiano9. Non è chiaro, in verità, quale dovrebbe essere la percentuale di celle del tipo B0 + VT per una vocale 6 Anche per facilitare il confronto con il torinese, le segmentazioni in Tabella 2 sono particolarmente orientate a una rappre-sentazione “morfemica” delle marche TAM. In particolare, la sequenza -er- in futuro e condizionale è qui trattata come mar-ca TAM sincretica e non come morfoma di tema, senza che ciò implichi una preferenza teorica (v. la nota 5); ma ciò non è rilevante per i conteggi sull’allomorfia delle marche PN. Nella segmentazione di tali marche si è peraltro seguito l’approccio di Thornton (2007), discusso brevemente nel § 2.2, per cui le marche TAM o PN si uniscono talvolta alla base radicale e tal-volta alla base con vocale tematica a. La ripartizione non è indicata esplicitamente in Tabella 2. 7 In effetti, l’economia del sistema è addirittura maggiore considerando che il cl*tico soggetto i (caratteristico di 1SG, 1PL e 2PL) è del tutto opzionale in torinese e anzi viene espresso relativamente di rado. L’obbligatorietà dei cl*tici soggetto nelle altre tre persone ((i)t per 2SG e a per 3SG/PL) è infatti sufficiente a consentire una completa disambiguazione di tutte le per-sone dei quattro tempi citati. Anche l’indicativo presente, nonostante alcune differenze nelle marche desinenziali, non mo-stra nessun sincretismo di persona-numero al suo interno, se si include il contributo dei cl*tici soggetto. Pertanto gli unici sincretismi nel paradigma torinese sono “trasversali” e riguardano il rapporto tra presente indicativo e congiuntivo (tre celle di questi due modi su sei si sovrappongono e addirittura quattro su sei per la prima coniugazione, l’unica realmente produt-tiva), nonché tutte le forme dell’imperativo già menzionate in (2). 8 Le percentuali si ridurrebbero leggermente seguendo l’approccio di Thornton (2007) per cui la terminazione -a di IND.PRS.3SG e IMP.2SG nella prima coniugazione, e la corrispondente -e di IND.PRS.3SG nella seconda coniugazione, sono da trattare come marche flessive e non come VT. Ma la sostanza del discorso non cambierebbe in alcun modo. 9 È significativo, peraltro, che già in italiano le vocali tematiche a ed e risultino meno pervasive che nelle corrispondenti co-niugazioni latine (limitandoci al sistema dell’infectum, l’unico nel quale sono rilevanti, cfr. Aronoff 1994: 50-52): un conto ana-

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tematica “ideale” o “canonica” che dir si voglia. È infatti evidente che non può essere il 100%, perché in tal caso le vocali tematiche diventerebbero completamente superflue: non esisterebbero più classi flessive distinte, ma solo temi uscenti in -V1, -V2 ecc.10. È chiaro comunque che la percentuale di celle costruibili come B0 + VT non deve essere troppo bassa, altrimenti introdurre una ulteriore segmenta-zione (sia pure a livello morfomico) diventerebbe antieconomico. Ora, se si prende il paradigma della prima coniugazione del torinese, le forme con vocale -a iso-labile come vocale tematica sono al più 10 su 42 (23,8%): GER, PP, IND.PRS.3SG, IND.IMPF e IMP. 2SG; mentre per la seconda coniugazione di vocale tematica -e- proprio non si può parlare, visto che con la procedura vista sopra la si potrebbe individuare solo nel gerundio. Appare quindi a mio avviso decisamente più ragionevole rinunciare del tutto alla nozione di vo-cale tematica per le due prime coniugazioni del torinese, e descrivere le celle delle coniugazioni regolari partendo da una sola base B1 non terminante in vocale, come è stato fatto sopra in (1). Il prezzo da pa-gare in termini di allomorfie desinenziali è minimo, praticamente limitato alla coppia -and/-end del ge-rundio: infatti una segmentazione a-v nell’imperfetto della prima coniugazione non semplificherebbe in alcun modo il trattamento della marca TAM in questione, visto che la -v- (a differenza che in italiano) non si ritrova nelle altre coniugazioni. Diversa la situazione per la terza coniugazione ad “aumento”, come fin-ì ‘finire’. In questo caso, la descrizione della flessione richiede effettivamente il ricorso ad almeno due basi tematiche:

(3) - B1 davanti alle marche toniche: [fini]- - B2 davanti alle marche atone: [fi'nis]-

Volendo, la B1 potrebbe essere scomposta come in italiano nella sequenza B0 + [i], con [i] vocale tema-tica. Quest’operazione potrebbe essere a prima vista avvalorata da forme come INF fin-ì o IND.IMPF.1SG fin-ìa, dove non c’è dubbio che la ['i] tonica vada analizzata come (parte della) marca flessiva. Ma forme come GER fini-end, o IND.PRS.1PL fini-oma, confrontate con lez-end e lez-oma, mostrano come in realtà la B1 è il punto di partenza anche per le forme con marche flessive inizianti per vocale: in forme come fi-nìa, la cancellazione di [i] davanti a un’altra ['i] tonica è allora trattabile in termini puramente fonologici, al pari del passaggio [i] → [j] davanti alle altre vocali accentate. In definitiva, non sembra opportuno per il torinese dare uno statuto (morfomico) autonomo alle vocali tematiche. Le prime due coniugazioni regolari possono essere caratterizzate in termini di un’unica base B1 terminante in consonante, mentre la terza coniugazione richiede una partizione tra due basi B1, atona, e B2, tonica. La flessione della terza coniugazione può comunque dirsi regolare, in quan-to la base B2 è derivabile dalla B1 con piena generalità per mezzo della regola B2 = B1 + '_[s]. Come in italiano, la classe di partizione associata a B2

11, introdotta dai verbi ad aumento -[s] della terza coniugazione, non è isolata nel sistema, ma è la stessa che si ritrova nei verbi con allomorfia logo per le celle del paradigma dell’infectum latino dà infatti una percentuale di 52/64 = 81% per la prima coniugazione e del 100% per la seconda. 10 Per una critica radicale all’utilità stessa del concetto di VT, si veda tra gli altri Montermini & Bonami (2013: 177-178). Qui mi limito a notare che per valutare l’efficienza di una VT come predittore/indicatore di classe flessiva, la percentuale di celle segmentabili come B0 + VT sarebbe solo uno degli aspetti da considerare: intanto, le celle del paradigma andrebbero pesate con la rispettiva frequenza relativa (non certo facile da stimare); ma poi bisognerebbe considerare quante delle celle residue del paradigma sono effettivamente differenziate nelle diverse classi flessive. Nel caso del verbo italiano, ad esempio, è chiaro che le forme con marche superstabili, invarianti su tutte e tre le coniugazioni, come am-/tem-o, am-/tem-iamo, am-/tem-iate, so-no costruibili direttamente da B0 indipendentemente da qualunque informazione ricavabile dalla VT: la vocale tematica è ef-fettivamente predittiva solo per casi come IND.PRS.3PL am-ano vs tem-ono, CONG.PRS.SG am-i vs tem-a, il PP in -uto della secon-da coniugazione e simili. 11 Pirrelli (2000: 53-54) definisce una classe di partizione come “L’insieme di celle . [...] che selezionano la stessa X come base per la formazione del tema”, mentre con partizione di un paradigma indica la distribuzione delle classi di partizione nel loro complesso, unica per ciascun paradigma verbale. Nel seguito, quindi, si utilizzerà classe di partizione ovunque ci si vorrà riferire a un insieme di celle. Dato che, per la stessa definizione data sopra, c’è un completo isomorfismo tra classi di partizione e basi tematiche ad esse associate, non sembra opportuno raddoppiare le notazioni in questo caso. Contrariamente a Pirrelli & Battista (2000: 359), ma in accordo con lo “spazio tematico” rappresentato in Montermini & Boyé (2012: 71), ci si riferirà pertanto alle classi di partizione in termini delle basi tematiche ad esse associate, parlando anche per brevità di “classe B2”, “classe B2 U B3” e sim.

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tematica delle altre due coniugazioni, come si vedrà nel § 3.2, e corrisponde a un rimodellamento del N pattern di Maiden (2005: 152-164). Nel § 3.4 si vedrà come per tener conto dalla struttura paradigmatica di alcuni verbi come [vu'rɛj] ‘volere’ o [de] ‘dare’ occorrerà complicare lo “spazio tematico” (Montermi-ni & Boyé 2012: 72) del torinese, suddividendo quella che qui abbiamo provvisoriamente chiamato B2 in due classi di partizione distinte, B2 e B3. La classe di partizione caratteristica dei verbi ad aumento -[s] sarà allora da descrivere come la neutralizzazione di questa distinzione, e cioè l’unione B2 U B3, che in-dicheremo più brevemente nel seguito con B2,3. 2.3 La coniugazione eterocl*ta dei verbi in -[i] senza aumento Si noterà che nei paradigmi riportati in (1) non trovano posto gli equivalenti del tipo dell’italiano dormire, che in italiano costituiscono una sottoclasse chiusa (e in lieve regresso) della terza coniugazione in -ire, caratterizzata dall’assenza dell’aumento -[isk] /-[iʃʃ]. Anche in torinese esiste un corrispondente gruppo di verbi12, ma la loro collocazione come sot-toclasse della terza coniugazione sarebbe decisamente problematica, perché questi verbi presentano una flessione eterocl*ta, con forme in parte della terza e in parte della seconda coniugazione. Inoltre, la di-stribuzione delle forme non coincide per tutti i verbi. Per quanto riguarda le forme corrispondenti alla base (rizo)tonica13 B2,3, l’appartenenza a una classe flessiva o all’altra è in realtà indecidibile, perché le marche flessive sono esattamente le stesse. Tuttavia, siccome in tutte queste forme la B2,3 esce in consonante (['dœrm]-, non ['dœrmi]- come po-tremmo aspettarci da una B2,3 senza aumento della terza coniugazione, dato che in sincronia abbiamo ritenuto più conveniente segmentare l’aumento come -[s] e non come -['is]), si possono considerare come tutte passate alla seconda coniugazione. Per quanto riguarda le celle con la base atona B1, nessun verbo di questa classe sembra essere completamente migrato nella seconda coniugazione, e nessuno d’altra parte conserva tutte le forme del-la terza. La forma più avanzata nel processo di identificazione con la seconda coniugazione (oltre natu-ralmente a quelle già menzionate riconducibili alla base B2,3) è probabilmente l’infinito, che oggi a Tori-no è praticamente solo in -[e] atona (['sɛnte], ['parte], ['dœrme]): forma preferita già ai tempi di Aly-Belfàdel (1933: 180), che afferma però che mezzo secolo prima la situazione era opposta. I testi dell’Ottocento in effetti hanno in prevalenza le forme in -ì, le sole a lemma in Zalli (1815) e ancora in di Sant’Albino (1859), che peraltro segnala già vari infiniti in -e con un rinvio. Si noti che l’infinito, nel passare dalla terza alla seconda coniugazione, diventa anche rizotonico, e quindi entra nella competenza della base B2,3: questo fatto si può verificare solo quando c’è una oppo-sizione segmentale e non solo accentuale tra le due basi, e cioè nei verbi con allomorfia tematica discus-si nel § 3.3. Anticipando che ‘dormire’ è uno di questi verbi (B1 atona [dyrm]-, B2,3 tonica ['dœrm]-), l’infinito è appunto ['dœrme], con la base rizotonica. Se si vuole evitare che l’estensione delle classi di partizione vari al variare delle classi flessive, occorre caratterizzare l’infinito con una base tematica au-tonoma, come si vedrà nel § 4. All’opposto, nella coniugazione eterocl*ta il futuro e il condizionale si formano tuttora, senza eccezione, univocamente secondo il modello della terza coniugazione, quindi partendo da una B1 atona in [i]: [parti'raj], [sɛnti'raj] ecc.14

12 A titolo indicativo, diamo una lista non esaustiva dei più comuni, per comodità in grafia tradizionale e non fonetica: beuje ‘bollire’, cheuje ‘raccogliere’, cuse ‘cucire’, deurbe/deurve ‘aprire’, deurme ‘dormire’, eufre ‘offrire’, meuire ‘morire’, parte ‘partire’, sente ‘sentire’, serve ‘servire’, seufre ‘soffrire’, seurte ‘uscire’, veste ‘vestire’. A questi vanno aggiunti anche tèn-e/tnì ‘tenere’ e vèn-e/vnì/mnì ‘venire’, che presentano però varie altre irregolarità e comunque non seguono esattamente il pattern implicazio-nale descritto in (5). 13 Ad essere pignoli, il termine rizotonico è infelice, perché in casi come i verbi ad aumento significa in realtà ‘accentato sul tema’; e similmente arizotonico, nelle lingue romanze e non solo in torinese, va inteso come ‘accentato sulla desinenza’. Ma non sembrano esserci alternative correnti ai termini tradizionali, benché in qualche caso possano essere fuorvianti. 14 Su questo la mia competenza e i parlanti consultati coincidono con quanto scritto in Villata (1997: 202-203), mentre, ab-bastanza sorprendentemente, Aly-Belfàdel (1933: 196), poco meno di un secolo fa, segnalava l’oscillazione (tipo [dyrmi'raj] /[dyrm'raj]) anche per futuro e condizionale. Risalendo di altri trent’anni, i paradigmi riportati in Gavuzzi (1896) già segnala-no le alternanze nelle altre forme, ma, come Villata (1997: 203) un secolo dopo, non nel futuro e condizionale.

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Quasi solo allineato alla terza coniugazione è pure il participio passato, che esce in -['i]. A mia conoscenza, solo per ['sɛnte] (e '[tɛŋe], che peraltro per alcuni parlanti è completamente passato alla se-conda coniugazione) si ha invece normalmente -['y], allineato con la seconda coniugazione. La zona di maggiore variabilità si è a lungo riscontrata per le celle caratterizzate dalla marca te-matica [j] nella terza coniugazione, e cioè IND.PRS.1PL, GER e CONG.IMPF. I paradigmi forniti in Gavuzzi (1896) e Aly-Belfàdel (1933: 196) sono concordi nell’indicare tutte queste forme come sovrabbondanti ([dyr'muma] e [dyr'mjuma] ‘dormiamo’, [syr'tɛjsa] e [syr'tjɛjsa] ‘uscissi’ ecc.) per tutti i verbi. Da qualche controllo con parlanti nativi, mi pare però di poter dire che oggi per numerosi verbi la variante in -[j]- non sia più in uso (si ha certamente solo [sɛn'tuma] ‘sentiamo’ e [par'tuma] ‘partiamo’, ma anche, per i miei informanti [dyr'buma] ‘apriamo’, [syr'tuma] ‘usciamo’ ecc.), mentre per alcuni permane la situazio-ne di sovrabbondanza, con incertezze e oscillazioni da parte dei parlanti che ho consultato. Da questo quadro, che andrebbe approfondito, emerge comunque un’ordinabilità scalare nel processo di transizione dalla terza coniugazione alla seconda, con il seguente ordinamento implicazio-nale delle forme dei due paradigmi costruite sulla base atona B1 (a sinistra quelle più fedeli al pattern ori-ginario di terza coniugazione):

(4) futuro /condizionale > participio passato > forme in [j]+V > infinito Dal punto di vista dei lessemi coinvolti, si individuano almeno tre stadi distinti di integrazione nella se-conda coniugazione (ma un’indagine più accurata potrebbe evidenziarne altri): (5) 3a coniugazione —————————————–––––––––––––––> 2a coniugazione stadio I stadio II stadio III INF fi'ni 'dœrme 'parte 'sɛnte 'leze IND.PRS.1PL fi'njuma dyr'm(j)uma par'tuma sɛn'tuma le'zuma PP fi'ni dyr'mi par'ti sɛn'ty le'zy FUT fini'raj dyrmi'raj parti'raj sɛnti'raj lez(e)'raj Il grosso di questa coniugazione eterocl*ta sembra al momento essersi addensato proprio sul tipo in-termedio, quello di ['parte]. Fenomeni analoghi di tendenza alla liquidazione del tipo residuale dei verbi in -ire senza aumen-to si ritrovano in varie parti d’Italia, ma spesso sono menzionati solo in termini della forma infinitivale (cfr. Rohlfs 1968: § 615), il che non consente di valutare l’eventuale gradualità del processo, né se si tratti di un effettivo trasferimento di coniugazione e non di singola forma. Maiden (2004a: 18 n. 44) se-gnala infatti giustamente come il passaggio dell’infinito non configuri affatto, di per sé, un completo passaggio di coniugazione, e certamente questo vale (al momento) per il torinese.15

15 La cosa è ulteriormente comprovata in torinese dalla presenza di alcuni casi di ritrazione d’accento – solitamente opziona-le – nell’infinito di verbi della prima coniugazione, che viene quindi a coincidere con la forma di seconda coniugazione: ['dʒœge] anziché [dʒy'ge] ‘giocare’, ['stʃajre] anziché [stʃaj're] ‘vederci’. Aly-Belfàdel (1933: 179 n.1) ne cita alcuni altri, non noti ai miei informanti, indicandoli come forme rustiche. In tutti i casi l’infinito rizotonico non comporta alcun analogo pas-saggio delle altre forme, che rimangono ancorate alla prima coniugazione: IND.IMPF.1SG [dʒy'gava], PP [stʃaj'ra] ecc. Si noti inoltre nel caso di ['dʒœge] (attestato anche nella carta 741 dell’AIS per il solo punto di Torino, come opzione dell’informante II, solitamente meno arcaizzante) il contestuale passaggio alla base rizotonica (['dʒœge], non *['dʒyge]), di cui si parlerà nel § 3.3.

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3. Allomorfie tematiche e partizioni 3.1 L’eliminazione dello schema a L Anche il quadro delle allomorfie tematiche del verbo torinese presenta rilevanti differenze rispetto a quello italiano. Come è noto, Maiden (2005; 2016b: 712-716) ha individuato su un piano pan-romanzo due meccanismi fondamentali di partizione: lo “schema a L” (L-pattern) – che alterna con lo “schema a U”16 –, riconducibile ai fenomeni di palatalizzazione da [j] (ad es. it. ant. saglio, saglia vs sali, salite) e – com-plementarmente – a quelli di palatalizzazione da [e], [i] (ad es. it. leggo, legga vs leggi, leggete); e lo “schema a N” (it. ant. suono, suoni vs sonate), riconducibile alle alternanze accentuali tra forme rizotoniche (IND/CONG.PRS.1SG, 2SG, 3SG, 3PL; IMP.2SG) e forme arizotoniche (tutte le altre). Per quanto riguarda lo schema a L/U, il torinese ha essenzialmente eliminato la partizione che ne risulta (salvo per un numero limitato di verbi fortemente irregolari come ‘sapere’ o ‘volere’, vedi ol-tre al § 3.4), quasi sempre a favore dell’alternante non-L, che è quello di default al di fuori del presente. Si tratta di un livellamento molto diffuso – si direbbe anzi generalizzato – nell’italoromanzo settentrionale (Maiden 2012: 43; si vedano anche, ad esempio, le carte AIS 1653 ‘voglio che tu finisca’, 1658 ‘non ca-pisco’, o 1696 ‘presente di ‘cogliere’’). In (6) si esemplificano le principali alternanze fonologiche con-servate nell’italiano17 e il loro esito livellato in torinese: si noti che solo nel caso della sequenza originaria [r]+[j] il livellamento agisce a favore dell’alternante originariamente caratterizzante lo schema a L.

16 Le classi di partizione caratteristiche dei due schemi a L e a U differiscono nel fatto che la prima comprende IND.PRS.1SG e tutto il CONG.PRS, mentre la seconda vi aggiunge un’ulteriore cella, IND.PRS.3PL. Diacronicamente, lo schema a L è quello atteso a partire dalle forme palatalizzate della seconda coniugazione latina (valeo > ['valjo] > it. ant. vaglio vs valent > sp. valen), mentre quello a U si origina a partire dalla quarta coniugazione, dai verbi in -io della terza nonché dai verbi della terza coniu-gazione con finale velare (in questo caso con una distribuzione complementare alla precedente tra forme palatalizzate e non): salio, saliunt > it. ant. saglio, sagliono vs salit > sale; lego, legunt > leggo, leggono vs legit > legge. Ma normalmente le lingue ro-manze hanno generalizzato per tempo l’uno o l’altro schema: per es. lo spagnolo quello a L (salen come valen), e l’italiano (an-tico) quello a U: vagliono come sagliono. Ciò che rimane in torinese si riconduce al tipo L. Per una discussione più ampia si ve-da Maiden (2005; 2016b). 17 In (6) si dànno alcune forme dell’italiano antico (segnate con †) poiché, come è noto, nei secoli successivi l’italiano ha in parte livellato alcune classi di partizione prodotte dalla fonologia, solitamente neutralizzandole con la base di default, e in par-te le ha mantenute variando solo i significanti ma non la loro distribuzione paradigmatica (come quando ai tipi vegno, saglio si sono sostituiti i tipi moderni vengo e salgo), confermando in questo secondo caso la realtà cognitiva (morfomica) della parti-zione coinvolta.

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(6) IND.PRS.1SG CONG.PRS.1SG IND.PRS.2SG palatalizzazione da [j] ‘venire’ tor. 'vεŋu 'vεŋa 'vεŋe

it. †vegno †vegna vieni ‘piacere’ tor. 'pjazu 'pjaza 'pjaze

it. piaccio piaccia piaci ‘valere’ tor. 'valu 'vala18 'vale

it. †vaglio †vaglia vali ‘morire’ tor. 'mœjru 'mœjra 'mœjre

it. muoio muoia muori palatalizzazione da [i], [e] ‘leggere’ tor. 'lezu 'leza 'leze

it. leggo legga leggi ‘storcere’ tor. 'stɔrzu 'stɔrza 'stɔrze

it. storco storca storci ‘nascere’ tor. 'nasu 'nasa 'nase

it. nasco nasca nasci ‘cogliere’ tor. 'kœju 'kœja 'kœje

it. colgo colga cogli ‘ungere’ tor. 'uŋzu 'uŋza 'uŋze

it. ungo unga ungi Lo stesso avviene con i verbi non di tradizione diretta, ma presi in prestito dall’italiano – non certo re-centemente, peraltro, almeno per la varietà urbana: quelli citati sono tutti presenti in di Sant’Albino (1859) e spesso in vocabolari ottocenteschi precedenti. Si vedano gli esempi in (7). In questi prestiti, per i verbi che in italiano presentano l’alternanza [k]~[tʃ] o [g]~[dʒ], viene di solito mantenuta l’affricata ita-liana (cioè non viene sostituita diasistematicamente dalla sibilante a cui corrisponderebbe etimologica-mente in piemontese: ['vintʃe], non ['viŋse]19); ma questo alternante palatale viene esteso a tutto il para-digma, eliminando la partizione esattamente come nel caso precedente. Un trattamento particolare si ha poi con i verbi in -duco, dove nelle forme originariamente in velare si ha una cancellazione della -[k]- in-tervocalica, con inserzione, in passato oscillante, di una [v] epentetica: [tra'duko] > [tra'dy(v)u]. Ed è questo nuovo tema in -[v], non l’alternante palatale, che viene esteso a tutto il paradigma (incluso l’infinito [tra'dy(v)e])20. Ma dal punto di vista dell’eliminazione dello schema a L, il risultato è lo stesso.

18 In questo verbo in torinese è presente anche la forma ['vaja], che mantiene una base B2 al solo congiuntivo, al pari di un nucleo ridotto di verbi di cui si parlerà nel § 3.4. 19 Si deve riconoscere una certa circolarità nel definire prestiti i verbi di cui sopra, perché proprio la presenza di [tʃ], [dʒ] an-ziché [s], [z] rappresenta il tratto che li identifica come tali. In realtà non sarebbe da escludere una preesistente tradizione di-retta di almeno alcune di queste forme (con [s], [z] poi sostituite con la variante “italianizzata” in [tʃ], [dʒ], su cui cfr. Clivio 1976 [1972]: 96-99). Con il termine prestiti ci si riferisce quindi per brevità a forme che non possono essere interamente di tradizione diretta, senza implicare necessariamente l’assenza di un continuatore autoctono dello stesso lessema in fasi prece-denti del torinese. Ad esempio in un testo del Quattrocento, in una varietà diversa, ma pur sempre di piemontese occidenta-le, si trova il PP cor(r)ezu (Ordinamenti dei Disciplinati e dei Raccomandati di Dronero, in Gasca Queirazza et al. 2003: 125; 129). 20 È possibile che sia proprio l’anomalia di questi infiniti in -durre nel modello italiano ad aver favorito la strategia speciale di integrazione di questi prestiti. Essenzialmente solo [tra'dyve], [pru'dyve] e [ri'dyve] (più anticamente [ar'dy(v)e]) sono di uso corrente, anche se di Sant’Albino (1859) ne riporta vari altri, sempre senza [v] all’infinito, come [kuŋ'dye], [in'dye], [se'dye]. Il CONG.PRS.3SG condua si trova peraltro già nelle Recomendaciones di Saluzzo, del secondo Quattrocento (Gasca Queirazza et al. 2003: 114; 120) e l’INF redue, nel senso di ‘riportare’ – quindi difficilmente un prestito! –, nelle farse in antico astigiano (dialet-to di tipo monferrino) dell’Alione, stampate nel 1521 (Gasca Queirazza et al. 2003: 182).

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(7) IND.PRS.1SG CONG.PRS.1SG IND.PRS.2SG ‘vincere’ tor. 'vintʃu 'vintʃa 'vintʃe

it. vinco vinca vinci ‘correggere’ tor. ku'redʒu ku'redʒa ku'redʒe

it. correggo corregga correggi ‘proporre’ tor. pru'puŋu pru'puŋa pru'puŋe

it. propongo proponga proponi ‘tradurre’ tor. tra'dyvu tra'dyva tra'dyve

it. traduco traduca traduci Il livellamento riguarda anche i verbi con aumento -[s] (essenzialmente tutta la terza coniugazione, co-me si è visto in § 2.3), che, non diversamente da ['nasu] ‘nasco’, hanno esteso l’alternante [s] < [ʃ] alle forme uscenti originariamente in -[sk]. Un esempio è dato più avanti in (11). 3.2 Lo schema a N e il suo rimodellamento in torinese Rimangono invece rilevanti le alternanze (etimologicamente) connesse all’accento. Ma la classe di parti-zione delle forme rizotoniche è decisamente diversa rispetto all’italiano, perché include tutto l’indicativo e il congiuntivo, salvo la prima persona plurale dell’indicativo.

Siamo quindi molto lontani dal “morfoma N” prototipico come definito da Maiden (2005: 152-158). Diamo un esempio con il verbo [pur'te] ‘portare’:

(8) 1SG 2SG 3SG 1PL 2PL 3PL IND.PRS 'pɔrtu 'pɔrte 'pɔrta pur'tuma 'pɔrte 'pɔrtu CONG.PRS 'pɔrta 'pɔrte 'pɔrta 'pɔrtu 'pɔrte 'pɔrtu IMP 'pɔrta pur'tuma pur'te

La classe di partizione identificata in grigio in (8) è pervasiva in torinese, se si considera il pattern accen-tuale (se ne allontana peraltro il verbo ‘andare’, come mostrato in (9)). In particolare, riguarda anche i verbi, tendenzialmente poco allomorfici in ambito romanzo, della prima coniugazione. Naturalmente si rivela come effettiva partizione del paradigma solo quando la posizione dell’accento correla con una al-lomorfia segmentale, nelle vocali o nelle consonanti (per una casistica dettagliata di queste allomorfie si veda oltre al § 3.3): in un verbo come [man'dʒe] ‘mangiare’ non c’è in realtà alcuna suddivisione in due basi tematiche, benché il pattern accentuale sia sempre quello in (8). Ma ovunque ci sia allomorfia segmentale, le tre celle etimologicamente non rizotoniche, rappre-sentate in (8) con il grassetto corsivo, presentano sempre, accanto al nuovo pattern accentuale, l’allomorfo segmentale proprio delle forme originariamente rizotoniche. In altre parole, il fenomeno che ha rimodellato lo schema a N non può descriversi come semplice ritrazione d’accento, ma compor-ta un adeguamento dell’allomorfo tematico delle celle coinvolte. La struttura in (8) comporta alcuni cambiamenti di rilievo nella distribuzione delle celle omoni-me del paradigma. Mentre in gran parte dell’italoromanzo (come del resto in francese) si ha omonimia sistematica tra le seconde persone plurali dell’indicativo e dell’imperativo21, in torinese le due forme so- 21 In italiano fanno eccezione solo avere, essere, sapere, volere, dove però gli imperativi abbiate, siate, sappiate, vogliate sono di fatto dei congiuntivi (salvo la speciale sintassi dei cl*tici). La distinzione tra la 2PL dell’imperativo e dell’indicativo manca anche in romeno, mentre è salda in iberoromanzo, sardo e retoromanzo (Maiden 2016a: 502). Barbato (2013b: 26-27) segnala inoltre vari interessanti casi di distinzione tra imperativo e indicativo nella 2PL anche nell’Italia mediana, dovuti in qualche caso alla resistenza dell’imperativo ad innovazioni nell’indicativo, come è accaduto in torinese. Si noti che il torinese ha introdotto la distinzione anche nei verbi a radice asillabica come ‘dare’ e ‘stare’, dove non può esserci ritrazione d’accento, ma nel presen-te viene agglutinato il pronome -[ve] (originariamente interrogativo), per cui si ha [ste] ‘state!’ vs [(i) 'steve] ‘(voi) state’. Il to-rinese del Settecento aveva ancora dé, sté in entrambe le funzioni.

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no sempre distinte. Al contrario, in torinese vengono sistematicamente a coincidere nella 2PL il con-giuntivo e l’indicativo (come già nella 2SG e nella 3PL), con la sola eccezione dei pochi verbi che man-tengono in tutto o in parte lo schema a L (si veda il § 3.4); due forme che invece in italiano sono quasi sempre distinte.22 Nella classe di partizione del torinese contemporaneo come appare (caselle grigie) in (8), occor-re in realtà distinguere due fasi distinte di allontanamento dalla distribuzione prevalente in ambito ro-manzo (e corrispondente alla distribuzione accentuale latina della prima, seconda e quarta coniugazio-ne). La prima differenza riguarda le prime due persone plurali del congiuntivo presente, caratterizza-te in torinese dall’allineamento accentuale – oltre che tematico – con le restanti quattro persone dello stesso modo/tempo. Su scala romanza, il fenomeno è stato studiato in dettaglio da Maiden (2012): la sua distribuzione, certo minoritaria, si estende tuttavia su un arco abbastanza ampio che va dalle Asturie ai Pirenei (con alcune varietà guasconi), a gran parte della Corsica e poi all’arco alpino piemontese e lombardo fino al romancio orientale (engadinese)23. Maiden (2012) interpreta questo livellamento accentuale del congiuntivo (il suo “tipo B”) non come risultato di una tendenza a “de-morfomizzare” la partizione, uniformando il pattern accentuale delle celle del congiuntivo presente in quanto condividono la stessa categoria morfosintattica, bensì piuttosto come reazione a una strategia opposta presente in altre lingue romanze (tra cui l’italiano: è il suo “tipo A”), nelle quali l’originaria uniformità tematica, ma non accentuale, di tutto il congiuntivo presente (se-condo lo schema a L/U dovuto alle palatalizzazioni come visto sopra) viene interrotta nella 1PL e 2PL, che adottano la base tematica non palatalizzata mutuandola dalle corrispondenti celle dell’indicativo: dal tipo di indicativo apparimo/apparite vs congiuntivo appaiamo/appaiate, si passa al congiuntivo apparia-mo/appariate (che poi la forma del congiuntivo appariamo venga estesa all’indicativo è un’altra storia, tipi-ca del toscano ma non di altri dialetti centrali: sulla complessa dinamica delle marche desinenziali di 1PL e 2PL nell’Italia mediana si veda ora Barbato 2013b). Un argomento a favore di questa lettura (Maiden 2012: 43-45) è che lo schema del congiuntivo uniformemente rizotonico si estende a tutti i verbi, inclusi quelli della prima coniugazione, solo in un sottoinsieme di varietà di tipo B: in altre (per esempio in alcune asturiane, e anche alessandrine) è effet-tivamente limitato a quei verbi in cui il congiuntivo presenta già etimologicamente un allomorfo seg-mentale caratteristico (lo schema a L/U), mentre il contrario (cioè un livellamento accentuale parziale che parta dai verbi regolari) non sembra trovarsi mai. Si avrebbe quindi che “the evidence points in a quite different direction, indicating that levelling was intimately connected with the prior presence of inherited L/U pattern consonantal allomorphy” (Maiden 2012: 44 n. 17). Certamente il torinese non porta sostegno a questa ipotesi, né d’altra parte la smentisce, dato che appartiene al tipo B per così dire estremo, in cui tutti i verbi, come si è detto sopra, presentano il congiuntivo uniformemente rizotonico. Diversa nel suo statuto sia diatopico sia, probabilmente, diacronico è invece la forma rizotonica nella IND.PRS.2PL, che comporta la sua identificazione con il congiuntivo. In questo caso il fenomeno appare di distribuzione geografica più limitata24 e non è completo neppure in torinese contemporaneo, perché ne resta escluso il verbo ‘andare’25: 22 Il contrasto tra IND.PRS.2PL e CONG.PRS.2PL in italiano si neutralizza soltanto, per ragioni squisitamente fonetiche, per i verbi della prima coniugazione uscenti in palatale: i tipi mangiate, stracciate, svegliate, inguaiate, lasciate, sognate/sogniate (in quest’ultimo caso la distinzione è ovviamente solo grafica, almeno nella pronuncia standard). 23 Maiden (2012: 51) non si sbilancia sull’ipotesi di una monogenesi o poligenesi del fenomeno, ma segnala la natura di zone tendenzialmente residuali (isolate, montane) del territorio che lo riguarda, che potrebbe, con cautela, deporre a favore di un’origine unica in quanto antica. Curiosamente, non sembra consapevole che in Piemonte lo stesso pattern è presente in un’ampia area di pianura certo non residuale, includendo la capitale. 24 Per esempio a Ventimiglia si ha il congiuntivo rizotonico 1PL ['kantimu], 2PL ['kanti], ma l’IND.PRS.2PL [kan'te] (Azaretti 1982: 200); lo stesso per Sisco in Corsica (Chiodi Tischer 1981, cit. in Maiden 2012: 36): CONG.PRS.1PL ['kantimu], 2PL ['kan-tide], ma IND.PRS.2PL [kan'tade], o a Felizzano (Alessandria): CONG.PRS.1PL [(a) 'parlu], 2PL [(u) 'parli], ma IND.PRS.2PL [u par'lɛj] (Ramponelli 1994). 25 Nel verbo ‘andare’, peraltro, le forme rizotoniche non appartengono a un’unica classe di partizione, bensì a due, B2 vad- e B3 v-. La seconda – che è distinta da B2 solo in pochi verbi come ‘volere’ in (13); si veda anche lo schema (20) – è indicata in (9), come anche in (13) e (14), in grigio più scuro.

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(9) 1SG 2SG 3SG 1PL 2PL 3PL IND.PRS 'vad(u) 'vade (vaz) va (ə)n'duma (ə)n'deve

†(ə)n'de vaŋ

CONG.PRS 'vada 'vade 'vada 'vadu 'vade 'vadu IMP va (ə)n'duma (ə)n'de Come si vede in (9), l’estensione della originale classe di partizione associata allo schema a N si è appli-cata al congiuntivo di 1PL e 2PL anche in questo verbo, suppletivo in gran parte della Romània (Maiden 2004b: 232–233), come avviene in generale nelle varietà romanze del tipo B; il che testimonia, anche per il torinese, la produttività “morfomica” dello schema a N, sia pur modificato (cfr. Maiden 2005: 153–155). Ma la stessa estensione non si è applicata alla 2PL dell’indicativo, nonostante il mutamento di quest’ultima dalla forma andé, ancora settecentesca, a quella contemporanea [(ə)n'deve], formata con l’agglutinazione dell’originario cl*tico interrogativo -[ve] e caratteristica per il resto dei verbi a radice asil-labica ‘dare’, ‘fare’ e sim. (vedi oltre il § 3.4). Peraltro, data la frequente realizzazione di [(ə)n'de] con un attacco in occlusiva prenasalizzata [nde], lo statuto monosillabico dell’infinito non è estraneo nemmeno ad ‘andare’. Più rilevanti le eccezioni nel torinese del Settecento e del primo Ottocento, nel quale il piccolo gruppo di verbi che mantiene tuttora all’infinito l’uscita in -['ɛj] (sette in tutto: avèj ‘avere’, dovèj ‘dovere’, podèj ‘potere’, savèj ‘sapere’, volèj (oggi vorèj) ‘volere’, e i due più regolari valèj ‘valere’ e piasèj ‘piacere’) è ben attestato con forme arizotoniche nella 2PL dell’indicativo (avì, d(o)vì, podì, savì, v(o)lì) accanto a quelle moderne peule, veule, seve, deve; compresenza – spesso nello stesso testo! – che evidentemente manifesta un mutamento in corso. Si vedano esempi come:

(10) E voi volì chiteme? E voi veule pi nen esse me spos? ‘E voi mi volete lasciare? E voi non volete più essere mio sposo?’ [Edoardo Ignazio Calvo, Favole morali (1802-3), in Brero & Gandolfo (1967: 413)]

La cosa è confermata in qualche modo anche dai lacunosi paradigmi forniti da Pipino (1783), che dà so-lo avì (p. 45), solo peule (p. 52), savì o seve in alternativa (p. 71), e solo deve (p. 51), usando poi nei testi di lettere che accompagnano la grammatica sia dvì (p. 114) che deve (130), accanto a veule (108, 134), savì (108), avì (110, 120, 126, 130). Del resto, la forma vole per l’IND.PRS.2PL (probabilmente da leggere ['vœle], cfr. Clivio 1974: 23) compare già nelle Canzoni torinesi del 1663. Sul piano diatopico, questo mutamento non ha raggiunto l’intero Piemonte, poiché almeno nell’Alessandrino la forma di IND.PRS.2PL rimane ossitona (cfr. il punto dell’AIS 158, Ottiglio, alle carte: 1683 [la'vej] ‘lavate’, 1688 [ven'dij] ‘vendete’, 1694 [pu'dij] ‘potete’, [vrej] ‘volete’, 1695 [mni] ‘venite’, ol-tre alla nota 24); e questo vale per tutti i verbi e non solo per quelli in -['ɛj]. Sarebbe interessante verificare se si potesse indicare un terminus post quem per questa forma rizo-tonica torinese di IND.PRS.2PL anche riguardo ai verbi ad aumento in -[s] (torinese contemporaneo [i fi'nise] ‘(voi) finite’ vs [fi'ni] finite!), ma purtroppo non ho trovato occorrenze di queste forme nei testi settecenteschi consultati. Né viene in aiuto la grammatica di Pipino (1783), che non contiene alcun pa-radigma di verbi in -[s], né loro forme di 2PL nei testi di accompagnamento. Mi auguro che uno spoglio più vasto possa chiarire questo punto, di particolare interesse per ipotesi più generali sulla diacronia delle partizioni, in quanto per i verbi in -[s] è evidente che non si può parlare di semplice ritrazione d’accento (che darebbe una forma di 2a plurale *['fini], assolutamente inattestata) bensì di un passaggio della cella in questione da una classe di partizione all’altra del para-digma. La partizione dei verbi in -[s] nel torinese di oggi, identica a quella di [pur'te] in (9), è riportata per chiarezza in (11):

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(11) 1SG 2SG 3SG 1PL 2PL 3PL IND.PRS fi'nisu fi'nise fi'nis fi'njuma fi'nise fi'nisu CONG.PRS fi'nisa fi'nise fi'nisa fi'nisu fi'nise fi'nisu IMP fi'nis fi'njuma fi'ni Una datazione tarda dell’estensione di [s] alla cella di IND.PRS.2PL sembrerebbe potersi dedurre dal pa-radigma del verbo ‘guarire’ riportato per il punto di Torino dell’AIS (carta 1687) limitatamente al par-lante I (il più arcaizzante): [gwa'risu gwa'rise gwa'ris gwa'rjuma gwa'ri gwa'risu]. Ma è noto che occorre valutare con cautela l’affidabilità delle forme paradigmatiche fornite nell’AIS, ed elicitate fuori contesto (cfr. ad esempio le osservazioni di Maiden 2004a: 6-7); tanto più in un caso come questo in cui ‘guarite’ vale in italiano anche come IMP.2PL (per il quale la forma [gwa'ri] è fuori discussione, essendo l’unica possibile tuttora); e purtroppo le carte dell’AIS non offrono esempi in contesto di verbi in -isc- alla 2PL dell’indicativo26. La sopravvivenza di una forma di indicativo [gwa'ri], per il torinese alla data dell’AIS, appare perciò improbabile: Aly-Belfàdel (1933), che in alcuni casi non manca di segnalare forme in via di obsolescenza ai suoi tempi (non lontani da quelli delle inchieste AIS), dà solo la forma contempora-nea [pa'tise] ‘voi patite’, e così fanno i paradigmi di Gavuzzi (1896), di una generazione precedente. Una eventuale datazione relativamente tarda di questo passaggio potrebbe porre un problema per l’ipotesi di Maiden (ad es. Maiden 2005: 159-164) secondo cui l’accento non svolge un ruolo signifi-cativo nella dinamica diacronica dello schema a N, pur essendo ovviamente alla base della sua forma-zione originaria. Infatti, se questo mutamento potesse dimostrarsi più antico nella prima coniugazione (dove, almeno per i verbi senza alternanza vocalica, si configurerebbe effettivamente come una sempli-ce ritrazione d’accento) la sua estensione ai verbi in -[s], comportando l’adozione del tema aumentato, potrebbe vedersi come prova della persistenza di un condizionamento del pattern accentuale sulla distri-buzione tematica del paradigma. In effetti, Maiden si riferisce incidentalmente (2004a: 31 e n. 99) alla forma rizotonica di IND.PRS.2PL del piemontese in termini di copia dalla 2SG, mutuando in parte da Rohlfs (1968: § 531). Tuttavia, una regola di rimando IND.PRS.2PL = IND.PRS.2SG sarebbe descrittivamente economica e teo-ricamente significativa solo se comportasse l’identificazione delle due celle in tutti i verbi, mentre in to-rinese i verbi a base asillabica come [de] ‘dare’, [ste] ‘stare’ (proprio quelli per cui la ritrazione d’accento è impossibile) non hanno mai presentato alcuna tendenza ad uguagliare la 2PL alla 2SG, anche se en-trambe le forme sono cambiate negli ultimi due secoli: IND.PRS.2SG ['stage], antiquato [staz], vs IND.PRS.2PL ['steve], antico [ste] (fino al primo Ottocento). Per di più il passaggio [ste] >> ['steve], che in torinese avviene solo con queste forme monosillabiche e non all’imperativo (vedi nota 21: l’agglutinazione del pronome encl*tico ‘voi’ è invece solitamente molto più estesa, ma assente nel pre-sente, nell’italoromanzo settentrionale, cfr. Maiden 2016a: 500), sembrerebbe configurare una strategia alternativa per adeguarsi al nuovo pattern accentuale della forma di IND.PRS.2PL: benché non sia possibi-le ritrarre l’accento, le nuove forme non sono più ossitone. Si direbbe quindi che il livellamento accen-tuale – indipendentemente dalla divisione morfologica tra tema e flessioni – abbia qui un ruolo auto-nomo. Inoltre, contro l’ipotesi di una copia IND.PRS.2PL = IND.PRS.2SG, va rilevato che lo stesso feno-meno di rizotonia della 2PL si trova nelle varietà di piemontese occidentale – come quello di Saluzzo – che mantengono la -[s]/-[z] finale nella 2SG; e questa -[s] non è mai estesa alla 2PL. Cfr. i punti AIS 163 (Pancalieri) e 172 (Villafalletto): carta 1683 [t 'laves] (163)/[t 'lavis] (172) vs [u 'lave]/[u w 'lavi], carta 1688 ['vɛndes]/['vɛndis] vs ['vɛnde]/['vɛndi], ecc.; o i dati non pubblicati dell’ALI per Saluzzo. 26Va inoltre notato che nei paradigmi dell’AIS per ‘guarire’ i punti di varietà rustiche arcaiche di piemontese occidentale 163 (Pancalieri) e 172 (Villafalletto) non concordano con Torino e dànno la forma rizotonica [va'rise] (AIS 1687, p. 163), [va'risi] (AIS 1687, p. 172).

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3.3 Le alternanze connesse allo schema a N Come accennato sopra, lo schema a N modificato (8), collegato al pattern accentuale, induce una parti-zione segmentale in diverse classi di verbi oltre ai verbi con aumento in -[s], determinando le alternanze tematiche riassunte in (12):

(12) IND.PRS.3SG IND.PRS.1PL Foni in alternanza B2,3 B1

1. ‘suonare’ 'suŋa su'numa ŋ n 2. ‘portare’ 'pɔrta pur'tuma ɔ u 3. ‘uscire’ sœrt syr'tuma œ y 4. ‘provare’ 'prœva pru'vuma œ u 5. ‘picchiare’ pa'tela pa'tluma e Ø (6. ‘pesare’ 'pɛjza pə'zuma) ɛj ə Alternanze multiple 1.-5. ‘pettinare’ pɛn'tɛŋa pɛn(t)'numa ɛŋ Øn 4.-7. ‘volere’ vœl vu'ruma B3 œl (B2 œj) ur 4.-8. ‘potere’ pœl pu'duma B3 œl (B2 œs) ud

Tuttavia, non è ovvio che tutti i casi di alternanza in (12) siano da descrivere come di pertinenza della morfologia. Infatti, nei tipi 1. e 2. – che sono anche i più frequenti – l’alternanza deriva da regole fono-logiche tuttora attive e generali in torinese: la neutralizzazione di /ŋ/ → [n] e /ɔ/ → [u] in posizione pretonica, dove i foni [ŋ] e [ɔ] sono impossibili. Pertanto, se i verbi [su'ne] e [pur'te] sono definiti in termini delle basi rizotoniche ['suŋ]- e ['pɔrt]-, la loro flessione è interamente predicibile in sincronia su base fonetica e non occorre fare riferimento a una seconda base [sun]- e [purt]- rispettivamente. Il caso è analogo a quello menzionato da Pirrelli & Battista (2000: 321) sull’alternanza ['riskj-o]/['risk-i] in ita-liano, per la quale gli autori correttamente affermano che, data l’esistenza della regola fonologica gene-rale [j] → Ø/__ [i], [j] (le sequenze [ji], [jj] sono infatti impossibili in italiano), “[...] It is reasonable to posit the existence of one underlying S = [riskj], whose surface variant [risk] is accounted for as the re-sult of the application of glide assimilation”. Diversa è la situazione delle alternanze 3. e 4. Benché anche qui [œ] sia impossibile in posizione pretonica, non c’è modo di determinare la forma fonologica della base arizotonica a partire da quelle rizotoniche ['sœrt]- e ['prœv]-, proprio perché ci sono due diversi esiti [u] e [y], non prevedibili in sin-cronia, della neutralizzazione di /œ/; inutile dire che anche il cammino inverso è impraticabile, data l’esistenza di verbi non alternanti con base in vocale [u] e [y] (come ['budʒa]/[bu'dʒuma] ‘muo-ve/muoviamo’ e [kyz]/[ky'zuma] ‘cuce/cuciamo’).27 Infine, non c’è dubbio che le alternanze in 5.- 6. siano di pertinenza della morfologia, perché la cancellazione/riduzione di [e] o [ɛj] pretonica non è più una regola attiva in sincronia: [pate'luma] sa-rebbe perfettamente possibile fonologicamente; e in effetti nel torinese contemporaneo ci sono molti casi di restituzione di una vocale [e] o [ɛ] pretonica in parole che in fasi precedenti avevano [ə] o zero, normalmente in presenza di un modello italiano (il tipo [pnel] >> [pe'nel] ‘pennello’, cfr. Clivio 1976 [1972]: 100). Per quanto riguarda [pɛj'zuma], questa forma livellata è in realtà quella corrente oggi (ra-gion per cui in (12) l’alternanza in questione è stata menzionata tra parentesi), e già Gavuzzi (1896) ri-porta s.v. pesare le tre varianti pesé, pësé e peisé. Le alternanze consonantiche 7. e 8. (unite all’alternanza vocalica 4.) di ‘potere’ e ‘volere’ sono specifiche dei due verbi, e frequenti nei dialetti dell’Italia settentrionale, ma proprio per questo sono una conferma dell’effetto morfomico dello schema a N (cfr. Maiden 2004a: 41; 2004b: 235–236), cioè 27 Appare controintuitivo, anche se tecnicamente possibile e da un certo punto di vista più economico, stipulare una delle due alternative di neutralizzazione come regola di default, per esempio /œ/ → [y]/[-accento], con il che l’alternanza 3. [sœrt]/[syr'tuma] sarebbe ricondotta alla fonologia, e solo la 4. sarebbe da trattare in termini di condizionamento paradigma-tico.

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del suo potere attrattivo. In particolare, per ‘volere’ è interessante come il passaggio [l] > [r] sia collega-to in torinese alla classe di partizione arizotonica, dato che si tratta di un mutamento recente: i testi del Settecento hanno prevalentemente volèj(e), così anche Pipino (1783: 53), Zalli (1815 s.v.), e persino di Sant’Albino (1859), che però ha un rimando s.v. vorèje e soprattutto usa quest’ultima forma in alcuni esempi. I verbi ‘potere’ e ‘volere’, peraltro, partecipano anche di un’alternanza tematica meno comune che coinvolge il congiuntivo, come descritto nel prossimo paragrafo. 3.4 I pochi resti dello schema a L Come accennato nel § 3.1, la classe di partizione riconducibile alla palatalizzazione da [j] non è comple-tamente eliminata in torinese, ma sopravvive in alcuni verbi (dove non sempre è etimologica). Tuttavia la distribuzione delle celle non è completamente uniforme. In tutti i verbi che la presentano, la base coinvolta (che possiamo chiamare B2, in parallelo con le descrizioni relative all’italiano di Pirrelli 2000 e Montermini & Boyé 2012; nel seguito le celle ad essa associate sono rappresentate in grigio chiaro) ca-ratterizza uniformemente l’intero congiuntivo presente, ma solo in due verbi la sua distribuzione assu-me la forma usuale dello schema a L, essendo presente anche nella IND.PRS.1SG; mentre in almeno altri due casi la B2 si estende ulteriormente alla IND.PRS.2SG. I verbi che mantengono una forma, pur non completamente coerente, di distribuzione a L sono essenzialmente i pochi che conservano l’infinito in -['ɛj] (tranne [pja'zɛj] ‘piacere’), più alcuni altri mono-sillabici (o meglio con radice asillabica), dove certamente la distribuzione non ha carattere etimologico. A questi si aggiunge [ən'de] ‘andare’ già presentato in (9), la cui radice non è etimologicamente asillabi-ca, ma prosodicamente viene spesso realizzata come tale, come già osservato in § 3.2. Appartengono al tipo L vero e proprio i soli verbi [pu'dɛj] ‘potere’ e [vu'rɛj] ‘volere’, già men-zionati nel § 3.3 in quanto cumulano le alternanze tematiche di tipo N e di tipo L. Le forme del presen-te dei due verbi sono date in (13). Il residuo delle celle rizotoniche che rimangono escluse dalla classe di partizione associata a B2 (e sono quindi rappresentate in grigio scuro) si riconduce, come accennato in § 2.2, ad una base tematica rizotonica complementare a B2, che chiameremo B3, come il suo analogo ita-liano. La base di default B1, in (13) e nel successivo (14), è rappresentata in bianco e compare solo alla 1PL dell’indicativo, dato il rimodellamento dello schema a N discusso sopra in § 3.2. Ovviamente B1 ri-mane la base più frequente nel paradigma, dato che compare in quasi tutte le celle esterne al presente, cioè nelle celle “regolari” del paradigma, come l’imperfetto indicativo e congiuntivo, il futuro, il gerun-dio e anche l’infinito. (13) 1SG 2SG 3SG 1PL 2PL 3PL ‘potere’: B1 = pud/pyd-28, B2 = 'pœs-, B3 = 'pœl- IND.PRS pœs 'pœle pœl pu'duma 'pœle 'pœlu CONG.PRS 'pœsa 'pœse 'pœsa 'pœsu 'pœse 'pœsu ‘volere’: B1 = vur/vyr, B2 = 'vœj-, B3 = 'vœl- IND.PRS vœj 'vœle vœl vu'ruma 'vœle 'vœlu CONG.PRS 'vœja 'vœje 'vœja 'vœju 'vœje 'vœju Per alcuni altri verbi, invece, la base B2 non si estende alla prima persona dell’indicativo: il pattern è quel-lo mostrato in (14). 28 La forma [pyd]- per la base di default è preferita da alcuni miei informanti, ma non appare in Villata (1997: 218); c’è invece come alternativa in Brero & Bertodatti (1988: 114–115), come anche [vyr]- per ‘volere’. Nell’uso attuale non sono poche le oscillazioni nelle vocali atone delle B1, specie in contesto labiale (un altro esempio è ['vədde] ‘vedere’, ma [və'du-ma]/[vy'duma] ‘vediamo’). Negli esempi ho indicato le alternative, e in qualche caso ho scelto secondo le preferenze mie e degli informanti, non sempre coincidenti con quelle delle grammatiche normative, che comunque spesso segnalano più op-zioni. Dal punto di vista morfomico, è significativo che queste opzioni riguardino la base, non le singole forme, e vengano normalmente utilizzate coerentemente da ciascun parlante all’interno della classe di partizione.

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Mentre le forme di questi verbi riconducibili alla base B2 sono essenzialmente etimologiche e uniformi nelle loro caratteristiche fonetiche, il residuo con B3 che si trova all’indicativo presenta varie idiosincrasie nella flessione. Tuttavia, dal punto di vista delle allomorfie tematiche, una base unica B3 per queste celle rimane individuabile. La classe di partizione B2,3 caratteristica dello schema a N di Mai-den (nel rimodellamento che ne fa il torinese) coincide appunto con l’unione delle classi B2 U B3 per i verbi in (13) come per quelli in (14); tuttavia il confine tra B2 e B3 non è stabile, e questo costituisce un problema per una rappresentazione unitaria in termini di spazio tematico, a meno di introdurre una ul-teriore partizione dedicata alla cella “incoerente” di IND.PRS.1SG, il che è tecnicamente possibile ma senz’altro artificioso, a mio parere. (14) 1SG 2SG 3SG 1PL 2PL 3PL ‘dovere’: B1 = dyv/duv-, B2 = 'dœbj-, B3 = 'dœv/'dev- IND.PRS 'dœvu 'dœve dœw dy'vuma 'dœve 'dœvu CONG.PRS 'dœbja29 'dœbje 'dœbja 'dœbju 'dœbje 'dœbju ‘avere’: B1 = av-, B2 = 'abj-, B3 = Ø- IND.PRS aj az a a'vuma 'uma 'eve aŋ CONG.PRS 'abja 'abje 'abja 'abju 'abje 'abju ‘sapere’: B1 = sav-, B2 = 'sapj-, B3 = s- IND.PRS saj saz sa sa'vuma 'suma 'seve saŋ CONG.PRS 'sapja 'sapje 'sapja 'sapju 'sapje 'sapju Dal confronto dei paradigmi in (14) si vede come nei verbi [a'vɛj] e [sa'vɛj], che spesso nei paradigmi romanzi mostrano una particolare solidarietà e anche in torinese hanno una flessione strettamente pa-rallela, la base B3 ha la peculiarità di essere asillabica, in contrasto con B1 e B2. Questa B3 asillabica sem-bra avere una potenzialità espansiva come marca di tutto l’indicativo, dato che si introduce, creando so-vrabbondanza con la base di default, nella cella di 1PL. Notiamo che per [a'vɛj] non basta parlare di asil-labicità: infatti qui la B3 è il caso limite di un allomorfo zero di un morfema lessicale! È sempre all’asillabicità della base che vanno collegate le anomalie desinenziali di 2SG, 2PL e 3PL, dato che si ritro-vano identiche negli altri verbi di base asillabica del torinese presentati in (15). 3.5 Verbi asillabici e affini 3.5.1 ‘fare’ e ‘dare’/ ‘stare’ nel presente I verbi propriamente asillabici [de] ‘dare’ e [ste] ‘stare’ differiscono dal caso precedente di [a'vɛj] e [sa'vɛj] perché in questo caso la base asillabica copre anche il territorio della base di default B1, che carat-terizza la maggioranza delle celle del paradigma, e non solo il presente indicativo. A questi due verbi si aggiunge [fe] ‘fare’, in cui la base asillabica non è originariamente la base di default, ma, originariamente presente in poche forme irregolarmente sincopate (come in italiano fare, fate), si è andata estendendo ben oltre l’analogo processo che ha dato le forme fo, fai, fa, fanno in italiano. Si è così realizzata una completa convergenza nell’organizzazione tematica tra [fe] da un lato e [de]/[ste] dall’altro (cfr. Maiden 2004b: 237), che coinvolge, come si vedrà in § 3.5.2, anche una classe di partizione innovativa B4, che appare in celle tradizionalmente tra le meno allomorfiche nelle lingue romanze: il gerundio e soprattutto l’indicativo imperfetto. In (15) si dànno le forme dei presenti indicativo e congiuntivo, più l’imperativo, non usuale o assente nei verbi riportati in (13) e (14).

29 Esiste anche le forma regolarizzata ['dœva]/['deva] ecc., con neutralizzazione completa su B3 della base B2. Analogamente, anche il verbo [va'lɛj] ‘valere’ – per il quale non è però necessaria una base B3 – presenta sovrabbondanza in tutto il congiun-tivo tra le forme costruite su B2 (['vaja]) e quelle regolarizzate su B1 (['vala]), come detto alla nota 18.

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(15) 1SG 2SG 3SG 1PL 2PL 3PL ‘dare’: B1 = d-, B2 = 'dag-, B3 = d- IND.PRS 'dag(u) 'dage (daz) da 'duma 'deve (†de) daŋ CONG.PRS 'daga 'dage 'daga 'dagu 'dage 'dagu IMP da 'duma de ‘stare’: B1 = st-, B2 = 'stag-, B3 = st- IND.PRS 'stag(u) 'stage (staz) sta 'stuma 'steve (†ste) staŋ CONG.PRS 'staga 'stage 'staga 'stagu 'stage 'stagu IMP sta 'stuma ste ‘fare’: B1 = f-, B2 = 'faz-, B3 = f- IND.PRS 'faz(u) 'faze (faz) fa 'fuma 'feve (†fe) faŋ CONG.PRS 'faza 'faze 'faza 'fazu 'faze 'fazu IMP fa 'fuma fe La completa identità della struttura paradigmatica nel presente di ‘dare’ e ‘fare’ si è realizzata – probabilmente a partire dalla coincidenza delle forme monosillabiche per l’infinito e l’imperativo – con una sorta di convergenza “a metà strada”, in cui ‘fare’ ha ampiamente esteso le forme costruite sulla ba-se asillabica [f]-, mentre d’altra parte le forme del presente di ‘fare’ rimaste in rapporto con la base eti-mologica ['faz]- (riappare qui lo schema a L) trovano completa corrispondenza nella nuova base aumen-tata ['dag]-, ['stag]- di ‘dare/stare’30. Un elemento di problematicità, condiviso con assoluto parallelismo dai tre verbi, è dato dalla cella IND.PRS.2SG, dove competono le forme costruite sulla B1,3 e sulla B2, ma la prima, con desinenza anomala -[az], è ormai antiquata. Per ['dage] e ['stage], l’estensione di B2 è qui certamente recente (anco-ra l’Ottocento ha normalmente das, stas e Aly-Belfàdel 1933: 220 segnala il tipo in -[g]-, stigmatizzando-lo, come un’innovazione urbana dei suoi tempi); meno chiaro che ['faze] sia solo innovazione, perché [faz] non può essere ereditata, dato che presuppone la base non etimologica [f]- (la -[z] è qui desinenza conservata nei verbi monosillabici, e non parte del tema, al contrario che in ['faz-e]). L’estensione di B2 ai danni di B3 (in questo caso non neutralizzata con B1) nella cella IND.PRS.2SG si ritrova per di più, come si è visto in (9), anche nel verbo ‘andare’, con identiche modalità e cronologia (significativamente, l’innovazione è unificata anche nel rilievo di Aly-Belfàdel 1933). Que-sto costituisce un controesempio molto più serio, rispetto alla 1SG, all’ipotesi che i mutamenti paradig-matici procedano strettamente “per classe di partizione” (Pirrelli 2000: 61-63). Infatti: - si tratta di un mutamento recente e documentabile, mentre nel caso della cella IND.PRS.1SG, le due par-

tizioni concorrenti sono in realtà entrambe presenti da epoca molto antica, con alcuni radicamenti etimologici (come segnala Maiden 2012: 28-29);

- si tratta chiaramente di un mutamento morfomico, perché coinvolge una cella indipendentemente dalle forma fonetica delle basi coinvolte che si affermano: [dag]-/[stag]- da un lato e [vad]- dall’altro non sono foneticamente simili, ma sono le realizzazioni di B2 (e solo di B2) nei tre verbi; non è quindi fa-cilmente trattabile in termini di un’analogia locale su base fonetica;

- d’altra parte, non è una reindicizzazione in cui l’intera classe associata a B3 confluisca su B2, perché il resto delle celle con base B3 non è in alcun modo toccato;

- non è nemmeno possibile invocare una “debolezza” sistemica della cella di IND.PRS.2SG dovuta all’idiosincrasia della marca flessiva -[az], perché la stessa motivazione per un livellamento delle fles-sioni si applicherebbe alle altre celle di B3: le flessioni -['eve] e -[aŋ] sono altrettanto idiosincratiche nel presente e, come si è visto, “fanno sistema” con -[az], essendo tra l’altro tutte presenti nel futuro di tutti i verbi.

30 È questo l’unico caso in torinese di quell’aumento velare così pervasivo nei rimodellamenti paradigmatici dell’italiano, e attestato con maggiore ampiezza anche in numerose varietà italoromanze settentrionali.

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3.5.2 Una nuova classe di partizione L’identità strutturale dei paradigmi di ‘dare’/‘stare’ e ‘fare’ va al di là delle classi di partizione del presen-te. Anche in altre parti del paradigma si registra lo stesso fenomeno di convergenza, per cui in alcune celle (imperfetto e gerundio) ‘dare’ e ‘stare’ sviluppano una base sillabica in analogia a [faz]-, che in ‘fare’ è etimologica; in altre, segnatamente nel congiuntivo imperfetto, è ‘fare’ a utilizzare la base asillabica [f]-, sul modello di [de] e [ste] come già visto nel presente. Se quest’ultima è la stessa B1 che abbiamo in-contrato nel presente, ‘dare’ e ‘stare’ non utilizzano qui l’ampliamento in velare proprio del congiuntivo presente, bensì costruiscono una diversa base sillabica [daz]- e [staz]-. Per questi verbi si avrà quindi una B4 distinta dalla B2 del congiuntivo, mentre in sincronia ‘fare’ si potrà descrivere con due sole basi, con la doppia neutralizzazione B3 = B1 = [f]-, B4 = B2 = [faz]-. Le forme non etimologiche sono indicate in grassetto in (16).

(16) INF IND.IMPF.1SG GER CONG.IMPF.1SG PP ‘fare’ fe fa'zia fa'zɛnd 'fɛ jsa fajt ‘dare’ de da'zia da'zɛ nd 'dɛjsa dajt ‘stare’ ste sta'zia sta'zɛ nd 'stɛjsa stajt ‘andare’ ən'de ənda'zia ənda'zɛ nd ən'dɛjsa ən'dajt ‘venire’ 'vɛŋe/vni vni'zia vni'zɛ nd 'vnɛjsa vnyjt (vny) ‘tenere’ 'tɛŋe/tni tni'zia/te'nia tni'zɛ nd/te'nɛnd 'tnɛjsa tny/te'ny ‘prendere’ pje 'pjava pjand 'pjɛjsa pjajt (pja)

La nuova base tematica B4 (celle grigie) configura un aumento in -[z] alquanto peculiare, anche perché riguarda celle del paradigma normalmente caratterizzate per l’assenza di allomorfia, segnatamente l’indicativo imperfetto. In (16) si vede come questa classe di partizione sia stata in grado di attrarre an-che alcuni altri verbi secondo un probabile percorso analogico di somiglianza di famiglia: [ən'de] model-lato su [de], poi ['vɛŋe]/[vni] semanticamente modellato su [ən'de], infine ['tɛŋe]/[tni] di nuovo in un rapporto di somiglianza fonologica con ['vɛŋe]/[vni]. Ma per motivare il processo, potrebbe anche esse-re sufficiente la comune struttura prosodica monosillabica degli infiniti. Va detto che non si ha a che fare con un fenomeno recente, né limitato diatopicamente al Pie-monte. Non c’è qui spazio per sviluppare il discorso, ma segnaliamo che la prima attestazione in pie-montese per sté è addirittura del Trecento: (17) staxent for de la juridicion del comun de Cher [Statuto della Compagnia di San Giorgio del popolo di

Chieri, 1321, in Gasca Queirazza et al. 2003: 60)] e al di fuori del Piemonte, il pavano di Ruzante (m. 1547; cit. dall’edizione a c. di Ludovico Zorzi, Tori-no, Einaudi, 1967) la attesta grosso modo per lo stesso gruppo di verbi:

(18) quando a’ staseva in Pavana [Piovana, I, 1, 79]

s’a’ ghe dasea l’acqua [Piovana, III, 1, 2] ch’ela andasea fuora con le oche e mi co i puorçi [Moscheta, II, 1, 4] la mercandaria desea [‘doveva’] esser leziera [Piovana, I, IV, 80]

Cfr. anche Rohlfs (1968: § 551). Per il tipo nell’italoromanzo del Novecento, cfr. la carta AIS 704 ‘an-dava spesso’, che mostra quattro nuclei almeno sincronicamente disgiunti della formazione: un’area piemontese occidentale intorno a Torino (punti 144, 146, 155, 156, 163, 172); i due punti della Liguria occidentale (190, 193); due punti di lombardo alpino tra il Canton Ticino e l’Ossola (31, 107), e cinque punti nel Veneto sud-occidentale (352, 362, 372, 381, 383), con un’estensione nell’alto bresciano (248) e nel ferrarese (427).

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Infine, la monosillabicità è alla base di un’altra estensione analogica mostrata in (16): le forme di participio passato in -[jt] modellate sull’unica forma etimologica [fajt] (< lat. factum). Questa innovazio-ne, tuttavia, non comporta una diversa partizione del paradigma: la cella del participio passato, infatti, deve comunque essere vista come una classe di partizione a sé, come in italiano, data la sopravvivenza in torinese di alcuni – non molti – participi passati irregolari con pieno uso verbale, come [mɔrt], [vist]. Anche questo fenomeno di per sé è di lunga data: dait e stait sono attestati dal Tre-Quattrocento (dayt negli statuti di Chieri (1321), in Gasca Queirazza et al. 2003: 58; stayt nella sentenza di Rivalta (1446), in Gasca Queirazza et al. 2003: 76) e andait almeno dal Seicento (andaita ne ’L cont Piolet II, 13, 650, ed. a cura di G. Davico Bonino e G. Rizzi, Torino, Einaudi, 1966); ma è stato in grado di attrarre nuove formazioni in tempi molto più vicini a noi, nonostante la fortissima tendenza regolarizzatrice dei participi passati dall’Ottocento ad oggi. Le forme [vnyjt]/[mnyjt] accanto a [vny]/[mny] e [pjajt] accanto a [pja] sono molto probabilmente recenti (della seconda ho trovato esempi nei romanzi popolari di fine Ottocento31) e non sono nemmeno sempre accolte dalle descrizioni grammaticali ([pjajt] è però segnala-to sia in Aly-Belfàdel 1933: 220 che in Villata 1997: 206). L’inserimento di [pjajt] nel pattern va chiara-mente messo in rapporto con la sua prosodia. Verbo in partenza regolarissimo, [pi'je] ‘pigliare’ è oggi (e probabilmente da molto tempo) sistematicamente pronunciato come un monosillabo nell’infinito [pje], e similmente con base asillabica nelle altre forme arizotoniche (ad es. CONG.IMPF.1SG ['pjɛjsa]), e questo ne fa un ottimo candidato per i processi in questione (ma è probabile che l’estensione della B4 a questo verbo, che darebbe *[pja'zia], *[pja'zɛnd], trovi un forte ostacolo nell’omonimia con [pja'zɛj] ‘piacere’). 4. Conclusioni: spazio tematico ed economia descrittiva L’intento delle pagine che precedono è prevalentemente descrittivo: non si vuole, intenzionalmente, prendere una posizione teorica esplicita e intransigente rispetto alla dicotomia nei trattamenti recenti della flessione verbale, che Loporcaro (2012) ha efficacemente sintetizzato nel confronto tra approcci maximize stem e maximize ending. Con Loporcaro (2012: 31), si ritiene infatti che sia opportuno affrontare il problema del bilanciamento di informazione paradigmatica tra temi e marche flessive in base a criteri di economia descrittiva, con scelte anche diverse da lingua a lingua, senza considerare a priori la proce-dura di maximize stem come un principio generale da privilegiare ad ogni costo. Tuttavia può essere utile, per confrontare in modo complessivo le caratteristiche delle allomor-fie paradigmatiche del verbo torinese con quelle dell’italiano, fare riferimento alla presentazione di que-ste ultime nel formato dato da Montermini & Boyé (2012: 71), che nella sostanza riprende identicamen-te Pirrelli (2000: 74), e provare ad inserire i dati discussi fin qui in un analogo quadro per il torinese. I due schemi sono riportati in (19) e (20) rispettivamente. Per l’italiano si è eliminato solo il passato re-moto con la sua base B5, in modo da equilibrare il confronto, lasciando però la numerazione delle basi come in Montermini & Boyé (2012). Le celle della base di default B1 sono contrassegnate dallo sfondo grigio. Le basi in corsivo e le alternative che si trovano in (20) sono discusse nel seguito.

31 Qualche esempio: Carlo B. Ferrero, Ij mòrt ’d fam [1891], Torino: Viglongo, s.d., pp. 17, 64, 85, 167, passim; Ciro Bolaro [= Carlo Borio], ’L ciavatin dle Tor [1903], Torino: Viglongo, s.d., p. 134.

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(19) italiano

PN TAM

1SG 2SG 3SG 1PL 2PL 3PL

IND.FUT B6 COND CONG.PRS B2 B4 B2 IND.PRS B2 B3 B4 B1 IND.IMPF B1 CONG.IMPF IMP B3 B4 B1 GER B1 PP B7 INF B8 (20) torinese

PN TAM

1SG 2SG 3SG 1PL 2PL 3PL

IND.FUT B6 COND CONG.PRS B2

IND.PRS B2/B3 B2/B3 B3 B1 B3

(B1 [ən'deve]) B3

IND.IMPF B4 CONG.IMPF B1 IMP B3 B1 B7 GER B4 PP B5 INF B7 Come è noto, (19) rappresenta la complessità massimale della struttura tematica possibile in italiano. Nessun singolo verbo italiano ha più di 6 basi distinte, ma 8 sono necessarie per catturare la variazione idiosincratica delle basi tematiche verbali nel complesso dei verbi irregolari. Non è detto però che le for-me flesse di un verbo regolare debbano essere costruite tutte per mezzo di una sola base: per definire regolare un verbo è sufficiente che, data una base di default, le altre basi siano derivabili da questa per mezzo di regole sistematiche e prevedibili (Montermini & Boyé 2012: 74). Se, ad esempio, per il condi-zionale e futuro italiano è indispensabile istituire una base tematica distinta B6 per tener conto di forme come trarrei, non prevedibili a partire dalla B1, questo non implica che la sequenza vender- in venderei non sia qualificabile anch’essa come una B6, ma solo che è ricavabile – a differenza di trarrei – in modo si-stematico dalla base di default B1 vende- (o da una B0 vend-). Per ciascun verbo la sua distribuzione tematica è esprimibile come una serie più o meno ampia di neutralizzazioni (“reindicizzazioni” nella terminologia di Pirrelli 2000: 66–67) delle distinzioni mas-simali rappresentate in (19), ed è questo il vantaggio descrittivo principale di questo formato per una lingua come l’italiano, in cui sono numerosissime le forme che possono assumere le basi allomorfiche, mentre la loro distribuzione è descrivibile in modo molto economico appunto tramite (19); per di più con ricadute cognitive rilevanti, al momento in cui si riconosca validità almeno tendenziale alla forte “ipotesi di autonomia paradigmatica” di Pirrelli (2000: 62). Inoltre, come nota Loporcaro (2012: 6), a partire da uno schema come (19) il ruolo delle desinenze nella determinazione delle allomorfie può es-sere ridotto all’irrilevanza, sia pure con qualche forzatura nella costruzione della basi: è quanto fanno

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Montermini & Boyé (2012), nella cui proposta le marche flessive sono tutte superstabili e le classi fles-sive nel senso tradizionale sono quindi annullate. È proprio da questi punti di vista che il torinese, le cui irregolarità possono in buona parte esse-re catturate dallo schema (20), mostra una molto minore redditività dell’operazione. Se guardiamo la complessità massimale ricavabile da (20), si può dire che non c’è grandissima differenza tra le due lin-gue, nonostante diversi punti di dettaglio32. Quello che il quadro non dice, però, è che diverse delle basi costruite per il torinese sono lì per dar conto di un numero molto esiguo di formazioni33. In altre paro-le, si pone un problema serio di economia descrittiva, se le sette basi servono in definitiva a catturare il comportamento di un numero molto limitato di forme non prevedibili regolarmente: è per questo che due di esse sono scritte in corsivo in (20). L’unica base che sfugge a queste considerazioni è la B3 (o meglio una B2,3 che comprende l’unione delle celle contrassegnate con B2 o con B3 nello schema massi-male (20)), necessaria già per la descrizione della terza coniugazione regolare, anche se persino in questo caso il numero dei verbi coinvolti si riduce notevolmente se si ritiene di trattare le alternanze 1. e 2. del-lo schema (12) in termini puramente fonologici. Un’eccezione specifica, non risolubile, che riguarda la B3 è la sua assenza dalla cella di IND.PRS.2PL del verbo [ən'de]. Come si è segnalato nel § 3.2, questo ver-bo è l’unico che mantiene a tutt’oggi in questa cella una forma accentata sulla desinenza, come in italia-no, e quindi coerentemente formata sulla base atona B1. Una forma distinta per B4, si è visto, è limitata ai cinque verbi citati in (16), e presenta l’ulteriore problema di essere associata a una flessione di seconda coniugazione anche per [de], [ste], e [ən'de]. La B6 è richiesta per gli stessi tre verbi più [fe], che sono gli unici ad avere un futu-ro/condizionale in -[ar]- ([sta'raj], [ənd(a)'ria] ecc.), come in italiano a parte ‘andare’. Per questi tem-pi/modi, le forme irregolari coinvolte consentono di mantenere quanto proposto in (1) per la coniuga-zione regolare, cioè considerare i formanti -[r]- e -['ri]- come marche TAM, morfemiche a pieno titolo, di futuro e condizionale: è sufficiente costruire con finale vocalica le B6 idiosincratiche viste sopra ([sta]-, [fa]- ecc.), e le marche TAM si applicano identicamente a questi verbi, mentre per quelli regolari vale direttamente la neutralizzazione B6 = B1, senza alcuna specifica regola di realizzazione. Una B6 idiosincratica ([parti]- e sim., diversa dalla B1 [part]-) potrebbe essere stipulata anche per i verbi del tipo [parti'raj] discussi nel § 2.3; ma data l’oscillazione di questi verbi tra seconda e terza co-niugazione in altre forme del paradigma, sembra più economico descriverli in termini di una base B1 so-vrabbondante ([part-] di seconda coniugazione e [parti-] di terza), perché in questo modo si può age-volmente catturare la variabilità nel numero di celle sovrabbondanti da parlante a parlante e/o da verbo a verbo. Nel futuro e condizionale si avrà quindi semplicemente la B1 di terza coniugazione. La stessa procedura si può applicare ai futuri [di'raj] ‘dirò’, [vni'raj]/[mni'raj] ‘verrò’ (verbi non discussi nei para-grafi precedenti) e ai rispettivi condizionali; anche questi verbi possono essere trattati in termini di fles-sione eterocl*ta, con una base B1 di seconda coniugazione ([diz]- e [vn]-/[mn]-) e una B1 di terza coniu-gazione ([di]- e [vni]-/[mni]-). Rispetto agli altri verbi eterocl*ti, ‘dire’ rimane peraltro anomalo nell’avere l’infinito unicamente flesso secondo la terza coniugazione: non c’è un infinito *['dize] accanto a [di]. La B2, che abbiamo visto ricorrere come distinta dalla B3 in una decina di verbi, presenta il pro-blema addizionale che non ricopre esattamente le stesse celle per tutti i verbi in cui compare (si veda la discussione ai §§ 3.4 e 3.5.1), sovrapponendosi alla B3 nelle celle di 1SG e 2SG dell’indicativo presente, come indicato con i bordi tratteggiati in (20). Pertanto, pur nella esiguità del numero di verbi con tale allomorfia, non li si riesce integrare pienamente in uno “spazio tematico” senza violare il principio dell’autonomia paradigmatica di Pirrelli (2000: 62). Delle due celle alternanti B2/B3, la più problematica per l’ipotesi di autonomia paradigmatica è certamente quella di 2SG, per le ragioni discusse nel § 3.5.1. Naturalmente, sarebbe sempre possibile una scappatoia tecnica, introducendo una nuova “microclasse 32 Elenchiamo brevemente: l’assenza di un equivalente della base B4 italiana e la presenza di una diversa base B4 con aumen-to in -[z]; la distribuzione della base B2 secondo lo schema a L (con deviazioni) anziché lo schema a U; l’imperativo di 2PL connesso alla base B7 dell’infinito; e naturalmente la diversa distribuzione della base B3 dovuta al rimodellamento della classe di partizione rizotonica di cui al § 3.2. 33 Per l’italiano, invece, questa riserva può essere fatta solo per la B4, che ha esistenza indipendente solo in dogliamo/ate, dob-biamo/ate, ma è richiesta anche da piacciamo/ate, paiamo/ate, vogliamo/ate e dal disusato sogliamo/ate, in quanto livellano su B2 anziché su B1 (cfr. Pirrelli & Battista 2000: 326-328; lo stesso per tacciamo/ate, giacciamo/ate, che però per molti parlanti sono sostituiti da taciamo/ate, giaciamo/ate, livellati su B1 come in tutti gli altri verbi dell’italiano contemporaneo).

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di partizione” di una singola cella per ciascuna delle due celle B2/B3. Per chiarezza, se associamo la cella IND.PRS.1SG a una nuova base B8, è chiaro che si salva l’autonomia paradigmatica, nel senso che per ‘potere’ si avrà la neutralizzazione B8 = B2 (IND.PRS.1SG [pœs] come CONG.PRS.1SG ['pœsa] ≠ IND.PRS.3PL ['pœlu], e per ‘dovere’ invece B8 = B3 (IND.PRS.1SG ['dœvu] come IND.PRS.3PL ['dœvu] ≠ CONG.PRS.1SG ['dœbja]. Ma è evidente il carattere ad hoc di una soluzione del genere, che forza il model-lo fino a negarne la ragion d’essere (le classi di partizione sono significative proprio in quanto gruppi di celle con proprietà di covarianza in sincronia e diacronia) e che diventa improponibile quando i lessemi coinvolti sono una decina in tutto. Analoghe considerazioni di economia in Pirrelli & Battista (2000: 358–360). Diversa è la situazione per il participio passato, dove una distinta base B5 è necessaria data la persistenza di participi irregolari come [mɔrt], [vist], [dit], anche se in numero molto più ridotto che in italiano (molti sono ormai quasi solo aggettivali, cfr. Villata 1997: 206–7), persino con alcune acquisi-zioni relativamente recenti come [pjajt], [vnyjt] visti nel § 3.5.2. Un problema che non si poneva in ita-liano è il confine tra tema e flessione. Infatti, in italiano la B7 del participio termina in consonante sia per i participi irregolari, sia per quelli in cui la B7 si deriva regolarmente, sia pure con regole di realizza-zione specifiche per ciascuna coniugazione (B7 = B0 +VT+t per la prima e la terza, ad es. am-a-t, guar-i-t; B7 = B0 + ut per la seconda, ad es. tem-ut-). La flessione -o/-a del participio può quindi applicarsi identi-camente a qualunque B7. In torinese è possibile, e secondo me opportuno, ottenere lo stesso risultato (ad es. ['fajt-a] ‘fat-ta’ come [le'zy-a] ‘letta’, ma comporta che le segmentazioni “ingenue” but-à, les-ù, fin-ì, date per i parti-cipi regolari in (1), vadano interpretate come regole di realizzazione – distinte per ciascuna coniugazione – della base tematica B5, e non flessioni. In altre parole, qui si preferisce optare per una procedura max-imize stem, al contrario che per il futuro/condizionale. Infine, per l’infinito una distinta base B7 risulta senz’altro motivata. Infatti, si ha il problema del diverso pattern accentuale, ereditato dal latino, per i verbi regolari della prima e della seconda coniuga-zione. Per i verbi con le alternanze descritte in (12), questo comporta due diverse neutralizzazioni: B7 = B1 per i verbi della prima coniugazione come [truv-'e] ‘trovare’, B7 = B2,3 per quelli della seconda come ['kœz-e] ‘cuocere’. Per inciso, lo stesso avveniva per l’italiano prima che le basi a dittongo mobile venis-sero livellate: ad esempio, per sonare si sarebbe dovuto porre B8 = B1 (con B3 = suon-), mentre per muovere B8 = B3 (con B1 = mov-). Tornando al torinese, se non si istituisse una base dedicata B7, occorrerebbe introdurre in questa cella un’alternanza B1/B3 violando il principio dell’autonomia paradigmatica in modo numericamente molto più sostanziale che per le celle alternanti B2/B3 viste sopra. Si noti che comunque la base B7 non individua una classe di partizione “monocellulare”, a diffe-renza della B8 italiana, data l’identità sistematica con la IMP.2PL, come risulta dallo schema (20). Per l’infinito ci sono pertanto buone ragioni per mantenere le terminazioni -['e], -[e] ed -['i] co-me marche flessive a pieno titolo, e non trasferirle sul tema come si è invece suggerito sopra di fare per il participio passato. Una conseguenza inevitabile è ammettere che le flessioni dell’infinito sono in realtà quattro, perché la terminazione -['ɛj], conservata in sette verbi, non può essere trattata in altro modo, tanto più che nei verbi che la possiedono la sua segmentazione lascia come residuo proprio la normale base di default B1. Ha senso quindi parlare, come si fa del resto tradizionalmente, di una quarta classe flessiva in torinese (o quanto meno di una seconda microclasse flessiva entro la seconda coniugazione, visto che le due contrastano in un’unica cella), sia pure allo stadio residuale, dato che ospita solo sette membri, di cui cinque presentano forti allomorfie paradigmatiche. [pja'zɛj] ‘piacere’ ne rappresenta, un po’ paradossalmente, l’unico membro “regolare”, con un’unica base tematica in tutto il paradigma. Il problema di marche flessive devianti non sembra peraltro sormontabile anche per il comples-so di marche associate al presente indicativo nei verbi irregolari asillabici, discussi nel § 3.5. La sequen-za, già evidenziata in (14) e (15), è la seguente: 1SG -[aj]34/-Ø, 2SG -[az], 3SG -[a], 2PL -['eve], 3PL -[aŋ]. In effetti, in un modello di tipo maximize stem il vincolo di superstabilità di tutte le marche flessive non

34 La marca -[aj], che compare solo in [aj] ‘ho’ e [saj] ‘so’, non è in alcun modo una marca flessiva in origine, bensì parte del tema verbale. Ma in un’analisi sincronica, poiché consente di isolare la stessa base delle altre marche del presente di questi verbi con cui è in rapporto paradigmatico, sembra lecito trattarla in questo modo, tanto più che è anche la marca di 1SG nel futuro di tutti i verbi, dove si ritrovano tutte le altre.

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permetterebbe in alcun modo, mi pare, di inquadrare i verbi asillabici in uno spazio tematico, e i loro equivalenti italiani costituiscono proprio il nucleo degli otto verbi che Montermini & Boyé (2012: 84 n. 3, in pieno accordo con Pirrelli & Battista 2000: 338) escludono dalla loro trattazione, anche se non in linea di principio. Tuttavia, almeno per il torinese, sono molte le sub-regolarità paradigmaticamente si-gnificative che coinvolgono questo gruppo di verbi, che mostrano anche una solidarietà nelle evoluzioni diacroniche da sempre considerata un fattore fortemente motivante la realtà cognitiva delle partizioni. Sembrerebbe controproducente tenerli fuori da qualunque descrizione orientata a valorizzare gli aspetti di morfologia autonoma delle sub-regolarità paradigmatiche. Nell’esercizio che qui si conclude, si è cer-cato quindi di minimizzare le esclusioni dal quadro (20), limitandole al solo lessema ['ese] ‘essere’. Riferimenti bibliografici Aly-Belfàdel, Arturo. 1933. Grammatica piemontese. Noale: Guin. Aronoff, Mark. 1994. Morphology by Itself. Cambridge (Mass.): The MIT Press. Azaretti, Emilio. 1982. L’evoluzione dei dialetti liguri esaminata attraverso la grammatica storica del ventimigliese. Sanremo:

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Nominal evaluative suffixes in Italian

Leonardo M. Savoia • M. Rita Manzini • Ludovico Franco • Benedetta Baldi

Abstract In this article we investigate the nature of the morphological exponents in Romance languages; specifically we concentrate on the evaluative derivational morphology of nouns in Italian, specifically the diminutive (Dim) -in-, the endearing (End) -ett-, -ell-, the augmentative (Aug) -on- and the pejoratives (Pej) -acci-, -ucci-. The morpho-syntactic behaviour of evaluatives raises general theoretical and descriptive questions concerning the morphological structure of the words. Our idea is that both the inflectional morphology and the derivational one in nouns are endowed with semantic content, and we provide evidence for their active involvement at the interpretive interface. The proposal we elaborate is that evaluatives express size properties or the grading of individuals with reference to physical or culturally-determined properties and can be understood as predicates that contribute to restricting the argumental variable of the root.

KEYWORDS: nominal morphology • inflection • evaluatives • evaluatives ordering

This article addresses some aspects of the derivational morphology of nouns in Italian. More precisely we will investigate evaluative suffixes and the relation between derivational and inflectional morphemes. These topics form part of a more general theoretical and descriptive question, i.e. the nature of morphological exponents in Romance languages. Our proposal is that both inflectional and derivational morphology in nouns are endowed with semantic content, and we provide evidence for their active involvement at the interpretive interface. Specifically, there is evidence for concluding that evaluatives, as well as other derivational suffixes, can be equated with classifiers, as suggested by the comparison between Romance and other language families (for instance Bantu). 1. N(P) Analysis In the syntactic literature there is considerable consensus on the idea that the inner core of a N(P) is represented by a non-categorized root. This is immediately dominated by functional layers which embed the root into a nominal classification system. The properties that are directly relevant for Romance (Picallo 2008), or generally Indo-European languages, are gender and countability (the latter often rendered as a Num category). The model of reference for much discussion is represented by the tree in (1), where N (the root) and the functional heads for Class (gender) and Number are built on top of the root. This tree is conceived as syntactic; nevertheless the internal morphological build-up of, say, Spanish libr-o-s (‘book-masc-pl’) reflects (in a mirror image) the syntactic organization in (1). (1) Nu

3 Nu c

[NU] 3

s c N [CLASS] libr-

o Picallo (2008: 59) In a number of studies more or less contemporary with Picallo (2008), the move is made to identify Marantz’s (1997) n, specifically in the Romance languages, with the inflectional class/gender vowel immediately following the stem.

Let us assume that classification into genders (or count/mass etc.) is the crucial property that

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nominalizes the root. Following Higginbotham (1985), the category-less root is interpreted as a predicate. The predicate represented by the root in turn has one open argument place (the R-role, Williams 1994), which is ultimately bound by a D/Q operator (Higginbotham 1985). It is natural to assume that gender (and number) specifications, and in general classifiers, apply to the argument x open at the predicate. In other words, the category Class operates as a predicate in turn, restricting the content of the argumental variable ultimately bound by D/Q. Similarly, Percus (2011) entertains the possibility of a conjunctive semantics for the (root, gender) pair. Conversely, we reject a variant on the schema in (1) which takes Class to identify with Marantz’s (1997) nominalizing category n (Kihm 2005, Ferrari Bridgers 2008, Kramer 2014, 2015).

As an initial illustration of the structures that we will be using throughout, we exemplify Italian gatt-o ‘he-cat’ and gatt-a ‘she-cat’ in (2). In (2) the property ‘cat’ is compatible with both a feminine and a masculine Class, depending on the sex denoted1. We tentatively assign the inflectional vowel of Italian to an Infl Position which embeds the root and the Class nodes. (2) Italian Infl

wp Class Infl

3 -o/-a

Class gatt [masc]/[fem] In instances where selection of a gender by the root is unpredictable from the semantics of the latter (unlike for ‘cat’), the best mechanism to insure the correct coupling of nominal roots with gender is via selection. In the framework that we are suggesting, this is to be understood as a restriction that the predicate imposes on its argument; the inflection -a or -o will combine with the corresponding gender depending on a selectional mechanism whereby -o and –a search for different roots or root-Class combinations. A different problem is the sexed interpretation of [gatt-o]/ [gatt-a]. A possible answer is to assume that the sex interpretation of [fem] and [masc] is derived at the Conceptual Intentional (C-I) interface level, that is, it is a pragmatic effect due to knowledge of the world. This can explain the variable and uncertain nature of this interpretation, not only in the case of [masc], but also of [fem], as for example tigr-e, formic-a, balen-a, etc.

Given (2), if we identify the vocalic inflection of Spanish with the Infl position, it is evident that the specialized -s segment for plurality in Spanish must occur on top of Infl itself, as schematized for libros/libras ‘books/pounds’ in (3).

1 In Italian the change from masculine to feminine can be realized by the suffix -ess- as in (i) (Thornton 2005). Hence, a derivational morpheme has the same effect as the inflection in gatt-o/ gatt-a in (2). (i) a. leon-e vs. leon-ess-a lion-M lion-FEM-F b. avvocat-o avvocat-ess-a lawyer-M lawyer-FEM-F The predicates ‘lion’ or ‘lawyer’ are compatible with both a feminine and a masculine Class, depending on the sex denoted. Besides, in (i), -ess- is followed by the inflectional ending -a exactly as a feminine root, such as gatt-a in (2). In (2) the inflectional vowel of Italian is assigned to an Infl position which embeds both the root and the Class node. If we extend this analysis to feminines in (i), we must admit that Gender Class can also be selected by a derivational suffix specialized for gender, as in (ii).

(ii) [ [ [ [leon- ] ess- Suff] [fem] Class] a Infl]

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(3) Spanish

[] wp Infl []

wp s

Class Infl 3 o/a

Class libr [fem]/[masc] Differently from languages like Spanish, endowed with independent lexicalization for the plural, namely -s, Italian plurals are obtained by a change of the inflection. Following Manzini & Savoia (2011a, 2011b,

2012) we formalize the content of the plural node as ; this says that the denotatum of the predicate can be partitioned into subsets. In these terms we may suppose that the plural of gatto/gatta in (2), namely gatt-i ‘cats’, gatt-e ‘she-cats’ has the structure in (4). (4) Italian Infl

wp Class Infl

3 -e/ -i

Class gatt [fem]/[masc]

[] As already noticed, in Indo-European languages the lexicalization of gender, number and possibly case (Manzini & Savoia 2011b), is intertwined with the notion of inflectional class. In (5), we provide an example from Italian; mamm-a ‘mum’ and madr-e ‘mother’ have not only the same structure, but also essentially the same meaning. The endings -a and -e do not depend on any of these factors, but on the fact that mamm- belongs to class I (in traditional grammar terms) and madr- to class III. This holds for the masculine as well (e.g. babb-o ‘dad’ and padr-e ‘father’). Vice versa inflectional class does not predict gender. Thus each of the vowels -a, -o and -e covers both masculine and feminine. (5) Infl

wp Class Infl

3 -a /-e

Class mamm- [fem] madr- [fem] We agree with Kayne (2010) that the most economical means to express inflectional classes is via selection of the root by the class vowel, more precisely by the inflectional class vowels. There are three inflectional class vowels in Italian, namely -a, -o-, -e and they partition the roots among them. Thus -e

selects for madr, among many other roots, while -a selects for mamm-, again among many other roots. Since we have rejected inflectional class diacritics, it is important to note that plurals cannot be predicted from singulars. Thus feminines inflected by -a can have an -e plural, as in (4), but also an -i plural (e.g. al-i ‘wings’) - vice versa -i plurals correspond to -e, -a, -o singulars. D’Achille & Thornton (2003) argue that taking into account singular and plurals, Italian should not be characterized in terms of the traditional [I]-[III] classes, but by VII different classes (or VI, considering that class VII is

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obsolete). Thus class diacritics could be reintroduced, but much enriched. Alternatively, one could take

the same approach to plurals as to singular and simply list which [] morpheme selects which root. Finally, in disentangling gender (and number) from inflectional class, the diagnostics that plays

the most important role is Agree - since agreement between the noun, its modifiers, and determiners is sensitive to gender and number (as well as case), but not to inflectional class. The matching (agreement) of genders between determiner la ‘the.fem’ and noun mano ‘hand.fem’ in (6) means that the inflections -a, -o can individuate the same argument, introduced by the root and restricted by Class specifications. (6) DP wp Infl Infl

3 wp

Class Infl Class Infl 3 a 3 -o

D/ Class Class l [fem] man- [fem]

In the minimalist framework (Chomsky 2000, 2001), agreement processes are standardly associated with the rule of Agree - which however is conceived so as to account for one-to-one agreement in the sentential domain. In what follows, we will keep the assumption that Agree also applies within DPs. However we will avoid attributing interpretable/uninterpretable, valued/unvalued status to any of the categories inside DP. We will simply assume that given two elements in a c-command configuration, the higher is the probe and the lower the goal. Everything else proceeds as in the standard definition of Agree, by Minimal Search and Match of the relevant features. We will assume that what impels Agree to apply is the need for creating equivalence classes of phi-feature bundles denoting a single referent (the equivalent of uninterpretable feature deletion). This disregard of the [interpretable], [valued] features is the only respect in which we depart from standard minimalist assumptions2. 1.1 Inflection and derivation as a unified compositional mechanism We now come to the relation between inflectional and derivational morphology. Essentially, we face two solutions, both well-known, namely the idea that derivational and inflectional morphology have a different status or, on the contrary, approaches that unify derivation and inflection in a single morphological component. The literature supporting the Split Morphology Hypothesis (Anderson 1982, Scalise 1986) is based on a number of formal and distributional criteria that could confirm a different status for inflection, associated with or incorporated into syntactic operations, and for derivation, internal to the lexicon. Borer (2005: 53) concludes that ‘Morpho-phonologically speaking, inflection is every bit as erratic as derivation, involving listed relations between stems and marking, accidental gaps, and stem changes which do not yield easily to a characterization in terms of compositional morphology’. This justifies her idea that inflection is more adequately treated by a Word and Paradigm model, assuming that inflection involves abstract categories like PAST and PLURAL. On the contrary derivation seems to be interpretable in terms of a compositional hierarchical process. However, as Stump (2001) notes, these criteria are too weak and uncertain to bear out this differentiation. In general, in Romance languages, inflectional morphemes can introduce properties more standardly introduced by derivational tools, for example category change, size properties. Conversely, derivational morphemes can introduce types of content generally associated with inflection, e.g. plural, mass specification, etc. In fact, models unifying derivation and inflection have been proposed by Williams (1981), Lieber (1980), but as models operating within morphology, without interaction with syntax. As we have already mentioned, our approach takes some fundamental tenets of

2 We also assume that DP internal agree (or concord) matches Agreement at the VP level (as assumed in much recent literature, cf. e.g. Baker 2008, also Franco et al. 2015).

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DM, assuming that morphological composition of the word is essentially a process operating on syntactic objects. In keeping with Berwick & Chomsky (2011), morphology can be understood as the linguistic process that converts ‘internal syntactic objects to the entities accessible to the sensorimotor system’. In this perspective, inflection and derivation do not seem to meaningfully differentiate. In the following sections we will investigate evaluative suffixes in Italian and the size interpretation associated with -o/-a class contrast in Italian. What unifies these case studies is that both inflection and derivation introduce comparable semantic specifications, specifically, gender, number, count/ mass distinction, evaluative meaning. Our approach, as we have seen, assumes that morphemes merge with the root, constructing a compositional content of the word. Besides, a corollary of our hypothesis is that all and only the content lexicalized by formal elements present in the word, i.e. root and other morphemes, is interpreted at CI level.

As regards inflectional morphology we find both possible orders, namely {x{x, y}}, with inflection exponents in initial position, as in Bantu Languages, or {{x, y}x}, with inflection in final position, as in Romance, generally in Indo-European languages, and, at least in a subset of nouns, in Semitic languages. A crucial aspect, apparently independent of order, is that inflection is in a position where it closes the predicative stem (including its Class and other restrictors) - a well-known typological generalization (Bybee 1985). Thus in the noun, evaluative morphemes are inserted between the root and the inflectional endings in both Indo-European and Bantu languages. Besides, quantificationally relevant inflection such as the plural, follows or precedes, according to the prevalent order, the gender /noun class morphology. 2. Aspects of evaluative morphology in Italian In Italian evaluative morphology includes a large set of suffixes. We will concentrate on the diminutives (Dim) -in-, -uzz-, the endearing (End) -ett-, -ell-, the augmentative (Aug) -on- and the pejoratives (Pej) -acci, -ucci-. The morphological and distributional properties of these elements have been investigated in the descriptive literature (Rainer 1990, Merlini Barbaresi 2004). Scalise (1988) points out some of the restrictions that characterize the occurrence of evaluatives, such as the possibility of recursive embedding (e.g. -ett-in- -End-Dim-), the external position with respect to the other suffixes, the internal position with respect to the inflection, some macro-semantic effects, etc.

Before going into the different questions posed by evaluative forms, the semantic and morpho-syntactic nature of these morphemes must be defined. Evaluatives express size properties or grade of individuals with reference to physical or culturally-determined properties, as in (7). (7) lett-in-o bed-DIM-INFL ‘small bed’ Evaluatives can be understood as predicates that contribute to restricting the argumental variable of the noun root, as proposed by Percus (2011) for gender (section 1). In other words, we extend the analysis of adjectives in Parsons (1979) to the evaluatives. For Parsons (1979: 157), adjectives in the attributive position are ‘operators on the predicate contributed by the noun … these operators can be further analysed in terms of conjunction with a predicate’, whereby ‘red box’ can be translated as ‘x is red and a box’. In this sense, we pursue the idea that evaluative morphology is essentially restrictive/ intersective, i.e. it corresponds to the intersective interpretation of adjectives defined in Partee 1995 (cf. Cinque

2014 for Italian adjectives), giving rise to the denotation λx[(letto)x & (piccolo)x]. In what follows, we will associate the evaluative morphemes with different Class nodes, as

illustrated in (8) for the diminutive -in-, exemplified in (7). In (8) Dim is to be construed as DimClass, and so on in the case of the other evaluative class nodes.

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(8) Infl wp

Classφ Infl wp -o

Dim Class wp [masc]

Dim

lett- [size] -in 2.1 Singulative properties Recent proposals in the generative framework aim to relate the nature and morphemic status of evaluatives to the discussion on the internal structure of the noun, also in a cross-linguistic perspective, as in Wiltschko (2006), Wiltschko & Steriopolo (2007), Ott (2011), de Belder et al. (2014), Cinque (2007, 2015). Wiltschko (2006) assumes that diminutive suffixes are ‘light nouns’, and specifically that they correspond to numeral classifiers.3 Wiltschko’s idea is that they are equivalent to German words like Stück ‘piece’, Blatt ‘sheet’, etc. which change mass nouns into count nouns and with which diminutives are in complementary distribution4. Consider the example 12 Stück Vieh ‘12 pieces of cattle’ (example 10 in Wiltschko 2006), as represented in (9). (9) n 3

n N Stück Vieh -chen

Ott (2011), based on Wiltschko (2006), proposes a more detailed structure whereby the dimunitives are analysed as ‘numeral classifiers’. (10) illustrates the analysis in Ott (2011: 16) for Wässer-ke-s ‘the-water-Dim-pl’ ‘a glass of water’ (Low Rhenish German dialect).

(10) AArtP

3 Art Unit P

! 3

die Unit NumP ! 3

-ke Num nP ! Wasser

-s Both authors converge in identifying the diminutive suffix with a lexicalization of a nominal head independent of the root, n in Wiltschko and Unit in Ott. We adopt this insight, assuming that the diminutive suffix -in- corresponds to something as ‘a small/ little individual’ to which the properties introduced by the root apply. As we just saw (Wiltschko 2006, Ott 2011 for German; see also Déchaine et al. 2014 on Bantu) evaluatives, precisely diminutives, are able to change mass nouns into count nouns.

3 Concerning this point, note that in Dutch diminutives are commonly used only as singulatives (e.g. water – watertje = water – a bottle of water; see De Belder et al. 2014). We thank an anonymous reviewer for highlighting this fact. 4 Examples concerning the complementary distribution of diminutives and light nouns are provided by Ott (2011: 15) as in German *vier Salat ‘four lettuce’ / vier Kopf Salat ‘four head lettuce’ / vier Salätchen ‘four lettuce.DIM.’).

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2.2 Singulative content of -in-. The singulative effect of diminutives is at work in Italian, as exemplified in (11), where diminutives, in (11b-b”), turn mass nouns or adjectives in (11a-a”) into count nouns. The data in (11) show that: (i) the mass-count alternation is triggered by the evaluative, actually generally by diminutives -in- and possibly -uzz-; (ii) diminutives can combine in suffix sequences like sonn-ell-in-o ‘nap’; (iii) the diminutive -in- suffix gives rise to masculine derived forms independently of the class gender of the root, as in (11a’-b’). It is noteworthy that the derived forms in (11a’,b’) are lexicalized, in the sense that the count interpretation is not immediately predictable from its mass counterpart. In (11c-c’) we exemplify some cases only apparently similar to the ones in (11a-a’,b-b’). In fact, the simple forms in (11c) admit both interpretations, as mass nouns but also as count nouns, as illustrated in (11c”). The only restriction in effect is that combining with diminutives implies the count reading alone. (11) a. zuccher-o ‘sugar’ a’. zuccher-in-o ‘sugar cube’

piomb-o ‘lead’ piomb-in-o ‘sinker’ sonn-o ‘sleep’ sonn-ell-in-o ‘nap’

b. crem-a ‘cream’ b’. crem-in-o ‘cream chocolate count’ cer-a ‘wax’ cer-in-o ‘wax match’

cioccolat-a ‘chocolate’ cioccolat-in-o ‘chocolate count’ frutt-a ‘fruit’ frutt-in-o ‘jam stick’ paglia ‘straw’ pagli-uzz-a ‘blade of straw’

c. legn-o ‘wood’ c’. legn-ett-o ‘stick of wood’ spag-o ‘twine’ spagh-ett-o ‘a single spaghetti strand’ gess-o ‘chalk’ gess-ett-o ‘piece of chalk’

bronz-o ‘bronze’ bronz-ett-o ‘statuette in bronze’ cord-a ‘cord’ cord-ic-ell-a ‘small cord’ gran-o ‘grain’ gran-ell-o ‘grain count’

c”. un legno / molto legno ‘a piece of wood’ / ‘much wood’ un grano (di sale) / molto grano ‘a grain of salt’ / ‘much wheat’ Evaluatives, including diminutives, can also freely combine with all mass nouns, giving rise to a predictable (compositional) ‘light type/ kind’ interpretation, as exemplified in (12a-a’). As to rossetto in (12b’), it is of note that the form rossetto itself allows two interpretations, mass and count, as we can expect from applying an evaluative to an adjectival predicate, per se not associated with an individual argument. (12) a. vin-o ‘wine’ a’. vin-ell-o ‘a light type of wine’ lan-a ‘wool’ lan-in-a ‘a light wool’ acqu-a ‘water’ acqu-er-ugi-ol-a ‘drizzle’

b. ross-o ‘red’ b’. ross-ett-o ‘lipstick mass/ count’ We first focus on the cases in (11), which show that the diminutive -in- is endowed with the interpretive specification of ‘individual’. More precisely, we can think that diminutives include a more general content introducing a ‘size’ specification that, under the right pragmatic conditions, may specify pieces of a continuum or of a mass, i.e. singletons. (13) illustrates an example in which -in- lexicalizes the properties of diminutives and selects [masc] in turn. (13) suggests that suffixes really behave as noun roots insofar as they can autonomously introduce gender and other interpretive properties. We may expect this in view of the fact that evaluative, gender and other suffixes can combine in recursive sequences.

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(13) Infl wp

Class Infl wp -o

Eval Class wp [masc]

Eval [aggr] [individual]

crem- -in The singulative, individuating content of -in- also emerges in deverbal evaluatives, as the examples in (14a) illustrate. Inserting a diminutive on the verbal root generates an individual interpretation, more precisely specifies properties associated with an individual referent. The verbal root in turn contributes (a part of) its semantic content; the resulting noun is never an event nominal, more like an instrument -er formation in English (e.g. strainer ‘instrument with which one strains’), or an agent, like in (14a’). (14b) suggests that all evaluatives, for instance -ell- sand -acci-, when merged with a verbal base, imply reference to an individual.

(14) a. col-in-o ‘colander, strainer’ a’. col-are ‘to strain’ passegg-in-o ‘push-chair’ passeggi-are ‘to walk’ accend-in-o ‘lighter’ accend-ere ‘to light’ cancel-in-o ‘(blackboard) eraser’ cancel-are ‘to delete/ to wipe out’

asciugh-in-o ‘cloth’ asciug-are ‘to dry’ a’. imbianch-in-o ‘painter’ imbianc-are ‘to paint’ strozz-in-o ‘usurer’ strozz-are ‘to strangle’ b. gir-ell-o ‘baby walker’ b’. gir-are ‘to turn, to go around’ strofin-acci-o ‘dish cloth’ strofin-are ‘to rub’ Italian shows alternations which exploit the contrast between evaluatives which maintain the gender of the root and evaluatives, like -in-/ -on-, which can select a specialized gender of the suffix, as in (15b, c). That the masculine gender is selected by the suffix is shown by the fact that only the change [fem] to [masc] is possible while the reverse change is not admitted, *marit-in-a ‘husband-Dim-f’; besides, only a sub-set of the evaluative suffixes admit this possibility. Endearing suffixes such as -ett-, -ell- do not have any gender instruction of their own. It is of note that other evaluatives admit this type of alternation as well; this is the case of Pejorative -a/ucci- in (15) and of Diminutive/ Endearing -uzz- in (15’). The same holds for Augmentatives like -on- in (15). The mechanism in (15’) concerns not only sexed nouns but also inanimates, where the masculine -in-o introduces a reduced size interpretation, as in (15’c) and the masculine -on-e introduces a big size interpretation, as in (15’c’). (15) a. donn-a [fem] b. donn-in-a [fem] c. donn-in-o [masc] ‘woman’ ‘small woman’ ‘little entity which is woman’ donn-on-a [fem] donn-on-e [masc] ‘big woman’ ‘big entity which is woman’ mogli-e [fem] b. mogli-ett-in-a [fem] mogli-ett-in-o [masc]5

‘wife’ ‘small pretty wife’ ‘small pretty entity which is wife' mogliett-on-e [masc]

‘big entity which is wife’

5 As suggested by an anonymous reviewer mogliettino is sometimes employed with reference to male hom*osexual partners or husbands with feminine characteristics. In any event, a Google search we performed also reports instances of mogliettino referring to female partners in a heterosexual couple.

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(15’) a. padell-a b. padell-in-a c. padell-in-o ‘frying-pan’ ‘small frying-pan’ ‘small entity which is frying-pan’ macchin-a macchin-in-a macchin-in-o

‘car’ ‘small car’ ‘small entity which is car’ vi-a vi-uzz-a vi-uzz-o6 ‘street’ ‘little street’ ‘little entity which is street’ a’. padell-a b’. padell-on-a c’. padell-on-e [masc]

‘frying-pan’ ‘big frying-pan’ ‘big entity which is frying-pan’ macchin-a macchin-on-a macchin-on-e

‘car’ ‘big car’ ‘big entity which is car’ Among evaluatives some do not select a gender, so that the only gender allowed is that inherited from the root. For instance, -ett- excludes a mechanism like the one seen in (15) for -in-. This evaluative lets the gender of the root emerge, as in (16), where the requirement [fem] by the -a inflection is satisfied by the gender associated with the root. In other words, forms like *donn-ett-o ‘woman-End-m’ are impossible. (16) Infl

wp Class Infl

3 -a

Eval Class 3 [fem]

Eval donn- -ett- At least two issues immediately arise. First, we may wonder why masculinization is possible while femininization is excluded, so that we have donn-a ‘woman-f’/ donn-in-o ‘woman-Dim-m’ / donn-on-e ‘woman-Aug-m’, macchin-a ‘car-f’/ macchin-in-o ‘car-Dim-m’/ macchin-on-e ‘car-Aug-m’, but not uom-o ‘man-m’ / *om-in-a ‘man-Dim-f’ / *om-on-a ‘man-Aug-fem’, *libr-o ‘book.m’ / libr-in-a ‘book-Dim-m’ /libr-on-a ‘book-Aug-m’. A second issue that emerges concerns the difference between suffixes like -in-/-on-, available for gender alternations, and other evaluative suffixes which do not admit it. In particular, the question is whether this differentiation has something to do with the order of suffix in complex sequences of evaluatives.

Let us begin by considering the first question. In Italian, or at least in some regional varieties, the alternation in nominal class (here, between feminine and masculine) encodes a size contrast in a lexical sub-class including artefacts or spatial denotata like cest-o/cest-a ‘basket-m/big basket-f’, buc-o/buc-a ‘hole-m/pothole-f’, foss-o/foss-a ‘ditch-m/pit-f’7; moreover -o denotes trees, e.g. mel-o ‘apple-tree-m’, as opposed to fruits, e.g. mel-a ‘apple-f’. We note that -a is associated with big size, extended objects or, in the case of fruit nouns,8 to the parts of a conceivable aggregate, while -o is associated with an individuated (small) object. We can draw some insights from these alternations. Semantic effects are associated with the gender properties of lexical items. If we are on the right track, we can think that [masc] implies [individual] while [fem] implies [aggregate] or [aggregate part] (Manzini & Savoia in press

6 Viuzzo, as suggested by an anonymous reviewer, seems to be consistently employed mostly in Tuscan varieties of Italian. 7 Other Romance examples include Portuguese ram-o m.sg ‘branch (count)’, ram-a f.sg ‘branch (mass)’. Mascaró (1985: 101) provides a set of Catalan and Spanish cases where gender distinguishes the size of artefacts, as in the pairs cistell/cistella ‘basket.m/big basket.f’ (Catalan), or saco/saca ‘sack.m/big sack.f (Spanish) (see also Crisma et al. 2011, Franco et al. 2015, a.o.). 8 As pointed out by an anonymous reviewer, there are Italian varieties in which nominal class shifts do not necessarily trigger the relevant contrast. For instance both arancio and arancia can be accepted by some speakers/varieties to denote ‘orange fruit’, hence without a deep contrast with arancio denoting ‘orange tree’. In the varieties spoken by the authors such a contrast is, however, quite sharp.

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characterize collective plurals in-a in terms of the notion [aggregate]). Let us then apply these conclusions to -in-o/ -in-a alternations. In (13) -o corresponds to a

property [individual] introduced by -in-. As for why this mechanism only triggers the change from a feminine root to a masculine complex noun, and not the opposite, we surmise that the change to feminine of masculine roots could not give an interpretable reading insofar as the –a inflection seems to deactivate or void the individuating interpretation. We can deduce this effect from the hypothesis that -a in Italian and in general in Romance is able to imply an aggregate interpretation (Manzini & Savoia submitted). This interpretation is present in particular in so-called collective plurals like dit-a ‘fingers’, oss-a ‘bones’ (on their semantic characterization, see Acquaviva 2008).

Returning to the data in (13), concerning deverbal evaluatives, we note that the individuating result is triggered not only by -in- but also by the other evaluative suffixes, as in (14b). Again, we must conclude that the merger of the evaluative with the nominal inflection is sufficient to impose an individual interpretation to a predicate. Quite interestingly, the inflection alone is also generally able to obtain a single event interpretation from verbal roots, as in the case of rincar-o from rincarare (Scalise 1988). Hence, the contribution of the evaluative mainly concerns the introduction of an individual meaning (whereas event nouns are known to behave essentially like mass nouns). In (17) the verbal root is of course devoid of gender, which on the contrary is introduced by the diminutive.

(17) Infl

wp Class Infl

wp -o

Eval Class 3 [masc]

Eval col- [individual] -in-

This characterization of the suffix -in- as endowed with the [individual] property is consistent with the further occurrences of -in- in nouns referring to town inhabitant, as in fiorent-in-o ‘of Florence, Florentine’, regg-in-o ‘of Reggio’ and in small sub-classes of individuals, like gall-in-a ‘hen’, reg-in-a ‘queen’. Also, the Aug -on- can combine with a verbal root giving rise to nouns as in (18a). The combination of Aug -on- crucially differs from the deverbal Nouns formed by -in- in that -on- does not specify individuals. In quell’uomo è un mangione ‘that man is a big eater’, -on- quantifies over the event, characterizing it as habitual/ repeated or intensifying it. Hence, mangione means ‘one that eats very much/ repeatedly/ habitually’ and not ‘a big man that eats’ (cf. Grandi 2003a,b, Lo Duca 2004), as suggested in (18b), where Aug introduces a quantificational interpretation on the event. Again we must conclude that it is the suffix that selects Gender Class, specifically masculine. (18) a. mangi-on-e ‘big eater’ cf. mangi-are ‘to eat’

chiacchier-on-e ‘chatterer’ chiacchier-are ‘to chat’ poltr-on-e ‘lazybones’ poltr-ire ‘lie around’ spi-on-e ‘spy’ spi-are ‘to spy on’

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b. Infl wp

Class Infl wp -e

Aug Class 3 [masc]

Aug mangi- [Q] -on- 3. Sequences of evaluative suffixes In a recent experimental study with an Italian agrammatic speaker, Franco et al. (2013) did not detect any impairment in either evaluative or gender morphemes. Both categories were spared9 despite the fact that other grammatical categories were deeply impaired in the patient. In fact, his spontaneous speech revealed reduced phrase length, many omissions of free standing functional morphemes, a high percentage of substitutions of tense and agreement morphology, mainly consisting of the substitution of the required tense/agreement inflection by an infinitival form (e.g. io studiare arte ‘I study(inf.) arts’), violations in number agreement/inflection.

These results point to the idea that evaluative morphology and gender may be similar grammatical strategies for the classification of nominal roots. Indeed, as shown in the present article, their respective semantics may overlap (cf. the gender alternation buc-o ‘small hole-m’ vs. buc-a ‘big hole-f’ and the augmentative alternation bors-a ‘bag’ vs. bors-on-e ‘bag-Aug-m, big bag’). Thus, a unified approach, assuming that these grammatical phenomena are part of a single grammatical domain (i.e. classification) seems empirically well-motivated.

Diachronically, nouns are the most common source for (at least) diminutives and augmentatives. As shown in Jurafsky (1996), the word for ‘child’ is the most common base for the grammaticalization of diminutives in the languages of the world. This process begins when these words are employed as a type of classificatory element to refer to young animate individuals and then are extended to inanimate entities, targeting small sizes with countable items and small quantities with uncountable items, and also being employed to turn mass items into count nouns (Heine & Kuteva 2002: 65-66, Di Garbo 2014). In Jurafsky’s view (1996: 553), the ‘connected to X’ meaning of diminutives (cf. e.g. Marocco > marocchino ‘Morocco>Moroccan’, imbiancare > imbianchino ‘paint (a wall)> painter (of walls)’) may represent a late stage of grammaticalization, when an item expressing size is reanalysed in order to convey a more abstract meaning, roughly according to the scale: small size > small type of > connected to. An opposite pattern (the inverse scale) may also be conceivable. So affixes expressing relational content or resemblance can be turned into diminutives. This is the case for Italian -in-o/a, derived from Latin -in-us/a, which originally meant roughly ‘connected to X’ and then developed as diminutives morphemes (Grandi 2001, Di Garbo 2014). In short, the range of facts explored in relation to the competence of Italian native speakers can be seen displayed in the historical development process as well. The preceding discussion leads us to reconsider the question of the order of evaluative suffixes and the relation between them and inflection endings. As noted in Cinque (2007, 2015), embedding of the evaluative suffixes presents constraints that prevent some combinations. Specifically, the endearing suffixes -ett- and -ell- can only precede diminutive -in-, inserting between the root and -in-.10 The

9 Data from different languages indicate that aphasic patients do not have problems in accessing the gender category or, at least have fewer problems with gender, when compared with other grammatical categories. Indeed, it has been reported that they are able to access grammatical gender in single-word naming, independently of whether they are able to actually process the target word or not. For instance, in a study using a picture-naming task in which German and Dutch agrammatic Broca’s aphasics had to generate nouns, it was demonstrated that they produced determiners correctly inflected for gender (Bastiaanse et al. 2003). 10 In several types of combinations we discuss in this article there is marginal uncertainty partially due to regional, but also

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sequences where pejorative -acci-/-ucci- precedes -in-/-ett- are excluded. In (19a), (20a) the admissible forms including one suffix are listed. In (19b) the grammatical combinations such as -ett-in- are presented, while (19c) shows the banned sequences such as *-in-ett-. A similar distribution characterizes clusters formed by -uzz-, (-ic)-ell- and -in-, which can close sequences but not occur in the intermediate position. The banned sequences where intermediate or final -in- is incompatible with augmentative -on- and pejorative -acc(i)-/-ucc(i)- are presented in (20b) and (20c).11 Sequences where the pejorative precedes the augmentative are acceptable, like om-acci-on-e.12 (19) a. libr-in-o/libr-ett-o b. libr-ett-in-o c. * libr-in-ett-o book-DIM-/END-INFL book-END-DIM-INFL book-DIM-END-INFL voc-in-a/voc-ett-a voc-ett-in-a * voc-in-ett-a voice- DIM-/END-INFL voice-END-DIM-INFL voice-DIM-END-INFL om-in-o/om-ett-o om-ett-in-o * om-in-ett-o man- DIM-/END-INFL man-END-DIM-INFL man-DIM-END-INFL donn-in-a/donn-ett-a donn-ett-in-a/-o * donn-in-ett-a/-o woman- DIM-/END-INFL woman-END-DIM-INFL woman-DIM-END-INFL ven-uzz-/-ett-a ven-uzz-in-a *ven-in-uzz-a vein-DIM-/END-INFL vein-END-DIM-INFL vein-DIM-END-INFL

pied-uzz-o/ pied-in-o pied-uzz-in-o *pied-in-uzz-o foot-DIM-/END-INFL foot-END-DIM-INFL foot-DIM-END-INFL

salt-er-ell-o/salt-in-o salt-er-ell-ino *salt-(er)-in-ell-o

jump-END-/DIM-INFL jump-END-DIM-INFL jump-DIM-END-INFL

stupid-ello/stupid-in-o stupid-ell-in-o *stupid-in-ell-o silly- END-/DIM-INFL silly- END-DIM-INFL silly- DIM-END-INFL pont-ic-ello/pont-ic-in-o pont-ic-ell-in-o *pont-ic-in-ell-o

bridge- END-/DIM-INFL bridge- END-DIM-INFL bridge- DIM-END-INFL (20) a. om-acci-o/ om-on-e b. om-acci-on-e c. *om-on-acci-o man-PEJ-/AUG-INFL man-PEJ-AUG-INFL man-aug-pej-infl *om-on-in-o *om-in-on-e man-AUG-DIM-INFL man-DIM-AUG-INFL om-ucci-o om-ett-ucci-o *om-ucc-ett-o man-PEJ-INFL man-END-PEJ-INFL man-PEJ-END-INFL

individual, differences. Specifically, our judgements on Italian reflect Tuscan or Florentine native competence. We follow Cinque (2007, 2015) in assuming that sequences allowing endearing morphemes to follow -in- are confined to lexicalized forms, as for instance in the case of tavolinetto ‘nice coffee table’, where tavolino ‘table, coffee table’ is stored as a root in the lexicon. This analysis is adopted for all sequences where the internal suffix is completely lexicalized as a part of the lexical base, like bambin-o/a ‘child’, tavolin-o ‘coffee table’, motorin-o ‘moped’, fornell-o ‘stove fire’, porton-e ‘street door’, lampadin-a ‘light bulb’ etc. In some instances a corresponding simple base is missing, as *bamb-, etc. More in general these forms have non-compositional semantic contents. Thus, fornello is not a ‘little oven’, lampadina is not a ‘little lamp’, motorino is not a ‘little motor’, and so on. We note that De Belder et alii (2014) propose two different positions for the evaluatives. The most internal suffix is inserted within the LexP projection, which can then combine with a higher inflectional slot for evaluatives. In present terms, the lower position of Belder et alii (2014) hosts what we treat as a lexicalized element. 11 As pointed out by an anonymous reviewer, -ucc- could not be a morpheme with only a Pejorative value. Indeed, it can also have a diminutive or an endearing value, as in beccuccio (‘nozzle’, diminutive), or calduccio (‘nice warmth’, endearing). 12 We note that our native judgements on the sequences om-in-on-e and om-in-acci-o are different from Cinque (2015: 72) in that we assign them an unacceptable/ ungrammatical status.

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*om-ucc-in-o man-PEJ-DIM-INFL *om-acc-in-o *om-in-acci/ucci-o man-PEJ-DIM-INFL man-DIM-PEJ-INFL *om-ucci-on-e *om-on-ucci-o man-PEJ-AUG-INFL man-AUG-PEJ-INFL donn-ucci-a donn-ett-ucci-a *donn-ucc-ett-a woman-PEJ-INFL woman-END-PEJ-INFL woman-PEJ-END-INFL *donn-ucc-in-a *donn-in-ucci-a woman-PEJ-DIM-INFL woman-DIM-PEJ-INFL libr-acci-o libr-ett-acci-o *libr-acc/ucc-ett-o book-PEJ-INFL book-END-PEJ-INFL book-PEJ-END-INFL Finally, it should be recalled that evaluative suffixes can be repeated, as in the examples in (21). These sequences are associated with strongly expressive and affective effects, where the repetition has therefore a pragmatic value; alternatively, it is possible that doubling acts as an intensifying device, with respect to the size referred to by the evaluative. (21) a. om-in-in-o b. gatt-in-in-o man-DIM-DIM-M cat-DIM-DIM-M ‘very little man’ ‘very small/cute cat’ Cinque (2015) accounts for the order and mutual exclusions between evaluative suffixes in the spirit of the cartographic model. A structural spine is proposed in which, the order root-endearing-diminutive-pejorative-augmentative is obtained in accordance with the Mirror Principle (Baker 1985). The lowest suffix is the endearing one -ett-13, immediately dominated by the diminutive -in-, that in turn is embedded under the pejorative -acc(i)- and the augmentative -on-, as in (22) (Cinque 2015: 71). Noun movement creates the correct sequences, -ett-in- End-Dim and -acci-on- Pej-Aug, and possibly, according to Cinque, (-ett)-in-on- (End)-Dim-Aug. (22) AugP 3 3

Aug° PejP -on- 3 3

Pej° DimP -acci- 3 3 Dim° EndP -in 3 3 End° -ett-

13 We note that the endearing interpretation of suffixes like -ett-, -ucc-, -uzz-, admits different nuances, that can include

evaluation of the type ‘modest’, ‘scarce’, etc.

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An insight implied by the cartographic distribution in (22) is that the order reflects the semantic content of suffixes. Thus, the endearing suffix, which occurs in a position adjacent to the root, can be understood as an aspectual suffix related to the way of presenting the root. In turn, -in- and -on- introduce a size evaluation associated, as we saw in the case of -in-, to a singulative content [individual]. We have seen that pejorative and other types of evaluatives behave like -ett-. In fact, if we take the data in (19)-(20) into account, we obtain the possible combinations in (23i-v). Actually, (23) is a little coarse to the extent that the pejorative suffixes we consider have different distributions. Indeed -acci-, but not -ucci-, can precede -on-, whereas -ucci-, but not -acci-, can follow -ett-. This suggests that the suffixal paradigm is more fine-grained. More precisely, we must conclude that subtle differences of meaning are implied that determine the possible combinations and types of order. (23) i. ii. iii. iv. v. END-DIM END-PEJ PEJ-AUG *PEJ/AUG-DIM *-DIM-PEJ/AUG -ett-in- -ett-ucci- -acci-on- *-ucci-/-on-in- *-in-u/acci-/-on- 3.1 The order of suffixes We have seen that evaluative suffixes – like inflectionally expressed number and gender – introduce predicates/ properties that restrict the argument of the root. We assume that order of morphemes reflects requirements regulating the composition of these elements with one another (and with the root) in accordance with their interpretive content. Hence, the fact that -in- closes the sequence of the evaluative suffixes can be understood as a consequence of its restrictive content. In particular, its singulative effect requires it to restrict the other evaluatives, especially the endearing -ett- lacking the quantificational property [individual]. This explains why -in- embeds all endearing suffixes as -ell-, -uzz-, and therefore follows them. Interestingly, -in- is semantically similar or in any event close to inflectional morphology, as suggested by the aphasiological data briefly discussed in section 3. Indeed, we saw that -in- has quantificational properties insofar as it is able to work as a singulative/ individual exponent; in this it recalls some quantificational properties generally specified by inflection, i.e. plural, aggregate, individual, etc. (cf. section 3). As regards forms such as gessetto, legnetto, in (11c’,c”), the singulative result is only apparently due to the suffix, given that already the corresponding simple roots allow an individual/ count reading. In other words, these forms can be analysed as normal evaluatives of count roots, as libretto ‘little book’. The incompatibility between -in- and -on- can refer mainly to the fact that -on- can operate as a singulative as well, that is, it is endowed with the [individual] property. This conclusion is supported by its ability to impose its gender to the complex form independently of the gender of the root, as in donn-on-e [masc], exactly like -in- does (see section 3). As a consequence, an oddity effect results from combining -in- and -on-, as we have highlighted. Other restrictions must be at work, given that, for example, -acci-on- PEJ-AUG is admitted, while -acc-in- PEJ-DIM is strange. A possibility is that the singulative character of -in- blocks the evaluative content of -acci-/-ucci-. On the other hand, we know that both endearing and pejorative suffixes encode size. This is true for the pejorative -acci- that implies a large size individual, thus excluding the combination *-acc-in- PEJ-DIM. Conversely, the pejorative -ucci- introduces a small size restriction, in some way reduplicating the one introduced by the diminutive -in. These properties could also explain why pejorative -acci-and -ucci- can combine with strictly endearing elements such as -ett- giving rise to acceptable forms like libr-ett-acci-o ‘book-END-PEJ-M’/ libr-ett-ucci-o ‘book-END-PEJ-M’ in (20b). The clearest conclusion we reach is that suffixes with a quantificational singulative import must apply to the entire set of properties associated with the root, fixing the individual defined by this set of properties. Therefore, they cannot be embedded by, hence restricted by, a non-quantificational suffix, i.e. endearing -ett-/ -ell-, pejorative -ucci- etc. The latter can be understood as aspectual classifiers expressing the way the speaker thinks of/ evaluates the nominal argument. An individuating suffix is therefore predicated of the entire complex root-evaluative classifier cluster, as in (24), modifying its

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interpretation. Applying an endearing/ evaluative suffix to an individuating suffix does not give rise to a well-formed interpretation. (24) Infl

wp Class Infl

wp -o

ClassEval Class 3 [individ] [masc]

ClassEval -in- donn- [endear] -ett-

Before concluding, let us note that several evaluative suffixes may occur with morphemic expansions (Exp) which differ from the morphemes we have so far considered in that they do not occur as independent evaluative morphemes (Rohlfs 1969 [1954], Merlini Barbaresi 2004), such as -er- or -(i)c- in the examples in (25). (25) a. salt-er-ell-o jump-EXP-END-M ‘little jump’

scem-er-ell-o fool-EXP-END-M ‘little fool’

b. port-ic-in-a door-EXP-DIM-F ‘little door’ fium-ic-in-o/-att-ol-o river-EXP-DIM-M/EXP-END-M ‘little river’ c. matton-c-in-o brick-EXP-DIM-M ‘little brick’ leon-c-in-o lion-EXP-DIM-M ‘little lion’ Some morphophonological restrictions seem to be at work that avoid alliterations and certain consonantal sequences (Rainer 1990). For example, the roots containing the final sequence …on require the insertion of -c- before -in-, as in melon-c-in-o ‘little mellon’, possibly avoiding the n alliteration; nevertheless -in- is normally adjoined to roots ending in a coronal nasal, as can-in-o ‘little dog’. 4. Some conclusions The minimalist approach we adopt is inspired by the idea that morphology, on a par with phonology, is a process that makes lexical and syntactic objects accessible to the sensorimotor system, in the sense of Berwick and Chomsky (2011: 27):

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Language is therefore based on a recursive generative procedure that takes elementary word-like elements from some store, call it the lexicon, and applies repeatedly to yield structured expressions, without bound. Externalization is not a simple task […] We would expect, then, that morphology and phonology - the linguistic processes that convert internal syntactic objects to the entities accessible to the sensorimotor system - might turn out to be quite intricate, varied, and subject to accidental historical events.

An adequate theory must be able to express the variation normally observable in languages. According to the perspective proposed by Berwick & Chomsky (2011), linguistic variation and change can be understood as by-products of the externalization process. In keeping with Chomsky (1995, 2005, 2013), we have developed analyses based on the idea that morpho-syntactic regularities rest on the content of the lexical elements, including inflectional and derivational morphemes.

The morphology of nouns in Italian involves a number of descriptive and theoretical questions, concerning both the internal structure of the noun and the status of the so-called derivational and inflectional morphemes. We have started from the proposal that inflectional morphology in nouns is endowed with semantic content, which provides evidence about its active involvement at the interpretive interface. There is evidence for concluding that evaluative as well as other derivational suffixes can be equated to classifiers, as suggested by recent work comparing Bantu and Romance. In other words, these elements are associated with semantic content, interacting with one another and with inflectional morphemes. Essentially, we have posited no crucial difference between derivational and inflectional morphology, except for their semantic specialization and some distributional restrictions. This is all the more so as we propose an analysis of the internal structure of the noun where inflection is not directly associated with gender (which we identify with a specification of the root) but introduces other types of classification.

The present case study on evaluative suffixes has allowed us to gain some insight into crucial problems concerning the distribution and reciprocal order of derivational suffixes and evaluatives in particular. The different status of the various types of evaluative suffixes, like -in-, -on-, -ett-, -acci-, -ucci-, etc. has been examined. Specifically we have distinguished -in-, as a singulative suffix, from the others. The particular nature of -in- is evidenced by many facts, for example by its occurrence in ‘inhabitant of’ formations and its capacity to change a mass noun into a count one. This latter property can account for certain constraints on the possible combinations between evaluatives, excluding, for instance, sequences like -in-ett- Dim-End but admitting sequences like -ett-in- End-Dim. We have proposed an explanation that avoids recourse to cartographic stipulation.

In conclusion a theory of nouns based on the hypothesis that all internal morphemes are endowed with semantic import leads to an interesting treatment of morphemes distribution, including order and mutual exclusion phenomena. This result is reached without resorting to an underlying abstract level, as in cartographic (see functional hierarchies) or DM approaches (see Late Insertion): on the contrary, the morpho-syntactic model we discuss assumes that words, here nouns, are the interpretable result of a compositional mechanism, essentially regulated by Chomsky's Merge procedure.

Acknowledgments and attributions To Maria Grossmann, whom one of us remembers as a dear friend during the youthful and hopeful years of Arcavacata, for her important contributions to Romance linguistics, morphology and sociolinguistic studies. The authors elaborated the article together; however, for Italian evaluation purposes, Benedetta Baldi takes responsibility for sections 2, 2.1 and 3.1, Ludovico Franco for section 3 (to the exclusion of section 3.1). We are unable to follow the Leipzig Glossing Rules for the present paper, because the list of standard abbreviations lacks distinctions fine-grained enough in the domain of evaluative morphology.

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A proposito delle restrizioni sulla conversione di participi in aggettivi

Christoph Schwarze

Abstract This paper is about the effects of category change on lexical meaning. Conversion from the past and passive par-ticiples of Italian unaccusative and transitive verbs to adjectives was chosen as a field of observation. In a first step, a sample of 300 participles is examined with respect to the question of whether they have adjectival coun-terparts or not. Six tests were used to ascertain the existence of such counterparts; they were derived from the grammar of adnominal adjective phrases, graduation, non-canonical copula constructions, predicative comple-ments of the direct object, negative prefixation, and suffixation of adjective stems. Unsurprisingly, the existence of adjectival counterparts was found to be pervasive, which motivates an analysis in terms of conversion. In a second step, rules and representations that include a semantic layer are proposed to account for that process. A puzzle arose in the course of this analysis: typical adjectives do not occur with agentive adjuncts; however, sever-al items that the tests clearly showed to be adjectives occurred with such adjuncts. It was concluded that the converts, though they do not denote events, may contain a residual meaning component, inherited from their verbal bases, which licenses the agentive adjunct. KEYWORDS: Morphology • lexical semantics • conversion • participles • adjectives • Italian 1. Introduzione La conversione di participi in aggettivi (V→A)1 è un fenomeno ormai ben studiato per l’italiano. La GGIC tratta in modo accuratissimo la sintassi dei participi, compresa quella che, per lo più, chiama “lettura aggettivale del participio passato”. Dato che non tutti i verbi ammettono questa conversione, un’attenzione particolare è stata rivolta alle restrizioni sull’input, espresse in termini di classi verbali, sia sintattiche (verbi transitivi, intransitivi e inaccusativi) che concettuali (verbi trasformativi, stativi, continuativi, ecc.), e anche ad una restrizione sull’output: l’aggettivo deve designare uno stato. Solo nel capitolo “La formazione delle parole” della GGIC l’autore, Sergio Scalise, parla di una regola di derivazione, esemplificandola con il verbo determinare e proponendone due varianti. Nella prima (1a) il participio “diventa” un aggettivo in un modo non specificato (Scalise evita il termine “conversione”), e nella seconda (1b) il cambio di categoria è attribuito a un suffisso zero:

(1) a. [determina(re)]V → [determinato]V → [determinato]A b. [determina(re)]V → [determinato] V → [[determinato] V + [Ø]] A (Scalise (1995: 508)

Alle analisi della GGIC, predominantemente sintattiche, si aggiunga la sintesi di Thornton (2004: 530-533), per la ricerca specificamente morfologica. In una prospettiva lessicalista, non derivazionale2 , la conversione Vparticipio→A si può carat-terizzare nel modo seguente: i participi che fanno da input immediato alla regola di conversione Vparticipio→A sono inaccusativi, in altre parole, non hanno un soggetto agentivo o causativo. Il gruppo di questi participi contiene da una parte verbi lessicalmente inaccusativi, di cui sono i participi passati, e dall’altra, verbi transitivi, di cui sono i participi passivi, che diventano inaccusativi tramite la

1 Il presente articolo fa seguito a Schwarze (2014), un’indagine sulla conversione participio → aggettivo in francese. 2 Questa posizione è un’alternativa all’approccio sintatticista, il quale, rigettando l’idea di una morfologia autonoma, tratta come fenomeni sintattici il passivo, le funzioni dei participi e gli aggettivi derivati da essi; si veda, per es., Cinque (1990). Non è possibile aprire qui una discussione approfondita della vasta letteratura in merito.

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passivizzazione.3 La regola di passivizzazione, da parte sua, è limitata in gran parte dalle restrizioni sull’input menzionate nella letteratura su V→A, sicché si tratta, più precisamente, non di restrizioni su V→A, bensì sulla passivizzazione. Si riduce così in modo considerevole la complessità della regola che definisce la conversione V→A. Riformulerò quindi l’idea espressa da (1) con (2) e (3). Si noti che, differentemente da (1b), non assumo l’intervento di un suffisso zero:

(2) [morto]Vparticipio_passato → [morto]A

(3) [determinato]Vparticipio_passato → [determinato]Vparticipio_passivo → [determinato]A4

Se lo stato della ricerca sulla conversione Vparticipio→A è abbastanza avanzato riguardo alle nostre conoscenze descrittive, meno attenzione è stata rivolta a come sono fondate a un livello più generale le restrizioni su questo processo. Il problema che tratteremo in questo contributo è se le categorie lessicali hanno implicazioni semantiche, atte a imporre restrizioni sui cambiamenti di categoria. Esamineremo questo problema limitandoci a un caso specifico, la conversione Vparticipio→A in italiano. 2. Le categorie lessicali hanno proprietà semantiche? Primariamente, le categorie lessicali (nome, verbo, ecc.) sono insiemi di lessemi, definiti rispetto alle loro proprietà distribuzionali. In un sistema grammaticale, esse sono il fondamento delle strutture di costituenza, e in un modello lessicalista, controllano l’inserzione lessicale, fornendo così il legame tra il lessico e la sintassi. Definite così, le categorie lessicali possono variare da una lingua all’altra, e gli eventuali test di appartenenza a una data categoria vanno stabiliti in modo specifico per ogni lingua esaminata. Ciò non esclude però che le categorie lessicali abbiano anche delle proprietà universali. Così, secondo Baker (2003: 21) solo i nomi possono legare anafore. E poi ci sono le ben note relazioni tra categorie lessicali e tipi ontologici della grammatica tradizionale: • I nomi denotano entità, definite da proprietà complesse e persistenti • I verbi denotano eventi • Gli aggettivi denotano proprietà semplici e transitorie Per plausibili che siano, queste relazioni non costituiscono restrizioni inviolabili. Ci sono nomi, per es. arrivo e partenza, peso o velocità, che non denotano entità, verbi, come avere e essere o sembrare e assomigliare, che non denotano eventi, e aggettivi come attuale e odierno o molto e poco che non denotano proprietà semplici e transitorie. Si tratta quindi piuttosto di associazioni prototipiche, che il lessico può ignorare. Perciò la conversione Vparticipio→A non può essere ristretta dalle classi ontologiche della grammatica tradizionale. Da ciò non segue però che l’associazione fra categorie lessicali e tipi ontologici sia da escludere in modo assoluto. Esamineremo un altro tipo di associazione, l’associazione tra categorie lessicali e i tipi di situazione ‘evento’ e ‘stato’. 3. Rappresentazioni lessicali di participi e aggettivi Diamo uno sguardo alle rappresentazioni lessicali dei lessemi coinvolte nella conversione V→A. Come abbiamo visto nella sezione 1, dobbiamo distinguere tra il participio passato dei verbi inaccusativi e il participio passivo dei verbi transitivi. Cominciamo con i primi. In (4) do la rappresentazione lessicale del participio passato del verbo inaccusativo morire, morto, e in (5) quella dell’aggettivo omonimo. Si noti che, nella notazione usata qui, le rappresentazioni lessicali consistono di quattro parti, cioè

3 Si ipotizza qui che sia il participio, non la frase, ad essere oggetto della passivizzazione; una frase è passiva solo per il fatto che lo è il suo predicato principale. 4 Analisi analoghe sono state proposte per il francese da Helland (2000, 2002) e Schwarze (2014).

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a. la rappresentazione ortografica della forma e la sua categoria lessicale b. i suoi tratti funzionali c. l’interfaccia tra b. e d. d. la rappresentazione semantica5 (4) morto, V [PART=PASSATO] [PRED=‘MORIRE (SOGG)’] SUBJ : x ∃e 𝝀x morire (e,x) theme (x) (5) morto, A [PRED=‘MORTO (SOGG)’] SUBJ : x 𝝀x morto (x) theme (x)

La differenza è chiara: all’aggettivo manca la variabile e, e i predicati, morire vs. morto, si assomigliano, ma non sono identici. In altre parole, ci sono due differenze, l’una riguardo ai tipi di situazione, l’altra riguardo ai predicati. Il participio denota un evento, l’aggettivo invece no. Passiamo ora al verbo transitivo aprire. In (6) diamo la rappresentazione del corrispondente participio passato, aperto, in (7) del participio passivo, e in (8) dell’aggettivo derivato da esso:

(6) aperto, V [PART=PASSATO] [PRED=‘APRIRE (SOGG) (OGG)’] SOGG : x, OGG : y ∃e 𝝀x 𝝀y aprire (e,x,y) agent (x) theme (y) (7) aperto, V [PART=PASSIVO] [PRED=‘APERTO (SOGG), *(OBL)’] SOGG : y, *OBL : x ∃e ∃x 𝝀y aprire (e,x,y) agent (x) theme (y)

Il participio passato (6) ha la stessa valenza e la stessa rappresentazione semantica del verbo finito, dell’infinito e del gerundio. Al participio passivo (7) invece, l’oggetto di (6) essendo divenuto soggetto, manca la funzione oggetto, cosa che lo rende inaccusativo. Sono presenti però in ambedue i participi il predicato aprire e la variabile e, la quale li caratterizza come riferentisi ad un evento. Inoltre, è contenuto in ambedue i participi anche l’argomento agente, x. Questo argomento, se viene realizzato, prende la funzione di obliquo; l’asterisco “*” ne segna il carattere facoltativo. 5 Scrivo in MAIUSCOLETTO l’informazione funzionale e in Courier quella semantica. La riga scritta in corsivo si riferisce all’interfaccia tra funzioni grammaticali e argomenti semantici.

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(8) aperto, A [PRED = ‘APERTO (SOGG)’] SOGG : y 𝝀y aperto(y) theme (y)

Come aggettivo, aperto (8) è del tutto analogo a morto in (5). Se le nostre analisi sono corrette, questi due aggettivi non denotano eventi e non hanno un argomento nel ruolo di agente. 4. Il tipo situazionale degli aggettivi Tornando al problema di eventuali proprietà semantiche delle categorie lessicali, ci si può chiedere se la non eventività è una proprietà generale dell’aggettivo. Questa ipotesi predice che gli aggettivi non ammettono la presenza di un complemento d’agente 6 , almeno quello canonico introdotto dalla preposizione da. Guardiamo alcuni aggettivi tipici:

(9) a. Il palazzo è alto b. *Il palazzo è alto dall’architetto (10) a. Il muro è celeste b. *Il muro è celeste dall’imbianchino (11) a. La ciotola è vuota b. *La ciotola è vuota dal gatto

Concettualmente, gli stati descritti dagli esempi (9a), (10a) e (11a), sono stati causati: il palazzo è alto perché l’architetto l’ha ideato così, il muro è celeste perché l’imbianchino ha messo del pigmento celeste nell’intonaco, e la ciotola può essere vuota perché il gatto ha mangiato il suo contenuto. Queste eventuali cause, cioè quello che ha fatto l’architetto, l’imbianchino o il gatto rispettivamente, sono degli eventi, ai quali rispettivamente l’architetto, l’imbianchino e il gatto hanno partecipato come agenti. Malgrado ciò, gli esempi (9b), (10b) e (11b) sono agrammaticali, cosa che sembra suggerire che la presenza di un complemento d’agente possa fare da spia per distinguere tra participi ed aggettivi. Sarà opportuno a questo punto precisare che uso il termine “agente” nel senso specifico di ‘persona che compie un’azione e ne è responsabile’, e non nel senso più ampio di ‘causa di uno stato’. In italiano, anche le indicazioni di causa si esprimono con da, mentre in altre lingue la differenza tra agente e causa viene espressa con preposizioni diverse, cf.:

(12) it. a. Questo quadro è stato dipinto da Mario b. Il suo naso era rosso dal freddo (13) ingl. a. This picture was painted by Mario b. His nose was red from the cold

Torniamo alla supposta incompatibilità tra predicati aggettivali e il complemento d’agente. Non possiamo escludere che si tratti di una conclusione prematura, dato che finora abbiamo considerato solo qualche aggettivo tipico; conviene esaminare anche forme derivate tramite la conversione Vparticipio→A in contesti in cui la loro aggettività è accertata. 5. Un’analisi di dati Per dare una base empirica al presente studio, ho fatto una ricerca su un campione di 300 participi passati di verbi transitivi. Non vi ho incluso i verbi inaccusativi, dato che l’agentività, possibilmente cruciale per l’analisi degli aggettivi deverbali, non conta, per definitionem, tra le loro proprietà. Costituito il campione, ho eseguito una serie di test per individuare, tra i participi del campione, quelli che possono 6 D’ora in poi, usando la terminologia usuale, parlerò di “complemento d’agente”.

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essere anche aggettivi. Thornton (2004: 526) dà un elenco di test “per valutare il grado di aggettivalità”, che riproduco qui sotto, tralasciando i test basati sull’accordo, che non è distintivo per il contrasto aggettivi vs. participi: • graduabilità al comparativo • graduabilità al superlativo • possibilità di fare da base per la derivazione in un avverbio in -mente • possibilità di occorrere in posizione prenominale Per la presente ricerca, ho modificato questo elenco nel modo seguente: in primo luogo, ho ridotto i due test di graduabilità a uno solo. Infatti, se un aggettivo è graduabile al comparativo, lo è anche al superlativo. Secondo, ho generalizzato il test della derivazione in -mente agli altri processi derivativi nei quali gli aggettivi fanno da base, comprese la suffissazione con -issimo e -ezza e la prefissazione con in- negativo. Infine ho ampliato il test relativo alla posizione. È vero che la posizione prenominale è una proprietà aggettivale non condivisa con i participi passivi, e che, di conseguenza, fornisce un test ideale per verificare se un dato participio ha un omonimo aggettivale. La posizione postnominale invece, presa in assoluto, non è distintiva per il contrasto participio vs. aggettivo. Bisogna tener conto però che molti aggettivi occorrono esclusivamente, o almeno tipicamente, in posizione postnominale. Quindi tale posizione si può considerare come un indizio di aggettività, se tuttavia la forma occorre senza gli aggiunti tipici dei verbi di evento, di cui il complemento di agente con da è il più ovvio. Perciò ho categorizzato come aggettivali occorrenze come quella di abbandonato in (14), ma come non aggettivale quella di presieduto in (15):

(14) Nei paesi della collina, ci sono parecchie case abbandonate (15) Ne deciderà un’assemblea presieduta dal sindaco

Inoltre, ci sono due altre posizioni del sintagma aggettivale che forniscono eccellenti test di aggettività. Una di esse è la funzione predicativa nelle frasi copulari. Siccome la copula canonica, essere, è omonima dell’ausiliare del passivo, dobbiamo avvalerci delle copule non canoniche, di cui la più importante è sembrare. Così abitato in (16) si può ritenere un aggettivo:

(16) La casa sembra abitata La seconda posizione aggettivale distintiva per il contrasto participio vs. aggettivo è la funzione di complemento predicativo dell’oggetto, come quella di abbassato in (17):

(17) Mario teneva gli occhi abbassati Riassumendo, i test che ho applicato alle forme del campione sono i seguenti:

i. Il test della posizione adnominale ii. Il test della graduabilità iii. Il test della copula non canonica iv. Il test della funzione complemento predicativo dell’oggetto v. Il test del prefisso negativo vi. Il test della suffissazione

Va aggiunto che, differentemente da quello che ho fatto per il francese in Schwarze (2014), non ho usato la coordinazione con un aggettivo tipico per farne un test di aggettività.7

7 Avevo motivi pratici per ridurre il volume dell’indagine, ma penso anche che un test di coordinazione non sia indispensabi-le per uno studio pilota come il presente.

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6. I singoli test e i loro risultati In quanto segue, darò dei dettagli sull’esecuzione dei test e ne presenterò i risultati. Per tutti i sei test, ho proceduto così: ho usato il programma FileMaker per creare una banca dati per i 300 participi del campione, e ho creato sette caselle, una per le forme e altre sei per ciascuno dei test. Per i singoli risultati, ho scelto invece di usare un sistema binario, cioè di inserire, nel caso positivo, almeno un esempio concreto e, nel caso negativo, di lasciare vuota la casella. Per la ricerca degli esempi ho fatto delle ricerche su Google Italia e ho esaminato i risultati ottenuti per eliminare quelli non corrispondenti all’intenzione del test. Si trattava di omonimi (per es., nel test della graduabilità, il più temporale invece del più di grado), o di occorrenze con contesti indesirati, come il complemento d’agente nel test della posizione aggettivale. Inoltre ho cercato di evitare gli esempi trovati in testi troppo antichi.8 Non ho ristretto invece il corpus al registro colto, così ho incluso esempi provenienti dalla pubblicità o dal giornalismo sportivo. Tra i risultati così elaborati manualmente, ho scelto uno o più esempi per inserirli nelle specifiche caselle della banca dati. Ho poi analizzato, mediante ricerche molteplici, la banca dati così costituita per vedere se le forme del campione avevano delle proprietà aggettivali, e ho interpretato una forma come un possibile aggettivo se dimostra almeno una delle proprietà aggettivali, cioè se almeno una delle caselle relative ai test conteneva del materiale. Infatti, la mia intenzione non era di analizzare il campione rispetto a una possibile scala di aggettività. Passo alla presentazione dei singoli test. 6.1 Il test della posizione adnominale

Per eseguire il test della posizione adnominale su un corpus grezzo come i testi accessibili tramite Google, dovevo disporre di sintagmi concreti, comprendenti una forma del participio da indagare e un nome. Ho quindi cercato, per ogni participio del campione, di trovare un esempio tipico o almeno plausibile. Così per abbandonato mi è venuto in mente il sintagma casa abbandonata. Se poi la ricerca ha prodotto esempi di quel sintagma 9 , ho scartato quelli seguiti da un complemento d’agente, e tra quelli che rimanevano, ne ho scelto almeno uno per inserirlo nella casella dell’adnominalità. Se invece non potevo immaginare un esempio o se la ricerca è rimasta senza risultato, ho lasciato la casella libera. Bisogna dire però che il metodo così descritto è di una efficienza limitata, perché un numero considerevole di aggettivi richiede un contesto più ampio per essere informativo. Così non mi era venuto in mente un nome che andasse bene con la forma agglomerato. Nella ricerca per il test della graduabilità ho invece trovato l’esempio (18), dove agglomerato è la testa di un sintagma aggettivale perfettamente informativo:

(18) La popolazione la più numerosa e la più agglomerata che presenta il globo Ho quindi potuto man mano completare i risultati del test dell’adnominalità nel corso delle ricerche successive. Rimane un altro punto da chiarire. Questa ricerca non è una ricerca di semantica lessicale. Nelle forme del campione si osserva talvolta che un participio aggettivato ha un senso concettuale che non coincide completamente con quello del verbo corrispondente. Così adottato in figlio adottato ha un senso esclusivamente giuridico, che è solamente una delle accezioni del verbo adottare. Può anche capitare che il senso di un aggettivo si fonda con quello del nome in maniera da formare un concetto unico, come succede nel caso di carro armato. Ignoriamo tali fatti in base a un’ipotesi generale sulla semantica lessicale, la cosiddetta semantica a due livelli; si veda, tra l’altro, Maienborn & Lang (2011). Essenzialmente, essa dice che le parole hanno una forma semantica e una struttura concettuale. La 8 Su Google Italia i testi un po’ antiquati sono spesso riconoscibili in base alla confusione, dovuta allo scanning, tra la “esse lun-ga” e la lettera f. 9 Nei casi ovvii, fortemente lessicalizzati, ho fatto a meno del controllo su Google. Così per es. ho immediatamente inserito nella banca dati mani legate lessicalizzato in avere le mani legate.

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forma semantica appartiene alla struttura grammaticale della lingua, è sincronicamente stabile e spesso sottospecificata. La struttura concettuale non è di natura grammaticale, varia sincronicamente e riempie i vuoti lasciati dalla sottospecificazione. Assumendo che la morfologia lessicale partecipi a questa organizzazione del significato lessicale, riteniamo legittimo limitare la nostra ricerca alla forma semantica e prescindere dalla variazione concettuale. Escludiamo però dalla casella dei sintagmi nome+aggettivo i casi in cui non c’è alcun legame concettuale tra il verbo e l’aggettivo. Nel nostro campione c’è uno solo di questi casi, cioè l’aggettivo privato come in proprietà privata, il quale, del resto, non è il participio dell’italiano privare, bensì la continuazione del latino privatus. Conviene anche menzionare qui la concorrenza degli aggettivi derivati da participi con gli aggettivi costituti dalla radice di un verbo della prima coniugazione con il suffisso flessivo -o, del tipo adorno, logoro, privo (vedi Thornton 2004: 532), i quali non sono participi definiti dalla grammatica dell’italiano moderno. La loro esistenza spiega dunque l’assenza di esempi di posizione adnominale di alcune forme. Il risultato quantitativo del test è che 240 forme participiali su un totale di 300, cioè l’80%, passano il test dell’adnominalità. Questo risultato solleva una questione: i risultati negativi hanno ragioni sistematiche, o sono condizionati da fatti d’uso, come la frequenza? Rivelano restrizioni sull’input o l’output della regola di conversione V→A? Ma prima di entrare nella discussione, vediamo gli altri test. 6.2 Il test della graduabilità

Il test della graduabilità è stato semplice rispetto ai sintagmi da sottoporre alla ricerca con Google: bastava una forma del participio preceduta dalla forma più. È stato più complesso invece l’utilizzo dei risultati trovati. È stato necessario eliminare, infatti, gli esempi dove più non fa parte del sintagma aggettivale, come accade nelle locuzioni avverbiali di più, non più e per lo più.

Mi ha colpito un tipo di esempi, molto frequente, in cui più si trova modificato da sempre, come per es. in (19), dove sempre più logorato sembra implicare lo svolgersi di un processo, il che sarebbe in conflitto con la supposta semantica non eventiva dell’aggettivo:

(19) Hollande è un presidente sempre più logorato Ma quel sempre più occorre anche con gli aggettivi tipici, vedi per es. aria sempre più umida, esami sempre più difficili. Pare che sempre, in connessione con più (e anche meno), introduca un parametro temporale e seriale nella gradazione: il grado di intensità denotato dal sintagma aggettivale non viene calcolato in riferimento a un altro individuo, ma a un altro intervallo temporale; da qui l’impressione di eventività. Del resto ci sono esempi dove la presenza di una copula non canonica (20) o la funzione di complemento predicativo dell’oggetto (21) evidenzia il carattere aggettivale della forma in questione:

(20) Il dibattito diventa sempre più acceso (21) Sentendosi sempre più marginalizzato

Il risultato del test è stato che 157 su 300 participi, cioè il 52,3%, ammettono la gradazione con più. Il tasso più basso in paragone con il test dell’adnominalità si spiega per il fatto che il significato concettuale del verbo di base spesso non contiene il parametro dell’intensità, condizione della graduabilità dell’aggettivo derivato. Esempi contenuti nel campione sono acchiudere, addebitare, adottare. Bisogna menzionare però che in alcuni casi il più di grado subisce uno slittamento dalla qualità di uno stato alla frequenza della sua realizzazione: la gradazione non si riferisce al concetto connesso con il verbo, bensì al numero di occorrenze del tipo di stato in questione; gli esempi (22) e (23) mostrano un tale slittamento concettuale:

(22) Il film più noleggiato del mese di Aprile (23) Il giocatore più ammonito della Serie A

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Ovviamente, più va interpretato qui nel senso di più volte. L’adeguatezza di tale parafrasi sembra rivelare una sfumatura eventiva e potrebbe sollevare un dubbio sul test della graduabilità. Nel quadro della semantica a due livelli però una variazione simile appartiene alla struttura concettuale, non a quella semantica in quanto struttura grammaticale. Dato che i participi interessati da questo slittamento concettuale sono pochissimi nel campione, li ho trattati come gli altri. 6.3 Il test della copula non canonica

I verbi classificati come verbi copulativi dalla grammatica tradizionale sono quelli che reggono un complemento del soggetto. Chiamo “copula canonica” il verbo essere, il più importante del gruppo. Come abbiamo già detto, essere non è idoneo per un test di aggettività a causa della sua omonimia con l’ausiliare del passivo. Le copule10 non canoniche sono sembrare, parere, diventare, divenire, restare, rimanere, risultare e finire. Per un test di aggettività, non tutte sono adatte nella stessa misura. Sembrare è una copula solo in una delle sue varie valenze, lo è, per es., in (24), ma non in (25): (24) Quel cane sembra cieco (25) Quel cane sembra aver sete Questa variazione di valenza può sollevare dubbi da parte di chi assume che ci sono ellissi in sintassi, per cui (24) avrebbe la stessa struttura di (26): (26) Quel cane sembra essere cieco Ne ho tratto la conseguenza di tener conto degli esempi con sembrare solo se trovavo anche un’altra copula non canonica con la forma participiale indagata. Da aggiungere che, come negli altri test, non ho inserito nella casella “copula non canonica” esempi dove il participio era seguito da un complemento d’agente con da. Come risultato, ho trovato che 64 su 300, cioè il 21,3%, dei participi passano il test della copula non canonica. Questa proporzione modesta risulta probabilmente appunto dal carattere non canonico delle copule usate nel test. 6.4 Il test della funzione complemento predicativo dell’oggetto

I verbi che reggono un complemento predicativo dell’oggetto sono una sottoclasse dei verbi transitivi; quelli che ci interessano qui reggono un oggetto e un complemento di questo oggetto, realizzato come sintagma aggettivale, collocato prima o dopo il sintagma nominale oggetto, vedi (27):

(27) a. Il ragazzo tiene abbassati gli occhi b. Il ragazzo tiene gli occhi abbassati

Oltre a tenere, il gruppo comprende i verbi avere, bere, fare, immaginare, mangiare, mantenere, preferire, rendere, ricordare, ritrovare, sentire, trovare e volere. Si noti che l’oggetto può anche essere un pronome cl*tico, come in (28) e (29):

(28) Cesare ordinò ai soldati di cingere l’accampamento con una fossa tanto profonda quanto larga, per renderlo più munito e sicuro (29) Mi sento più liberato

10 Nella tradizione dell’analisi grammaticale, le copule sono verbi che si costruiscono con un complemento del soggetto; per una breve discussione si veda La Fauci (2009: 127-129). Contrariamente a La Fauci, non direi che la copula “si aggiunge” a tale complemento, ma che lo regge. Seguo in ciò il trattamento di questi complementi nella Grammatica Lessicale Funziona-le (LFG), vedi, tra altri, Schwarze & de Alencar (2016: 42, 61s, 150).

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Per la ricerca su Google, bisognava tener conto della relativa libertà di ordinamento lineare. Se l’oggetto è realizzato come sintagma nominale e la forma participiale lo segue, come in (27b), un’analisi sintattica intuitiva è inevitabile; sono sintatticamente univoci solo i complementi dell’oggetto in posizione prenominale, come in (27a). Se il complemento predicativo dell’oggetto è realizzato come pronome cl*tico accusativo, come in (28) e (29), sorge un’altra ambiguità. Il cl*tico riflessivo ha una funzione duplice: da una parte può realizzare una funzione grammaticale, oggetto diretto (30) o indiretto (31), dall’altra può essere un semplice operatore valenziale, senza semantica pronominale. Così in (32) la forma mi non è l’oggetto del predicato ‘alzare’, bensì un indicatore della diatesi media:

(30) Mi sono guardato nello specchio (31) Mi sono tolto la giacca (32) Mi sono alzato presto

Di fronte a questa situazione, mi è parso ragionevole fare ricorso all’intuizione; rinnunciarci avrebbe ristretto il materiale del test a due tipi di contesto, quello con il complemento predicativo dell’oggetto precedente l’oggetto, e quello con i cl*tici univocamente pronominali lo, la, li e le, escludendo mi, ti e si, ambigui tra pronome e puro operatore valenziale. Il risultato ottenuto è questo: 25 sulle 300 forme contenute nel campione, cioè l’8,3%, passano il test. 6.5 Il test del prefisso negativo

Prima di presentare i risultati dei due test morfologici, un’osservazione sul metodo. Questi test equivalgono a verificare se esistono: • aggettivi prefissati con il in-/im-/il-/ir- negativo o con dis- • avverbi derivati in -mente • nomi derivati in -ezz(a)11 • aggettivi derivati in -issim(o) Per rispondere a tali domande non c’è bisogno di fare una ricerca su corpus; mi potevo limitare a controllare le mie intuizioni mediante un dizionario, quindi ne dovevo scegliere uno. Siccome la tradizione lessicografica italiana tende a concepire un dizionario come un inventario delle voci attestate, non come un documento che rappresenta l’uso attuale, mi serviva un dizionario di un altro tipo, uno che appunto volesse rappresentare l’uso vivo. E, naturalmente, mi avrebbe fatto comodo un dizionario disponibile in rete. Così ho scelto il De Mauro online. Chiudo la parentesi e passo al test del prefisso negativo. Ho trovato che 22 sulle 300 forme del campione, cioè il 7,3%, ammettono un prefisso negativo. Una delle ragioni di questo tasso assai basso consiste nel fatto che, come dis-, in- non appartiene al fondo romanzo del lessico italiano. Infatti, il prefisso in- del latino classico era estinto nel protoromanzo, ed è poi rientrato nella lingua come costituente di prestiti latini; poi ha riacquistato lo status di prefisso e ha iniziato un processo di progressiva estensione nel lessico, senza però raggiungere una completa disponibilità grammaticale; vedi Schwarze (2007: 233-242) e Staaf (1928). È per lo stesso motivo che la negazione morfologica piò essere bloccata in maniera idiosincratica anche nell’ambito degli aggettivi non derivati da participi. Lo in- italiano si distingue così dal prefisso un- dell’inglese e del tedesco, cfr. Tabella 1:

11 I suffissi sinonimi -ità e -età non possono occorrere con gli aggettivi derivati dalle forme participiali a causa delle loro re-strizioni fonologiche. Si aggiungono liberamente solo a basi terminanti in /io/, /uo/ e /ue/, e sono nettamente esclusi con “gli aggettivi maggiori di due sillabe […] che terminano in -to” (Rainer 2004: 299), cosa che esclude tutti gli aggettivi derivati da participi formati regolarmente tramite l’estensione tematica -t-.

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TABELLA1:Bloccoidiosincraticodelprefissoin-italiano

inglese tedesco italiano unclear unklar *inchiaro unfree unfrei *illibero unfriendly unfreundlich *inamichevole unnecessary unnötig *innecessario

Malgrado questa limitatezza, il prefisso negativo in- è un’importante spia per il riconoscimento di forme che sono univocamente degli aggettivi. Passo ai derivati suffissati. 6.6 Il test della suffissazione

Tra le forme del campione, 25 su 300, cioè l’8,3%, fanno da base a avverbi in -mente. Presumibilmente, questo tasso relativamente basso è condizionato dalle restrizioni pragmatiche connesse con la semantica lessicale dei verbi di base. In effetti, gli avverbi di maniera in genere devono essere adatti a specificare, in modo informativo, gli eventi o stati denotati dai verbi. Così, supponendo che ci sia una regola che generi anche avverbi molto strani come incintamente, incapacemente, ligneamente, essi non sono accettabili perché non sono adatti ad essere usati in modo informativo, e lo stesso vale anche per i derivati V→A, come un ipotetico abbandonatamente. Un’altra limitatezza risiede senza dubbio nella concorrenza degli avverbi di maniera con sintagmi preposizionali in funzione di aggiunto, specialmente quelli del tipo “in maniera + aggettivo”, “in modo + aggettivo”, spesso preferiti anche per motivi prosodici. Per la derivazione dei nomi di qualità in -ezza la situazione è simile. Tra le 300 forme del campione, solo 4, cioè l’1.3%, fanno da base a -ezza, almeno secondo il De Mauro online.12 Le cause del numero estremamente basso dei derivati Vparticipio→A sono simili a quelle menzionate per -mente. Intuitivamente, un nome di qualità trasforma una proprietà non autonoma in una entità autonoma, il che richiede che la proprietà in questione abbia una certa salienza concettuale o contestuale. E come per gli avverbi in -mente, c’è una concorrenza potente, i sintagmi nominali del tipo “carattere + aggettivo”, “natura + aggettivo” e “aspetto + aggettivo”. Così la non avvenuta derivazione con -ezza non può essere interpretata come indizio di una aggettività ridotta. Per quanto concerne gli aggettivi derivati con il suffisso -issim(o), il De Mauro online non ne contiene nessuno; non ci si trovano neppure parole comunissime come bellissimo, grandissimo, stranissimo.13 Di conseguenza ho deciso di controllare le mie intuizioni su Google Italia. L’analisi eseguita sulla banca dati ha come risultato che 82 sulle 300 forme del campione, cioè il 27,3%, ammettono il suffisso -issimo. Tra i derivati suffissali è il tasso più importante, fatto che si spiega con la semantica poco selettiva del suffisso: similmente alla graduabilità sintattica con più, la sola restrizione sull’input è che l’evento denotato deve avere un parametro di intensità (cfr. l’amata madre – l’amatissima madre) o una possibile frequenza di occorrenze (cfr. un libro letto – un libro lettissimo).

12 Avendo notato che il De Mauro non contiene la voce marcatezza, ho verificato sulla rete, e infatti, ne ho trovato 6390 oc-correnze. Ma di altri derivati in -ezza mancanti nel De Mauro e trovati su Google, come per es. mitigatezza, neglettezza, le occor-renze sono pochissime, e si trovano in testi più o meno antiquati. Così i dati raccolti dal De Mauro non sono seriamente inva-lidati. 13 Gli autori del De Mauro hanno forse considerato -issimo un suffisso flessivo. Tra i morfologi comunque c’è un consenso, ben fondato secondo me, sulla natura dell’elativo italiano: contrariamente a altre lingue come il latino o il tedesco, l’italiano esprime l’elativo tramite un suffisso derivazionale; vedi anche Merlini Barbaresi (2004). Del resto, anche se -issimo fosse un suffisso flessivo, sarebbe un suffisso aggettivale.

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6.7 Riassunto dei risultati quantitativi Riassumo i risultati quantitativi ottenuti dall’analisi della banca dati. Prima do un riassunto dei risultati concernenti i test di morfologia lessicale. Ho contato le forme che passano il test della prefissazione negativa, della suffissazione non flessiva, poi ho individuato quelle che hanno passato ambedue i test morfologici (prefissazione e suffissazione) e quelle che ne hanno passato almeno uno (prefissazione o suffissazione). I conteggi e i calcoli sono stati eseguiti sulla banca dati con le funzioni rilevanti del programma FileMaker. I risultati sono stati arrotondati. La Tabella 2 li presenta.

TABELLA2:IrisultatideitestmorfologiciForme che ammettono: numero assoluto percentuale la prefissazione negativa 23 7,7%

la suffissazione 89 29,7 % la prefissazione e la suffissazione 17 5,7% la prefissazione o la suffissazione 90 30%

Passo ai test sintattici. Per ciascuno di questi test, ho contato le forme che lo passano; poi ho individuato le forme che hanno passato tutti i test sintattici e quelle che ne hanno passato almeno uno. I conteggi e i calcoli sono stati eseguiti come già detto sopra. Ecco i risultati, in Tabella 3:

TABELLA3:IrisultatideitestsintatticiI test numero assoluto percentuale posizione adnominale 240 80% graduabilità con più 157 52,3% copula non canonica 64 21,3% complemento predicativo dell’oggetto 25 8,3% superano tutti i test sintattici 7 2,3% superano almeno uno dei test 250 83,3%

Infine ho accertato, per ogni forma, quanti sono i test superati, ho creato una nuova casella “Test superati” e ci ho inserito il numero indicato dalla banca dati. Così è possibile vedere, per ogni insieme di test (sei test, cinque test ecc.), quante forme lo superano. La Tabella 4 dà i risultati:

TABELLA4:NumerodelleformechehannosuperatoisingoliinsiemiditestInsiemi di test numero delle forme percentuale arrotondata percentuale non arrotondata 6 test 0 0 0 5 test 5 1,7 1,667 4 test 38 12,7 12,667 3 test 70 23,3 23,333 2 test 71 23,7 23,666 1 test 68 22,7 22,666 0 test 48 16,0 16,000 300 99.999

Riassunto >0 test 252 84% >2 test 113 37,7%

Dalla Tabella 4 risulta che l’84% delle forme esaminate possono presentare proprietà aggettivali e che il 37,7% delle forme ne presentano più di due. L’ipotesi di una conversione V → A si trova dunque chiaramente confermata. Non discuto qui in dettaglio i motivi per i quali un considerevole 5,3% delle forme sembrano essere inadatte per la conversione; in Schwarze (2014) ho proposto che la regola di conversione può

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definire aggettivi che non sono accettabili o perché la forma aggettivale è pragmaticamente inadatta, o perché è lessicalmente bloccata dal fatto che nel lessico mentale già esiste un altro aggettivo sinonimo. Non posso discutere neanche in maniera generale l’interessantissimo problema della posizione degli aggettivi derivati tramite la conversione Vparticipio→A nell’ambito della variegata categoria dell’aggettivo. Ne tratterò invece un solo aspetto, quello di un eventuale residuo eventivo nel significato concettuale dei derivati V → A. 7. Una sfida: aggettivi con un complemento d’agente Ho già menzionato che, nella ricerca sull’adnominalità, erano apparse parecchie occorrenze in cui la forma in questione era seguita da un complemento d’agente con da e che le avevo escluse dalla banca dati. Infatti, l’ipotesi iniziale, secondo la quale la categoria “aggettivo” non può denotare eventi, sembra implicare che gli aggettivi, e anche quelli derivati da verbi, non possano cooccorrere con un complemento d’agente. Nel corso della ricerca su Internet ho però poi trovato cooccorrenze di una forma sicuramente aggettivale con un complemento d’agente. Il carattere aggettivale della forma si può riconoscere mediante la presenza di una delle copule non canoniche (33-34), la funzione della forma come complemento predicativo dell’oggetto (35-36), o una parola derivata dalla forma mediante un affisso (37-38):

(33) Va, comunque, rilevato che «la Fondazione, pur essendo figlia del Conservatorio, resta abbandonata da chi l’ha generata». La Gazzetta del Mezzogiorno, 30.03.2015 (34) Pertanto potrà verificarsi un periodo nel quale l’avvocato in fase di trasferimento non risulta abilitato da nessuno dei due Ordini […] Ordine degli avvocati di Como. [http://www.ordineavvocaticomo.it/index.php/site/page/34] (35) […] è un vero peccato perchè una lettrice come me, che aveva davvero adorato questi due personaggi, si è trovata delusa da questo finale finto! [http://www.lafeltrinelli.it/libri/jamie-mcguire/un-disastro-e-sempre sempre/9788811687603] 07.10.2015 (36) L’altro giorno, tornando a casa ove non risiede abitualmente, ha trovato la

porta aperta dai ladri e tutto l’appartamento a soqquadro. Gazzetta di Modena, 17.06.2015.

[http://gazzettadimodena.gelocal.it/modena/cronaca/2015/06/17/news/rientra- e-trova-la-casa-svaligiata-1.11633590]

(37) L’uscita degli Altri scritti, più di seicento pagine, è attesa perché – a differenza dei Seminari sono testi redatti di pugno dal maestro francese, sempre lettissimo da studiosi (non solo analisti) di ogni parte del mondo. Jacques Lacan, l’inconscio visto da vicino di Luciana Sica, la Repubblica, 02.06.2013

[http://www.psychiatryonline.it/node/4384] (38) Sono anni che combatto una battaglia per abbattere i costi fiscali e tariffari per

associazioni e imprese a Cormons, ma sono sempre rimasto inascoltato da questa maggioranza.

Il Piccolo, 19.07.2015. [http://ilpiccolo.gelocal.it/trieste/cronaca/2015/07/19/news/ingiusto-far-pagare-ai-sodalizi-la-tassa-sul-suolo-pubblico-1.11804224]

Bisogna dunque abbandonare l’ipotesi di restrizioni imposte dalle categorie lessicali sulla derivazione morfologica? Nella sezione che segue cercherò di mostrare che, malgrado le apparenze, la possibilità di aggiungere un complemento d’agente a un aggettivo deverbale non invalida l’assunzione che gli aggettivi non possono denotare eventi.

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8. Un residuo eventivo nel significato concettuale dei derivati La soluzione dell’enigma sarebbe trovata se si potesse mostrare che, anche se gli aggettivi derivati mediante la conversione V → A non possono denotare eventi, i loro significati concettuali possono contenere un elemento eventivo, il quale legittimerebbe la presenza di un complemento d’agente. È questo che cercherò di fare, guardando più da vicino la rappresentazione semantica della forma aperto, come participio passivo e come aggettivo. Ripeto qui come (39) e (40) le rappresentazioni lessicali date sopra in (7) e (8):

(39) aperto, V [PART=PASSIVO] [PRED=‘APERTO (SOGG), *(OBL)’] SOGG : y, *OBL : x ∃e ∃x𝝀y aprire (e,x,y) agent (x) theme (y) (40) aperto, A [PRED = ‘APERTO (SOGG)’] SOGG : y 𝝀y aperto(y) theme (y)

Nella versione (40), la rappresentazione lessicale di aperto aggettivo non conserva la minima traccia della variabile e, argomento del predicato aprire nella rappresentazione del participio passivo (39), cosa che sembra implicare che un complemento d’agente sarebbe semanticamente incoerente: un agente è necessariamente coinvolto in un evento. Dato però che, come abbiamo visto, un complemento d’agente è non solo possibile, ma naturalissimo con l’aggettivo aperto e altri aggettivi V → A, la variabile e deve essere nascosta in qualche parte della rappresentazione semantica. Se è valida l’ipotesi che gli aggettivi non possono denotare eventi, la variabile e non può essere uno degli argomenti di aperto aggettivale. La soluzione che propongo assume che la rappresentazione (40) sia incompleta o, meglio, che sia necessario decomporre il predicato aprire per scoprire una “preistoria” nascosta nel significato dell’aggettivo aperto. Torniamo dunque all’informazione semantica contenuta nelle rappresentazioni (6) e (7), che ripeto qui come (41):

(41) ∃e 𝝀x 𝝀y aprire (e,x,y) agent (x) theme (y)

In (41), il significato di aprire è rappresentato mediante il predicato non analizzato aprire e i ruoli semantici dei suoi argomenti x e y. Se invece decomponiamo aprire nei suoi elementi, vediamo che vi è incorporato un cambiamento di stato, causato da x, che trasforma “non è aperto”, ¬aperto(y), in “è aperto”, aperto(y). Inseriamo dunque questa decomposizione nella rappresentazione semantica, e riscriviamo (41) come (42):

(42) ∃e 𝝀x 𝝀y change(e,x,y,s1,s2) ∧ agent (x) ∧ theme (y) ∧ s1=¬aperto(y) ∧ s2=aperto(y)

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(42) va letta così: l’evento e, in cui x apre y, denota un cambiamento di stato in cui x fa passare y da “non aperto” a “aperto”. Supponiamo allora che, nella conversione V→A, (42) diventa la preistoria menzionata; più tecnicamente, che (42) si trasferisce nel significato di aperto aggettivo, dove assume lo statuto di implicazione. Aggiungiamo che il cambiamento di stato implicato deve essere anteriore allo stato denotato dall’aggettivo, cosa che esprimiamo introducendo due variabili di tempo, t1, il tempo del cambiamento implicato, e t2, il tempo dello stato denotato dall’aggettivo. Riscriviamo dunque la rappresentazione di aperto aggettivo come (43):

(43) aperto, A [PRED = ‘APERTO (SOGG) *(OBL)’] SOGG : y, * OBL : x 𝛌y ∃t2 aperto(y,t2) theme (y) → ∃e ∃s1 ∃s2 ∃t1 change(e,x,y,s1,s2,t1) ∧ s1=¬aperto(y) ∧ S2=aperto(y) ∧ agent(x)

Così (43) contiene effettivamente un evento che legittima un complemento d’agente, ma questo evento non è denotato dall’aggettivo. L’enigma è risolto. 9. Discussione Devo sottolineare che il presente lavoro è uno studio pilota. I dati sono stati raccolti e quantitivamente analizzati con metodi poco sofisticati, e il campione è minuscolo rispetto alla mole dei verbi transitivi e inaccusativi. Inoltre, i parametri esaminati sono incompleti: oltre ai fatti di coordinazione, di cui si è già parlato, dovrebbero essere inclusi anche gli aggiunti di maniera e di riferimento temporale. Infine, per dare una base empirica più salda all’ipotesi di restrizioni morfologiche localizzate al livello delle categorie lessicali, sarebbe auspicabile estendere l’analisi ad altri processi derivativi che cambiano la categoria della base, a partire dalla formazione degli aggettivi deverbali in -bile, come praticabile in (44):

(44) 1. Le piste da fondo sono classificate secondo la seguente tipologia: a) pista facile (segnata in blu), praticabile da sciatori principianti, avente le seguenti ca-ratteristiche: […] Regione Lombardia. Regolamento Regionale, 6 dicembre 2004, N. 1

[http://normelombardia.consiglio.regione.lombardia.it/normelombardia/Accessibile /main.aspx?view=showpart&idparte=rr002004120600010ar0041a]

Spero comunque di aver formulato, nel presente studio, un’ipotesi che merita di essere indagata ulteriormente. Poter mostrare che certe restrizioni sui processi morfologici sono localizzate al livello delle categorie lessicali sarebbe un gran passo avanti verso una visione più chiara della posizione della morfologia lessicale nell’architettura della grammatica. Ringraziamenti Ringrazio Paola Benincà (Padova) e un rilettore anonimo per i loro utili commenti. Inoltre, sono grato a Achim Stein (Stoccarda) per avermi aiutato con le risorse lessicografiche del suo laboratorio e a Stefano Quaglia (Costanza) per una accuratissima correzione delle bozze.

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Appendice

I verbi esaminati, con il numero dei test superati

abbronzare, 5 alterare, 5 avvilire, 5 motivare, 5 ordinare, 5 abbassare, 4 abbottonare, 4 abitare, 4 accendere, 4 acclamare, 4 affascinare, 4 agevolare, 4 aggiornare, 4 aggiustare, 4 aggravare, 4 agitare, 4 alzare, 4 animare, 4 appagare, 4 appesantire, 4 aprire, 4 ascoltare, 4 aspettare, 4 attendere, 4 attivare, 4 aumentare, 4 avvertire, 4 legare, 4 levigare, 4 limitare, 4 livellare, 4 logorare, 4 lubrificare, 4 marcare, 4 meritare, 4 moderare, 4 occupare, 4 offendere, 4 organizzare, 4 persuadere, 4 perturbare, 4 premere, 4 preparare, 4 abbagliare, 3 abbandonare, 3 abbattere, 3 abbreviare, 3 abbruttire, 3 accettare, 3 accrescere, 3 affumicare, 3 agglomerare, 3 amare, 3 ammaccare, 3 ammaestrare, 3 ammirare, 3 ampliare, 3 amplificare, 3 anticipare, 3

appassionare, 3 appiattire, 3 applaudire, 3 applicare, 3 apprezzare, 3 approfondire, 3 approvare, 3 armare, 3 arrabbiare, 3 arredare, 3 attraversare, 3 attrezzare, 3 avviluppare, 3 ingrandire, 3 leggere, 3 liberare, 3 localizzare, 3 lodare, 3 magnetizzare, 3 maledire, 3 manipolare, 3 mantecare, 3 marginalizzare, 3 meccanizzare, 3 mescolare, 3 misurare, 3 modificare, 3 mortificare, 3 munire, 3 muovere, 3 nascondere, 3 naturalizzare, 3 negligere, 3 normalizzare, 3 nutrire, 3 odiare, 3 offuscare, 3 onorare, 3 orientare, 3 osservare, 3 particolareggiare, 3 perfezionare, 3 personalizzare, 3 pervertire, 3 piegare, 3 pigmentare, 3 polarizzare, 3 posare, 3 praticare, 3 preferire, 3 pregiare, 3 premiare, 3 privilegiare, 3 prolungare, 3 abboccare, 2 abbozzare, 2 abilitare, 2 abolire, 2 acchiudere, 2

addebitare, 2 adottare, 2 affidare, 2 affrancare, 2 affrescare, 2 agganciare, 2 aggiudicare, 2 aggiungere, 2 alienare, 2 allenare, 2 ammonire, 2 analizzare, 2 annunciare, 2 appoggiare, 2 aspirare, 2 assalire, 2 assicurare, 2 assimilare, 2 associare, 2 assottigliare, 2 attaccare, 2 avvelenare, 2 avvicinare, 2 laureare, 2 lavare, 2 legittimare, 2 lottizzare, 2 macchiare, 2 maggiorare, 2 malmenare, 2 maltrattare, 2 mangiare, 2 massacrare, 2 memorizzare, 2 menzionare, 2 minimizzare, 2 minorare, 2 mitigare, 2 modellare, 2 modernizzare, 2 montare, 2 motorizzare, 2 mutilare, 2 noleggiare, 2 offrire, 2 opporre, 2 opprimere, 2 ottimizzare, 2 pagare, 2 perforare, 2 perseguire, 2 pestare, 2 piantare, 2 picchiare, 2 polverizzare, 2 precipitare, 2 prenotare, 2 presidiare, 2 prevedere, 2

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privatizzare, 2 programmare, 2 proporre, 2 proteggere, 2 provare, 2 provocare, 2 raddoppiare, 2 abbigliare, 1 abbinare, 1 abbracciare, 1 abbrustolire, 1 abituare, 1 accampare, 1 accecare, 1 acchiappare, 1 accogliere, 1 accoltellare, 1 accusare, 1 adescare, 1 affettare, 1 aggrottare, 1 allacciare, 1 allegare, 1 allevare, 1 allineare, 1 ammanettare, 1 ammassare, 1 ammettere, 1 amministrare, 1 ammollire, 1 amputare, 1 annettere, 1 annullare, 1 appendere, 1 arrotolare, 1 assassinare, 1 assegnare, 1 assistere, 1 assolvere, 1 assorbire, 1 assumere, 1 attribuire, 1 augurare, 1 autorizzare, 1 avvezzare, 1 ghiaiare, 1 innaffiare, 1 licenziare, 1 liquefare, 1 lucidare, 1 lustrare, 1 macellare, 1 macinare, 1 mascherare, 1 mozzare, 1 negare, 1 omettere, 1 oscurare, 1 ospitare, 1 ottenere, 1 palesare, 1 paralizzare, 1 parcheggiare, 1

perdere, 1 perdonare, 1 pietrificare, 1 predire, 1 pregare, 1 prelevare, 1 presentare, 1 prestabilire, 1 produrre, 1 proibire, 1 promettere, 1 radere, 1 abbeverare, 0 abbordare, 0 abbrunire, 0 accarezzare, 0 adocchiare, 0 afferrare, 0 aggredire, 0 aiutare, 0 aizzare, 0 alfabetizzare, 0 alimentare, 0 alleggerire, 0 alloggiare, 0 allontanare, 0 allottare, 0 ammazzare, 0 annichilire, 0 annientare, 0 annoverare, 0 apportare, 0 assaggiare, 0 assediare, 0 avvolgere, 0 azzerare, 0 lambire, 0 lanciare, 0 lapidare, 0 leccare, 0 levare, 0 lisciare, 0 manifestare, 0 mantenere, 0 masticare, 0 mescere, 0 mettere, 0 mollare, 0 moltiplicare, 0 mordere, 0 nobilitare, 0 paragonare, 0 percuotere, 0 perifrasare, 0 porre, 0 portare, 0 possedere, 0 precedere, 0 prendere, 0 privare, 0

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Fraseología numérica en el lenguaje de los argentinos: De ‘no valer un cinco’ a ‘ser el namber uan’

Virginia Sciutto

Abstract The conceptual domain of numbers and quantities occupies a privileged place in the international field of studies dedicated to phraseology. The high recurrence of structures including in their internal components a quantitative pronoun or adjective shows us that we live in a world of numbers that we use in different ways and with differ-ent goals, although we are not always aware of it. Our study aims to analyse a sample of 930 phraseological units of the Argentine variety of Spanish, formed on the basis of quantifiers. It takes into account the different forms that these quantifiers adopt depending on being cardinal, ordinal, partitive, multiplicative or collective ones, as well as the figurative meanings issuing from them. In order to carry out this analysis we have developed a corpus which refers to DiFHA (Diccionario fraseológico del habla argentina. Frases, dichos y locuciones, 2010). KEYWORDS: phraseology • quantifiers • Spanish • Argentine variety

“Que el mundo fue y será una porquería / ya lo sé... / (¡En el quinientos seis / y en el dos mil también!). / Que siempre ha habido chorros, / maquiavelos y estafaos, / contentos y amargaos, / valores y dublé... /Pero que el siglo veinte / es un despliegue / de maldá insolente, / ya no hay quien lo niegue. / Vivimos revolcaos / en un merengue / y en un mismo lodo / todos manoseaos...”

Cambalache, letra y música de Enrique Santos Discépolo, 1934.

1. Introducción El presente trabajo pretende ser un aporte a las tareas dedicadas al español hablado en Argentina; trata en particular las unidades fraseológicas1 (de ahora en más UFS) que incluyen entre sus componentes in-ternos un cuantificador, a saber, un elemento gramatical que expresa cantidad, número o grado en di-versas formas. Es de tener en cuenta que hoy en día, la lengua ocupa un lugar sensible en la inestable relación entre una cultura global y las identidades culturales regionales y nacionales, por ello creemos que el co-nocimiento y estudio de las diferentes modalidades del español sirva para determinar lo propio (en nuestro caso lo argentino) y consolidar lo común (con España u otros países hispanohablantes). En particular, el relevamiento de los usos fraseológicos de Argentina, que no se comparten con España, destaca las características peculiares de dicha variedad y muestra, a su vez, la capacidad creativa de los hablantes argentinos. En este sentido, compartimos la postura de Barcia (2010: 31) cuando afirma que:

el conocimiento de los frutos lingüísticos entre nosotros – en el presente caso, de la fraseología –, nos llena de orgullo pues nos muestra como contribuyentes activos a la renovación y enriquecimiento de la lengua común. Sabemos así que no somos pasivos recipiendarios de una lengua poderosamente flexible, sólida, rica, matizada y dinámicamente expansiva, sino actores partícipes de la animación y revigoriza-ción de esa materia viva.

1 Utilizamos el término de unidad fraseológica (expresión fija o fraseologismo y locución) en un sentido amplio, tal como aparece en los diccionarios, por lo que se da cabida a fenómenos como la colocación. Son combinaciones estables formadas por dos o más palabras y cuyo límite se sitúa en la oración compuesta. Tienen una frecuencia alta de aparición en la lengua y se caracterizan por la institucionalización, la estabilidad y la idiomaticidad (Corpas Pastor 1996).

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La elección de los cuantificadores no es arbitraria; hemos creado una base de datos múltiple formada por UFS del español de Argentina extraídas del DiFHA (Diccionario Fraseológico del Habla de los Argentinos, 2010)2 tal como aparecen registradas. En lo específico agrupamos los fraseologismos referi-dos a las plantas, a los animales e insectos, a los cuantificadores, a los colores, a la música, a los italia-nismos y a los lunfardismos. Como se puede observar en el Gráfico 1, el número total de fraseologismos documentados as-ciende a 2.226 y los cuantificadores presentan un total de 930, representando el grupo con mayor canti-dad de UFS.

GRÁFICO1.CorpusdeUFSdelespañoldeArgentinaextraídosdelDiFHA.(Datosyelaboraciónpropios).

1.1 Usos fraseológicos contemplados Ahora bien, los fraseologismos difieren de una lengua a otra y de una variedad de la lengua a otra. En nuestro caso, considerando el español peninsular y el hablado en Argentina, hallamos usos fraseológi-cos comunes y otros que no lo son. La ardua tarea de estimación de pertenencia a una u otra área geo-gráfica la abordaron los compiladores del DiFHA incluyendo en la obra las siguientes tipologías de UFS: 1. de uso en Argentina y no en España: Faltar(le a alguien) un jugador, Comerse un garrón. 2. de idéntica acepción pero con leves variantes formales: Esp. A las primeras de cambio, Arg. A la primera

de cambio, Esp. Pasarle una patata caliente, Arg. Pasarle una papa caliente. 3. De idéntica forma y significado diferente: Ser un churro: Esp. ‘ser una casualidad’, Arg. ‘ser la mujer o

el hombre, atractivos en la opinión del sexo contrario’, ser un facha: Esp. ‘al que tiene ideas demasiado conservadoras’, proviene de ‘fascista’, Arg. ‘el que hace alarde de su buena apariencia’.

No fueron contempladas, por lo tanto, las UFS: 1. De uso en España y no en Argentina: Estar como dos castañuelas, Echar las diez. 2. De uso común en España y en Argentina: En dos patadas, A la enésima potencia. A partir de esta distinción de uso, abordaremos el análisis de los numerales en la fraseología del habla de los argentinos tomando en cuenta, por un lado, el uso canónico de los números, es decir, dán-2 A raíz de la limitada aportación de unidades fraseológicas incluidas en los diccionarios del español de Argentina, nace el proyecto para la realización de un Diccionario Fraseológico de la Argentina (DiFHA), llevado a cabo por Pedro Luis Barcia y María Gabriela Pauer. El volumen, publicado por la Academia Argentina de Letras y Emecé en marzo de 2010, consta de quinientas páginas con alrededor de once mil artículos y unas quince mil acepciones. Para una visión más amplia sobre los estudios lexicográficos y fraseológicos del español de Argentina, véase Sciutto (2015).

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doles la interpretación precisa. Por otro, examinando en algunos casos el uso aproximado para consta-tar que allí radica la riqueza pragmática de la lengua. Dicha riqueza varía en base a los usos lingüísticos y a los diferentes contextos generándose, como veremos, cantidad de posibilidades para expresar senti-mientos, emociones, inquietudes, inseguridades, certezas, etc. 2. ¿Por qué hablamos con números? Desde el comienzo de su aventura en la tierra, para orientarse en su medio ambiente, el hombre ha tra-tado de enmarcar los fenómenos en leyes y esquemas predecibles: el día que se convierte en noche, la variedad de colores y formas de los animales y plantas, los ciclos de la vida y de la muerte, etc. El pen-samiento matemático nace, por lo tanto, para darle una explicación a los diseños de la naturaleza. Los conceptos fundamentales de las matemáticas, el espacio y las cantidades, son innatas en los seres vivos. Incluso los animales tienen un sentido de la distancia y del número; son capaces de estimar cuántos ad-versarios tienen delante para decidir si combatir o huir. Saber evaluar distancias y cantidades pueden llegar a ser una cuestión de vida o muerte (Barrow 1992: 19 y sig.). Sobre la base de estas necesidades, el hombre inició a identificar las relaciones entre las magni-tudes y comenzó a contar, determinando el nacimiento de un nuevo universo, el matemático, que cons-tituye una fuerza motriz indispensable de la sociedad.

Ya en la antigüedad, Pitágoras (580-479 a. C.) basaba su ideología en los números argumentan-do que son la esencia de todas las cosas aprehensibles por los sentidos y el principio unificador de la realidad; el filósofo no consideraba el número como una entidad abstracta sino concreta y para él, algu-nos hasta tenían un significado mágico.

Volviendo al presente, es habitual creer que usamos los números cardinales únicamente para describir de manera precisa una cierta cantidad, o para referirnos a un conjunto determinado de obje-tos, o para hacer cálculos en aritmética o previsiones y balances en economía. En realidad, utilizamos los números también cuando nos referimos a cantidades indeterminadas o aproximadas.3 Este uso no impide en absoluto la comprensión entre los interlocutores, al contrario, en muchas ocasiones dicha imprecisión aporta matices y significados a lo que se está diciendo y ocurre casi sin darnos cuenta. Se-gún autores como Labov (1984) y Gili Fivela & Bazzanella (2009), el empleo de los números como me-canismo de aproximación se enmarca dentro de un fenómeno más amplio denominado intensidad, si-tuado en el seno de las expresiones sociales y emocionales. Dicho fenómeno oscila entre los polos de la atenuación y la acentuación, proporcionando a la interacción lingüística un valor fundamental debido a que funciona como portavoz de las emociones. En el caso concreto del español de Argentina, es frecuente escuchar frases como, por ejemplo, “esperame un segundo” o “bancame un cacho” o “voy en dos segundos” pero ¿estamos seguros de que se trata de esperar exacta y precisamente un segundo, o de aguardar un solo momento o de que [una persona] va a ir en dos segundos de reloj? Es muy probable que esos pocos segundos haya que trans-formarlos en algunos minutos. Dentro del código fraseológico de todas las lenguas, es común que los lexemas cuantitativos numerales denoten una cantidad indefinida y sean empleados, por lo general, con valor elativo, hiperbólico o enfático (García-Page 2000: 197). Bajo la denominación común de numeral, la mayoría de las gramáticas españolas distinguen cin-co clases4: cardinales, ordinales, partitivos, multiplicativos o múltiplos y colectivos, a las cuales nos ads-cribimos para la realización de nuestro análisis fraseológico.

3 Para una visión más amplia remitimos al capítulo 2 del trabajo de Carla Bazzanella (Approssimare con i numeri nelle lingue) donde hallamos un análisis detallado del uso de los números imprecisos en italiano y con algunos ejemplos en otras lenguas (2011: 21–58). 4 Seguimos la clasificación de los cuantitativos y su terminología propuesta por RAE (1973: § 2.9) y Alcina & Blecua (1975: § 4.6).

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3. Numerales cardinales Cuando hablamos de cardinalidad nos referimos al uso canónico de los números, es decir, cuando se utilizan de manera precisa para indicar una cantidad exacta de elementos de un conjunto. En la mayoría de las lenguas habladas en el mundo, los números cardinales ocupan un lugar significativo en las vidas de las personas; en efecto, cuando nos expresamos necesitamos referirnos a ellos: para calcular, para contar dinero, para organizar el tiempo (en minutos, horas, años, siglos…), pa-ra hacer filas, para evaluar, para digitar números de teléfono, en la participación a diferentes juegos (da-dos, escondidas, rayuela…), para darle precio a las cosas, para medir, para basar el análisis y las argu-mentaciones de los estudiosos de cultura científica y humanística, etc. (cfr. Bernardini & De Mauro 2003: 79 y sig.). Comenzaremos a recorrer la sucesión de los cardinales presentes en nuestro corpus que hemos subdividido en tres grupos: el primero, integrado por la serie de cero a diez (que, como veremos, resulta ser la que presenta la mayor frecuencia de uso); el segundo, en donde hallamos algunos números entre once y cien y, por último, un grupo formado por doscientos, mil y millón, que se distancia de las series ante-riores. 3.1 De cero a diez Cero Es el primero de la secuencia de los cardinales y aparece en las UFS verbales estar cero al as ‘sin nada, desprovisto de todo’, estar cero kilómetro ‘gozar de buena salud, tener buen aspecto, figura o presencia’, hacer cero ‘referido a un caballo, fracasar totalmente’, pelar con la cero ‘dejar a alguien sin dinero’5, ser un cero al as ‘ser inútil, no valorado o tenido en cuenta’, volver a foja cero ‘volver al comienzo, empezar de nuevo un cosa’; en las adjetivas como cero quilómetro ‘nuevo, sin uso’ y en las adverbiales como cero al as ‘sin na-da’ y en cero ‘sin dinero’. Uno De todos los signos recogidos en el corpus, el numeral uno es, sin lugar a dudas, el que presenta la ma-yor cantidad de apariciones (720). Hemos podido constatar que la frecuencia de uso resulta mayor con el cardinal uno y, en gene-ral, con los números pequeños uno, dos y tres; es decir, los mismos números que los niños asimilan primero y los mismos que ciertos animales logran discriminar; es el “sentido numérico” al que se refería Tobias Dantzig en 1954, en pleno auge del constructivismo de Piaget.6 Es necesario aquí, poner debida atención y no confundir (como ya recordara García-Page 2000: 200) “el un numeral con el un indefinido ni con el que algunos gramáticos siguen llamando artículo in-determinado”, pero es cierto también que autores como Alarcos Llorach (1968) afirman que muchas veces, delimitar los diferentes valores en contextos ambiguos, resulta una tarea extremadamente delica-da.7

5 Se refiere a la máquina de cortar pelo, cuyo punto 0 rapaba al cliente. 6 “El ser humano, aún en sus estados primarios de desarrollo, posee una facultad la cual, por no encontrar un nombre me-jor, llamaré sentido numérico. Esta facultad le permite reconocer que algo ha cambiado en una colección pequeña cuando, sin su conocimiento directo, un objeto ha sido eliminado o agregado a la colección” (Dantzig 1954). La posición de Tobias Dantzig, que avala la idea de la existencia de facultades cognoscitivas innatas en el cerebro humano, se opone a la teoría del desarrollo cognoscitivo de Piaget según la cual, el cerebro humano construye de cero sus estructuras cognoscitivas activando un proceso dialéctico de interacción con el mundo circundante a partir del nacimiento del individuo y durante diferentes etapas del crecimiento, claramente diferenciadas. De acuerdo con Jean Piaget, a partir de los 4 años de edad los niños inicia-rían a formarse en el cerebro el concepto de número (Piaget & Szeminska 19674). 7 Al respecto, el autor aclara que “[…] /un/ es en español funcionalmente un adjetivo del tipo II, nominalizable como todo adjetivo, y constituido por un lexema y los morfemas de número y de género. El valor esencial de su lexema consiste en la «singularización». Como tal ‘singularizador’, contrae oposiciones con otros elementos: su presencia «singulariza» al nombre (señalando un ejemplar o un conjunto unificado: un niño/ niño, un vino/ vino, unos días/ días); se opone a otros cuantificadores, sean precisos (un niño / dos niños, tres niños…), sean definidos (un árbol / mucho árbol, un vino / bastante vino, una casa / muchas casas…)” (Alarcos Llorach 1968: 20).

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Alegamos a continuación solamente algunas de las UFS más representativas registradas en nues-tro corpus con el cardinal uno, tal como aparecen asentadas en el DiFHA8: Anotarse/apuntarse un poroto, en los juegos de naipes ‘anotarse un punto’ porque estos últimos se representan con dicha legumbre, también ‘lucirse o destacarse por una acción o por un acierto en cual-quier actividad’, bajarse una botella, ‘tomarse íntegramente el contenido de una botella’, bolear de una vuel-ta/viaje es una locución rural que significa ‘lanzar las boleadoras estando la presa a más de treinta me-tros de distancia, por lo que las boleadoras dan una vuelta en el aire hasta llegar al animal’, brincar en una pata, comerse (una semana, un mes, un año) ‘estar preso’, con la bola en una pata, locución adverbial rural refe-rida a la actuación de una persona ‘con ciertas limitaciones’, costar un huevo (y la mitad del otro), locución vulgar que puede significar ‘demandar algo mucho esfuerzo’ o ‘salir algo muy caro’, dar un manijazo ‘for-zar una situación metiendo presión’, dar un paso al costado, dar un tirón de huevos, dar un tubazo ‘hablar por teléfono’, dar una lavada de bocha/bocho/cabeza, dar una mano de bleque ‘denigrar’, dar una milonga ‘en el de-porte, derrotar ampliamente a un adversario’, dar una pera ‘no cumplir con lo prometido’, dar vuelta de un revés, darse un tortazo ‘chocar’, de un saque ‘de una vez’, de una ‘directamente, sin interrupción; también usada como interjección con el significado de ¡por supuesto!’, en una pestañada, es el namber uan, del inglés “number one”, ‘ser el número uno, el mejor’. La locución es sacarle un pelo a un conejo se usa en el campo con el significado de ‘obligar a un gasto insignificante a una persona de mucho dinero’, estar a partir de un confite indica que se ‘está en muy buenas relaciones con alguien’, estar con un pie en el cajón, referido a cuando una persona está ‘cerca de la muerte’, estar con una mano adelante y otra atrás, estar un kilo y dos panci-tos9 ‘muy bien’, muy frecuente es el FRS faltar(le a alguien) un jugador ‘ser loco, tonto’ que en la oralidad, más allá del juego del fútbol, alude al juego del metegol que con el paso del tiempo y deterioro, suele perder uno o más jugadores, ganar por un campo frase relacionada al lenguaje hípico ‘ganar por mucho margen’, hacer el uno es una locución vulgar que significa ‘orinar’ (ver también hacer el dos), hacer una va-ca/vaquita coloquialmente significa ‘formar un fondo común ya sea para una apuesta o juego, o para otros fines: un regalo, una comida, etc.’, mandarse un moco para significar que ‘alguien cometió un error’. Hallamos una serie de comparaciones con que muy figurativas como más aburrido que chupar un clavo, más bruto que un par de botas patrias, referido a lo ‘duro’ o ‘muy bruto’ y aludiendo a las botas que proveía el Estado a los soldados, extremadamente incómodas y duras, más caro que un hijo bobo y con como: traer como chicharra de un ala ‘manejar a alguien como se quiere, pese a las protestas’. Aparecen registrados en nuestro corpus fraseologismos con uno que remiten al lunfardo10 como ni un guita ‘sin nada de dinero’; otros relacionados con el campo: no afloja ni un tranco de pollo, es decir ‘ni un poco’ referida a ‘sostener la lucha, la discusión o la posición sin un solo desfallecimiento’ o las locu-ciones vulgares no caberle (a alguien) ni un alfiler en el culo, no entender un soto así como las que se refieren a un valor aproximado: no movérsele ni un pelo, no tener ni un centavo/cobre/mango, no valer ni una pitada, no valer un centavo, no valer un mango, no ver ni una, para referirse a ‘nada’. Cuando se quiere expresar que son ‘muchos los que intervienen en un asunto’ se suele emplear la frase fija ser muchos niños para un trompo. Para pedir prestado dinero sin ánimo de devolverlo se utiliza habitualmente el fraseologismo pe-gar un mangazo. Pegarle un beso (a la botella) es ‘beber’. Insultar es rajar de una puteada y recibir una piedra en ca-da mano es ‘esperar a alguien y recibirlo de forma agresiva’.

8 Por cuestiones de espacio, no comentaremos el significado del total de UFS presentes en el trabajo, sino de las que, según nuestro criterio, necesitan ser aclaradas para su comprensión. 9 Esta es una frase celebérrima del humorista y actor argentino Carlos Salim Balaá (1925) más conocido como Carlitos Balá, famoso por su dedicación al entretenimiento para niños y adolescentes. “Está un kilo y dos pancitos”, decía, antes de rema-tar con su “gestito de idea”. La frase fue acuñada en épocas en las que comprar un kilo de pan era una medida estándar para las familias, y entonces, los “dos pancitos” adicionales le ponían al dicho el plus de algo superior. 10 El lunfardo es la típica jerga rica de vocablos italianos que se difundió en la zona del Río de la Plata. El término lunfardo se aplicó en principio al ladrón y deriva del romanesco lombardo introducido con la gran inmigración durante la segunda mitad del siglo XIX. Sucesivamente, con los varios cambios sociales que implicaron incluso la urbanización de la capital y sus alre-dedores, penetró en la lengua popular integrándose al habla cotidiana de los argentinos. Con el pasar del tiempo, el lunfardo llegó a la literatura gracias a los escritores de teatro popular, de tangos y milongas y a periodistas. Cfr. Sciutto (2001: 140–144).

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Cuando se alude a la ‘edad avanzada de una persona’ se usa la expresión ya no se cuece de un solo hervor, estableciendo un paralelismo entre esta y un animal viejo que, al tener las carnes duras y correo-sas, requiere largas horas de cocción para tiernizarse.

En varios de los ejemplos hallados el cardinal uno adquiere valor enfático o elativo: por un cachito ‘por poco margen’ (p.e. “Argentina ganó por un cachito así” 11 ), importarle (a alguien) un be-lín/corno/demonio/pito/soto ‘despreocuparse de algo o de alguien, desinteresarse completamente’ (p.e. “Me importa un pito lo que pensás”), una bocha ‘gran cantidad, mucho’ (p.e. “Tengo que estudiar una bocha para mañana”), venir de un tirón ‘referido a un viaje, venir sin hacer ni un alto’ (p.e. “De Junín a La Plata me vine de un tirón”), etc. Dos De acuerdo con los datos que nos arroja el corpus, las UFS verbales con el componente dos son las más frecuentes: andar/estar con el culo a dos manos ‘andar/estar asustado, prevenido contra algo que puede ocu-rrir. Moverse con sumo cuidado. Tener culpas y estar expuesto a ser desenmascarado’ (esta expresión alterna con el numeral cuatro que parece ser la más frecuente entre las dos alternativas), bolear de dos vuel-tas ‘lanzar las boleadoras siendo la proximidad para con la presa de unos treinta y cinco metros de dis-tancia, por lo que las boleadoras han de dar dos vueltas en el aire hasta llegar al animal’, cabe destacar que esta frase, de uso rural, se emplea también con el numeral cuatro. Cambiar dos balas ‘en un desafío, hacer fuego’, cantar a dos hocicos locución rural que significa ‘can-tar a dúo’, castigar a dos lados, en la hípica, frase referida a un jinete, ‘castigar a un caballo en ambos flan-cos’, estar contento como perro con dos colas, ganar dos guitas ‘ganar poco dinero’, hacer dos mandados de un viaje, hacer el dos, que significa ‘defecar’ (eufemísticamente ‘el uno’ consiste en orinar y ‘el dos’ en defecar). Ju-gar a dos jarabas es una locución lunfarda (vesre de ‘barajas’) con el sentido de ‘proceder con doblez’, ju-gar a dos puntas es ‘especular con dos posibilidades’, pararse en dos patas una expresión rural referida al ca-ballo: ‘levantarse sobre los remos traseros’. Salir con el culo a/en dos manos ‘salir asustado y en forma atro-pellada’ (muy usado también con el numeral cuatro), ser yegua de dos galopes es una locución rural referida a una mujer ‘ser liberal, poco recatada’ y tener dos caras como el queso ‘ser falso, desleal’. Le siguen a las verbales las UFS adverbiales: a dos por tres ‘repentinamente y sin mayor motivo’, a dos rebenques, expresión rural que alude a ‘una circunstancia apremiante’, a dos tirones ‘con facilidad, sin mayor esfuerzo’ un kilo y dos pancitos ‘muy bien’ (ver Uno). Aunque en menor cantidad, hallamos también UFS adjetivas: como cinchón de dos vueltas, expresión rural referida a una ‘persona muy alta y delgada’, como perro con dos colas ‘muy contento’, los ojos como el dos de oro ‘persona que tiene los ojos muy grandes y despejados’, más fácil que la tabla del dos, es decir, ‘muy fácil’ pero también referido a una mujer ‘liviana de cascos o liberal’. Otras UFS funcionan con valor elativo como ¡ay Dios!, cuando seremos dos ‘expresión de anhelo que denota el deseo de formar pareja’ (la frase completa se usa muchas veces también así, con el signifi-cado que fácilmente se deduce: ¡ay Dios! cuando seremos dos: el reumatismo y la tos). Curiosa es la locución deme dos (o deme tres) para referirse a un argentino porque en algunos países como Estados Unidos y Brasil designaban así a los argentinos que, encandilados por las diferencias del cambio, adquirían los artículos costosos de a dos o de a tres unidades. Aunque no aparezca citada en el DiFHA12, existe una frase de tipo histórico bastante empleada en Argentina: Dos pájaros de un cañazo. Balmaceda (2014: 129–131) explica que en el Virreinato del Río de la Plata era usual el juego de cañas en los días de fiesta (tradición importada de España que, a su vez, la tomó de los árabes) donde participaban equipos de seis a ocho hombres que lanzaban cañas al juga-dor que atravesaba a caballo un pasadizo, tratando de esquivar los lanzazos. Luego se emplearán las ca-ñas para cazar aves y da ahí surge “Matar dos pájaros de un cañazo”. Hemos corroborado que en el Dic-cionario fraseológico del español moderno de Varela & Kubarth (1994) esta locución no aparece registrada.

11 Los ejemplos que exponemos en este apartado fueron proporcionados por informantes residentes actualmente en territo-rio argentino con un nivel de instrucción medio y superior. 12 Todas las frases que no aparecen documentadas en el DiFHA y que citamos en este trabajo fueron extraídas de otras obras lexicográficas reseñadas en la bibliografía y/o consultadas con informantes de lengua madre que viven actualmente en Argentina, a los cuales agradecemos por su contribución.

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Tres El número tres se presenta en UFS adverbiales como por ejemplo a dos por tres ‘repentinamente, sin ma-yor motivo’, bolear de tres vueltas (variante minoritaria de bolear de dos vueltas), así como también en fraseo-logismos verbales como correr en tres patas y ganar en tres patas que provienen de la hípica y significan ‘co-rrer o ganar un caballo con alguna dolencia en una de sus patas’, dar tres rayas que pertenece al léxico rural para expresar ‘aventajar mucho’, tener las tres efes, referido a una mujer, ‘ser fea, flaca y fisgona’. Cuatro Este número, suele actuar como hiperbólico para expresar una disminución excesiva de aquello que se habla: alcanzar/ganar en cuatro saltos, cuatro pelos locos, ser cuatro gatos (la cifra de este último ejemplo puede variar conforme al número de personas implicadas en el acto de la enunciación). Al contrario, lo encontramos como aumentativo de algo que se dice, como en el caso de an-dar/estar/salir con el culo a cuatro manos (ver arriba andar/estar con el culo a dos manos). Otras veces, forma parte de expresiones argentinas figuradas o groseras como en el caso de lar-garlo en cuatro patas, que tiene como significado ‘contagiar la mujer al hombre alguna enfermedad ver-gonzosa’ o la expresión verbal, ligeramente diferente, andar en cuatro patas con el significado de ‘tener una enfermedad venérea’. Hallamos incluso UFR con un nivel de uso de tipo jergal como hombre de las cuatro armas que en el argot de la delincuencia significa ‘delincuente, capaz de abrir una puerta, explorar un bolsillo, realizar una estafa, dar la biaba’. Una frase muy común utilizada en Argentina pero que no aparece asentada en el DiFHA es ser un cuatro de copas referido a una persona inútil, sin importancia; probablemente porque en el truco –juego de naipes muy difundido en Argentina donde las cartas más importantes tienen nombre específi-co y seña propia – es la carta de menor valor. Cinco El cardinal cinco suele utilizarse como abreviatura fraseológica (cfr. García-Page 1999) de «cinco centavos» en no tener/valer un cinco, faltar cinco para el peso, o en los fraseologismos referidos al hecho de que por cinco centavos en Argentina solo se compraban un par de lonjas de queso como en chato como cinco de queso, locución adjetival rural que significa ‘humillado, avergonzado’ o dejar chato como cinco de que-so/dejarlo más chato que cinco de queso con el significado de ‘rebatir a alguien con tantos y tan buenos argu-mentos que se lo ha dejado sin defensa ninguna, aplastado, apabullado’. Se emplean también abreviaturas de «cinco dedos» en deme esos cinco (choque los cinco), frase asocia-da a una condición psicológica positiva (cfr. Bazzanella 2011: 84) como la del entendimiento o del acuerdo, que proviene de los Estados Unidos, gimme five; o en locuciones como estar para chuparse los cinco. Al contrario, con acepción negativa podemos recuperar la frase ya le haré saber cuántos son cinco, expresión equivalente a “ya lo pondré en vereda, ya lo escarmentaré” que ‘alude a los cinco dedos de la mano y a la amenaza vedada de que el otro puede ligar un golpe’. Para expresar la notable falta de atención de una persona hacia otra, se utiliza asiduamente dar cinco de bola, con las variantes ni cinco de… (de importancia, inteligencia, etc.) referidas a un hecho o a una co-sa. Por último, hemos registrado en el corpus una expresión sin sentido ni consecución donde, en-tre otros, aparece el cardinal cinco, de sentido descalificador, que indica la ‘falta de coherencia en algo’: cinco por ocho cuarenta, te espero en la lechería. Seis Con el cardinal seis hemos asentado solamente dos fraseologismos del habla de los argentinos: más flaco que las seis en punto y ser un seis. La estructura del primero, presenta una comparación explícita introducida por que, cuyo segundo término es el numeral seis. Ser un seis, no se utiliza como en el ejemplo anterior con el significado de ser flaco, sino como locución verbal perteneciente a la jerga de la droga, con el significado de ‘ser tonto’.

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Siete El número siete aparece, por ejemplo, en el fraseologismo as de bastos y siete bravo ‘parálisis facial de un ojo y comisura labial’. Aquí se alude a la guiñada de ojo y a la mueca utilizada en el truco para indicar al compañero la posesión de determinadas cartas; en concreto, el uno de bastos y el siete de espadas. También las locuciones asunto de la gran siete ‘asunto que exige considerable esfuerzo’ y ¡la gran siete! ‘ex-presión de asombro, contrariedad o sorpresa’, tienen que ver con el mismo juego de naipes, en este ca-so, el siete de espadas es la tercera carta en importancia para el lance final del juego. Relacionado a comentarios, a ‘salidas desatinadas o imprevistas o a un despropósito’ se utilizan las UFS domingo siete o salir con un domingo siete. En la locución verbal vulgar fruncir el siete ‘asustarse’, el numeral está relacionado, según lo ratifi-can los informantes consultados, con la forma que presenta el orificio anal cuando se desgarra. En la frase soez hijo de siete leches, el cardinal siete le confiere a la expresión una connotación nega-tiva, dándole el significado de ‘persona ilegítima de nacimiento’ y aludiendo al hecho de que una mujer ha recibido el sem*n masculino de varios hombres, por lo que no se puede determinar la paternidad. Con valor elativo hallamos las locuciones guardar bajo siete llaves, es decir, ‘esconder con esmero, guardar celosamente’ e individuo de siete suelas ‘muchacho impetuoso’. Ocho Las UFS más comunes – hablando de comparaciones – resultan las construidas con el cardinal ocho; apretado como trenza de ocho ‘incómodo por la falta de espacio’ así como también la locución rural estar apretaditos como trenza de ocho referida a un par de enamorados, ‘estar o andar muy juntitos’ y salir como trenza de ocho, también usada en el campo pero esta vez referida a dos o más personas, ‘empezar a pelear encarnizada y enredadamente’, la frase fija también se aplica al baile de parejas.13 Estas locuciones aluden directamente a la forma estrecha en que se trenza para que queden bien sujetadas las partes (en este caso ocho). Hemos comentado más arriba la UF cinco por ocho cuarenta te espero en la lechería (ver Cinco). Nueve Tenemos solo una frase registrada con el cardinal nueve que se utiliza en el español de Argentina dife-renciadamente respecto del uso peninsular: andar con los nueve y está referida a un caballo cuando se en-cuentra ‘en perfecto estado de entrenamiento’. Según nuestras investigaciones, es probable que la alu-sión al número nueve se deba a que las pruebas de equitación incluyen varios pasos, movimientos, figu-ras y transiciones. Cada prueba debe realizarse de memoria y en un tiempo determinado, el cual varía de una competición a otra. La duración en las principales competiciones oscila entre los nueve y los once minutos y medio. Diez El diez aparece en algunas locuciones asumiendo el sentido indeterminado de ‘poco’ como en faltar diez guitas para un peso, es decir, ‘en el momento concreto de realizar una tarea, faltar alguna cosa que resulta indispensable’ y también referido a una persona, ‘ser de escasa inteligencia’. Con sentido indeterminado de ‘mucho’ registramos estar diez puntos para significar que alguien tiene ‘un grado óptimo de preparación’ o ‘muy buen físico’ así como también para indicar que una per-sona es apuesta. Me cache en dié es una locución vulgar que expresa ‘desagrado o sorpresa (me cago en diez)’; se observa que es una deformación de la expresión “me cago en Dios”, dicho para evitar la blasfemia. En la jerga de la droga, suele utilizarse la expresión saltar el diez ‘al inyectarse heroína, entrar la sangre en la jeringa, por estar ubicada la aguja en su vena’. 13 “Trenza de ocho es la hecha con tientos de animal vacuno y se usa para “arreadores” y también para lazos destinados a trabajos de rodeo y pialada. Tiene la característica de ser muy ceñida en su urdimbre” (DiFHA, v. salir como trenza de ocho).

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3.2 De once a cien Once Giran alrededor del once enunciados fraseológicos que tienen que ver con una tradición antigua, muy ra-dicada en Chile y que seguramente viajó a través de la cordillera hacia la Argentina. Existen, en efecto, frases ya casi en desuso como tomar las once o tomar once ‘tomar té’. El ‘tomar once’ significaba juntarse la familia alrededor de la mesa para disfrutar de una taza de té o café, junto con el pan y sus acompaña-mientos. El origen del fraseologismo es discutido; según una etimología popular chilena, la frase pro-vendría de la costumbre de los trabajadores de las salitreras que acompañaban la merienda bebiendo aguardiente a finales del siglo XIX. Debido a la existencia de restricciones para beber alcohol, llamaban once a tal comida por la cantidad de letras (11) que posee la palabra aguardiente, pero no es la única ver-sión que circula. En este sentido hallamos también la variante fraseológica rural hacer las once ‘tomar al-gún licor antes de mediodía’ y otra locución de tipo rural que se relaciona por su significado: tener la ca-beza a las once, es decir, ‘no tener juicio’, por el hecho de haber bebido alcohol. Según la interpretación que recoge la Real Academia Española, se trata de la traducción literal de una comida tomada a media mañana, conocida en inglés como elevenses (‘onces’).14 En el último fraseologismo documentado tomar el once ‘caminar, ir a pie’, la palabra once, repre-senta en realidad una analogía de tipo morfológico entre el signo aritmético (11) y las dos piernas de una persona. Doce La locución verbal dar las doce antes de hora forma parte de los fraseologismos presentes en el DiFHA de idéntica forma en España y Argentina pero de significado diferente. En efecto, mientras que en la Pe-nínsula adquiere el valor de número redondo o enfático (cfr. García-Page 2000: 204) para expresar len-titud en la ejecución de una acción o para indicar que se ha hecho muy tarde, en el habla de los argenti-nos, el significado es totalmente diferente; es una locución rural y se refiere a una ‘mujer sexualmente atractiva’. Trece El trece se emplea en muy pocas ocasiones. Lo hallamos en las locuciones verbales estar con los trece y le-vantarse con los trece con el significado de ‘estar/levantarse muy malhumorado’. En España se utiliza la va-riante mantenerse/permanecer/seguir en sus trece (cfr. Varela & Kubarth 1994, v. trece) pero con el significado de ‘persistir obstinadamente en algo’. Es muy probable que el origen de esta frase provenga de don Pe-dro Martínez de Luna que fue elegido pontífice en 1393 y tomó el nombre de Benedicto XIII. Francia, que se opuso al Papa por ser súbdito de la Corona de Aragón, lo presionó para que renunciara. El Papa se negó y esta actitud suya hizo surgir el dicho de origen castellano de “siguió en sus trece”. Catorce El número catorce tiene un índice de frecuencia muy bajo, hemos recogido: clavado, dijo Cañete, catorce y dos, diecisiete que es una fórmula con que ‘se relativiza una afirmación demasiado contundente’ y se con-forma con la concurrencia de otros dos numerales cardinales (dos y diecisiete). Morir como el penado catorce: solo y haciendo señas (no incluido en el DiFHA y de discutido origen) con sus variantes quedarse haciendo señas como el penado catorce y más solo que el penado catorce, es un fraseolo-gismo proporcionado por nuestros informantes. El penado catorce es, además, un tango compuesto en 1930 (letra de Carlos Pesce, música de Agustín Magaldi y Pedro Noda). Cuenta la historia del detenido catorce que, habiendo sido condenado a muerte, pide como última voluntad ver a su madre “para darle un beso en la arrugada frente” pero muere en su celda sin ser contentado. Diecisiete Clavado, dijo Cañete, catorce y dos, diecisiete (ver Catorce). 14 Diccionario de la lengua española (DRAE) (2014), once (consultado el 25 de mayo de 2016).

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Veinte La chancha y los veinte o tener la chancha y los veinte: esta frase tiene su origen en la zona del Río de la Plata a finales del siglo XIX y fue popularizada por un sainete criollo de la época así titulado. Está referida a una persona codiciosa que quisiera obtener mayores ganancias o ventajas de lo que le corresponde. En el DiFHA se observa que es una expresión que va cayendo en desuso y que la frase original vendría del mercado: “Vos querés, por el mismo precio, el chancho, la chancha y los veinte lechones” y que con el tiempo se simplificó en “la chancha y los veinte” (lechones). Refiere también a que con la industrializa-ción, se amplió, señalando el abuso de forma más actualizada: “la chancha, los veinte y la máquina de hacer chorizos”. Cuarenta El empleo específico de cuarenta, se relaciona con el juego de naipes. Por ejemplo el fraseologismo alzar por las cuarenta se refiere al hecho de ‘dividir en dos la baraja’, de modo que, al darse las cartas, vaya el cortador al acuse de las cuarenta. Alzarse con las cuarenta, está relacionada con la anterior pero con el sig-nificado de ‘incurrir en fuertes quejas y reproches’ así como también la locución rural ser otras cuarenta, que se refiere al número de cartas de un naipe y significa ‘ser cosas diferentes y ajenas al asunto de que se trata’. Aparece asimismo la expresión ya citada cinco por ocho cuarenta, te espero en la lechería (ver Cinco). Sesenta y nueve Existen expresiones que poseen una acepción vulgar como en el caso de la expresión fija argentina hacer el sesenta y nueve. Esta frase significa ‘realizar simultánea y recíprocamente un hombre y una mujer un cunniling*s y una felación’, creándose una analogía morfológica entre la posición de los cuerpos durante el acto sexual descripto y el signo aritmético (69). Ochenta La locución adverbial a ochenta, que tiene su variante a mil, posee un valor aproximado debido a que sig-nifica ‘a toda velocidad’, aludiendo a los ochenta kilómetros por hora que puede circular un vehículo. Cien En la fraseología española, el numeral cien aparece muy a menudo. Citamos como ejemplo de uso en Argentina la locución andar con cien ojos, que indica en este caso una cantidad imprecisa, a saber, ‘mu-chos’ para significar ‘desplegar la mayor atención’. 3.3 De doscientos a diez mil Doscientos Con caidona, dijo Mineto, y le faltaban doscientos gramos: esta expresión fija que proviene de la oralidad y de las regiones rurales de la Argentina, denuncia un ‘hurto disfrazado de generosidad’; “con caidona” signi-fica, en efecto, con generosidad, con yapa o changüí. Quinientos El único enunciado fraseológico que hemos registrado con el numeral quinientos, es verbal y usado en el campo: ser otros quinientos, que significa ‘ser cosas diferentes y ajenas al asunto de que se trata’ y se alterna con la UF sinónima ser otras cuarenta (ver Cuarenta). Mil El cuantitativo mil se manifiesta en la fraseología, por lo general, con valor hiperbólico como en las si-guientes expresiones registradas pertenecientes a la oralidad argentina: a mil ‘a toda velocidad’, creerse mil ‘envanecerse’, ir a mil con el significado de ‘estar muy apurado o andar excitado’ y en la locución matar mil ‘sobresalir o causar sensación’ que alterna con matar diez mil con el mismo significado.

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La UF verbal meter mil se utiliza con el sentido de ‘ser notable en algo o informar abreviadamen-te’ y tirar los mangos de a miles para significar ‘dilapidar el dinero’. Hallamos también la expresión adverbial de a mil para representar el concepto ‘en billetes de mil pesos’. Advertimos que, en general, los cuantitativos más altos de la escala suelen emplearse con valor superlativo, hecho que favorece el intercambio de numerales, siempre que esté contemplado en el códi-go fraseológico de la comunidad de hablantes (ir a cien/mil/doscientos/diez mil); pero hay casos en los que la sustitución léxica no puede efectuarse debido a que el numeral está plenamente fijado como en el ca-so de creerse mil. Mil quinientos El numeral mil quinientos, se emplea únicamente con valor elativo como en el caso de a las mil quinientas ‘con mucho retraso’ o ‘muy tarde’ y suele aparecer como alternativa de mil y de quinientos. Diez mil El uso del número diez mil queda prácticamente limitado a la UF matar diez mil y se emplea con valor elativo del mismo modo que la locución matar mil. 4. Numerales ordinales Según la Real Academia Española15, el numeral ordinal es un concepto lingüístico que indica el lugar que ocupa una determinada unidad en una serie, es decir, que expresa la idea de orden o sucesión pero no cuantifica al sustantivo, sino que lo identifica e individualiza dentro de un conjunto ordenado de la misma clase. Puede cumplir la función de adjetivo, pronombre o adverbio; presenta variación de género y número y en determinadas ocasiones aparece apocopado. Al contrario de los cardinales, esta tipología numérica es mucho menos utilizada en el lenguaje corriente: en efecto, en español se acostumbra utilizar hasta el décimo de los ordinales y, para los supe-riores, se utiliza el cardinal correspondiente: siglo XX (siglo veinte), Luis XV (Luis quince), Juan XXIII (Juan veintitrés). Primero Como ordinal, primero aparece en varias expresiones fijas, como ¡canté primero!, frase proverbial utilizada asiduamente entre los niños y adolescentes argentinos cuando juegan y piden estar en primer lugar, ya sea en el uso de la palabra o en el comienzo de un juego. La UF escupir el primero, por su parte, tiene que ver con una tradición popular argentina referida al mate16 y, en este caso, significa ‘escupir el primer mate por ser el más fuerte’. En efecto, las hojas de la yerba mate tienen un sabor amargo debido a los taninos de sus hojas. Como ordinal de género femenino, primera aparece en la locución adverbial a la primera palabra, para referirse ‘a la más leve insinuación’, en la locución adjetiva a la primera sangre, referida a un desafío o duelo, ‘que debe terminar con la primera herida, siquiera ligera que reciba uno de los duelistas’, en la lo-cución sustantiva vulgar garca de primera para aludir a un ‘estafador profesional’ o a un ‘traidor’. Los fraseologismos verbales jugar de primera y jugar en primera, si bien difieren entre sus compo-nentes fijos solamente de la preposición (de/en) poseen significaciones completamente diferentes. Cabe advertir que ambos tienen un uso compartido con España y otro peculiar de Argentina. Jugar de primera, comparte la acepción peninsular ‘ser de primera calidad, óptimo’ (cfr. Varela & Kubarth 1994), mientras que en el uso propiamente argentino, se lo relaciona con el fútbol en el sentido de ‘re-cibir la pelota y pasarla o rematar sin dilación’. Con respecto a la expresión fija jugar en primera, en ambos países se emplea con el significado de ‘jugar en primera división’ pero, en el ámbito rural argentino, aparece asentado en el DiFHA referido a un caballo: ‘desensillar’.

15 Fueron consultados el DRAE y la primera edición del Diccionario panhispánico de dudas (fecha de consulta: 10 de junio de 2016). 16 El mate es una infusión hecha con hojas de yerba mate consumida desde la época precolombina, luego fue adoptada por los colonizadores españoles y quedó como parte del acervo cultural sobre todo en Argentina, Bolivia, Paraguay y Uruguay.

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Segundo La expresión fija carecer de segundo patio, es decir, ‘tener poca profundidad espiritual e intelectual’ es la única hallada con el ordinal segundo y revela, como tantas otras citadas en el presente trabajo, la capaci-dad creativa de los hablantes argentinos de elaborar conexiones mentales de naturaleza metafórica dan-do vida, en el lenguaje diario a expresiones pluriverbales figuradas.17 Tercero Aunque no aparezca registrado en el DiFHA, creemos que el fraseologismo la tercera es la vencida, que existe en España con idéntica acepción pero con leves variantes formales (a la tercera va la vencida), debe-ría formar parte de nuestro corpus. La expresión es de tono optimista y asegura que, luego de haber fracasado en dos intentos, la próxima vez se logrará lo propuesto, por lo que se exhorta a la persona a perseverar en su esfuerzo. Cuarto El ordinal cuarto aparece en la locución verbal llegar cuarto y pegando, referida a un caballo cuando en una carrera ‘llega en cuarto lugar y gracias al castigo que le propinó el jockey’. Con el femenino cuarta se registraron diversas expresiones fijas empleadas en las zonas rurales: andar de la cuarta al pértigo para significar ‘vivir sin reposo debido a la escasez de dinero para cubrir las necesidades básicas’ y su variante tener de la cuarta al pértigo, ‘tener a alguien de aquí para allá, fastidiar o acosar’; aparecen además arrimar una cuarta para inferir ‘hacer un favor’, poner cuarta ‘poner ayuda, es-fuerzo o compañía’ y la expresión pluriverbal se enredó en las cuartas, es decir, ‘se confundió’ o también ‘se complicó la situación’. Cabe destacar que esta última se refiere a las ‘riendas o sogas usadas para desatascar un vehículo, que se ataban a la cincha de un caballo, para cuartear’. Con la voz lunfarda gil ‘imbécil, tonto, infeliz’ aparece registrado el fraseologismo gil de cuarta, con un sentido extremadamente despectivo, referido a una persona tonta y de muy baja categoría: la cuarta. Nuevamente nos encontramos frente al empleo de un cuantificador, en este caso el ordinal fe-menino cuarta, para expresar una cantidad aproximada: “poco”. Nos referimos, en particular, a las ex-presiones fijas empleadas cotidianamente en Argentina ser de cuarta, que tiene una valencia adjetival con el significado de ‘poco valor o estima’ y a la misma expresión, pero con valencia verbal ‘ser de poca ca-tegoría, despreciable’. Quinto Como ordinal, quinto aparece en pocas UFS. Las halladas en nuestro corpus son la locución adverbial en los quintos apurados y su sinónimo en los quintos infiernos para indicar un ‘lugar muy lejano o remoto’, ser la quinta rueda del carro, referida a una persona para dar a entender que ‘no es necesaria’ y, por último, man-darlo a la Quinta, es decir, ‘enviarlo preso a la penitenciaría’.18 5. Numerales múltiplos o multiplicativos Los numerales múltiplos expresan el número de veces que se da o se repite cierta cosa, esto es, expre-san una multiplicación. Doble/doblete De todos los números múltiplos, el único que aparece registrado en nuestra base de datos es doble.

17 Para profundizar sobre la metáfora como importante mecanismo de idiomatización representada en el grupo de los soma-tismos del español de Argentina, remitimos al IV capítulo de Sciutto (2006). 18 La penitenciaría quinta, estuvo situada hasta su demolición en 1965, en la ciudad de Buenos Aires, en el actual parque Las Heras, entre Salgado y Coronel Díaz.

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En el lenguaje rural, dar doble a sencillo, es decir, ‘pagar doblado, uno de los jugadores, el importe de la apuesta y, el otro jugador, sencillo’.

En el lenguaje hípico, se emplea ganar en doblete, referido a un jokey o a una caballeriza, ‘ganar dos carreras el mismo día’. Permaneciendo en ámbito ecuestre, registramos también perder con caballo do-ble, ‘perder a pesar de ser muy superior a sus contrarios’. 6. Numerales partitivos o fraccionarios Son aquellos que expresan cantidades a partir de las fracciones o partes en que se divide una unidad; en algunos casos se nombran igual que los ordinales, como en el caso de cuarto, y es por eso que se pueden prestar a confusión. Cuarto Con el numeral partitivo cuarto citamos, en primer lugar, un fraseologismo en el que aparece como componente fijo: ¡ni qué ocho cuartos!, que se usa para ‘rechazar excusas o propuestas’; pasarse el cuarto de hora, es decir, la oportunidad o la edad apropiada para realizar algo, así como también la expresión tener (alguien) su cuarto de hora referida a una ‘persona que pasa un período beneficioso en la vida o en la activi-dad laboral’. Medio En cualidad de divisor, el numeral partitivo medio es el más recurrente. Iniciamos por las estructuras que se refieren al lenguaje rural como echado al camino del medio, ‘obligado al rigor y a los sufrimientos’, echar al medio, por ‘no tener en cuenta a otra persona en un reparto en el que tenía derecho a participar’, hacer mediodía, con el significado de detenerse un campesino que viaja al pueblo en algún lugar a lo largo del camino, para ‘saludar a los conocidos y, generalmente, almorzar con ellos’. Otros fraseologismos muy comunes en el campo son no andar con medios días si hay días enteros, es decir, ‘obrar con franqueza, claro, no ocultar propósitos o intenciones’, no cambiar de caballo en medio del río, para expresar que hay que ‘continuar con una empresa peligrosa cuando cualquier rectificación po-dría acarrear consecuencias graves’, rajarse (alguien) medio a medio, referido a una persona, ‘errar, equivo-carse’ y toparse con el horcón del medio, ‘tener que enfrentar dificultades mucho mayores que las previstas o imaginadas’. Hallamos medio en locuciones pertenecientes al lenguaje hípico como a medio correr, en una carre-ra, ‘a media velocidad’, la expresión fija agarrar para el lado del medio, es decir, ‘huir, disparar’ y la que se utiliza para referirse a la ropa ‘que se lleva en días templados’, a saber, de medio tiempo o de media estación, ganar por medio tiro derecho o ‘por mucho margen’. Para referir que una persona no tiene dinero, se usan en Argentina las siguientes variantes fra-seológicas: no tener ni medio, estar partido al/por el medio y la expresión lunfarda ni diome, vesre de “medio”, es decir, nada en absoluto. De acepción vulgar registramos medio polvo, ‘petiso’. Polvo indica eyaculación y alude a que ésta no ha sido completa para generar una persona de altura normal. Con el significado de equivocarse mucho o “errar feo” se emplea la locución errar de medio a me-dio. Saber un kilo y medio es una frase que se aplica a ‘tener amplios conocimientos sobre un tema o una materia determinados’. Esta expresión es sinónima de otras UFS cuantificadoras ya mencionadas como saber un kilo/un camión/toco/vagón. En el lenguaje coloquial ser el jamón del medio, se comporta de manera ambigua: si se refiere al ja-món que está dentro de un sándwich, significa estar ‘ubicado entre dos personas o a mitad de camino entre dos posturas, dos opciones, dos ideas contrarias’; si se refiere en cambio al pernil, el significado equivale a ‘ser algo de excelente calidad’, tirar al medio, es ‘perjudicar a alguien, desplazar o reemplazar a alguien y en el lenguaje hípico, ocultar (a quien tiene derecho a saberlo) el dato de un caballo’, tomar la calle del medio, por ‘salir de casa y no volver más, o volver muy tarde’.

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Con el partitivo femenino media, concernientes a la hípica tenemos: a media rienda, es decir, me-diana velocidad, atropellar por media cancha, cuando un caballo ‘arremete por el centro de la pista’, las va-riantes avanzar/correr/ganar a media cancha, con el mismo significado y, por último, cuando un caballo ‘ca-rece de aptitudes’, se emplea ser de media carrera. Por lo que se refiere a la fraseología campestre, recogimos dar/pegar la media vuelta, es decir, ‘pa-sarse con el adversario, cambiar de partido, traicionar’, dejarlo de vuelta y media, por ‘ponerlo a alguien en su lugar’ o “pararle el carro” como se suele decir también y llevar la media arroba, con el significado de ‘llevar mucha ventaja’. Coloquialmente podemos mencionar la expresión como susto a media noche, aludiendo a la fealdad de una persona y la locución de media agua, referida a un techo, de una sola vertiente. Del lenguaje futbolístico de Argentina con media citamos: gol de media cancha, hacer un gol de media cancha y ser (algo) un gol de media cancha, para significar ‘acierto notable, triunfo glorioso’. 7. Conclusiones Las unidades fraseológicas son estructuras lingüísticas que surgen a partir de manifestaciones espontá-neas de una comunidad de habla, no se confeccionan ni se arman, sino que alguna persona las enunció por primera vez y gradualmente comenzaron a prosperar, apropiándose de los elementos cotidianos, de lo que ven los ojos y siente el cuerpo. Resulta significativo remarcar que en este proceso ocupan un lu-gar preponderante los recursos lingüísticos, las metáforas y la construcción de las imágenes, donde ha-bita el imaginario cultural colectivo. Así lo demuestran cantidades de frases recurrentes en toda la Ar-gentina que hacen referencia al campo, al gaucho y a sus tradiciones, al ámbito de la hípica, al lunfardo, a la inmigración, al fútbol y al tango; en definitiva, a su idiosincrasia. Desde un punto de vista cuantitativo las expresiones fijas que incluyen entre sus componentes un numeral son abundantes, precisamente 930 UFS. Sobresalen, en particular, los cardinales uno (con 720 UFS registradas), dos, cuatro y los ordinales primero y cuarto, es decir, los primeros de la escala numé-rica. Los menos representados resultaron ser los múltiplos y los fraccionarios mientras que no aparecen asentados en nuestro corpus los numerales colectivos. Desde un punto de vista semántico, hemos podido confirmar que las UFS cuantitativas no de-notan siempre una cantidad definida (Bazzanella 2011); las encontramos en repetidas ocasiones con va-lor aproximado expresando cualidad o calidad (estar diez puntos). Otras veces, reflejan cantidades relativas y no siempre tienen relación directa con el valor numérico sino que, dependiendo del contexto comuni-cativo, pueden hacer referencia a una cantidad mayor o menor (cuatro pelos locos). Las expresiones enfáticas también ocupan un lugar importante en nuestro trabajo (una bocha), así como también las que adquieren un valor elativo o hiperbólico (guardar bajo siete llaves, a las mil quinientas). Hay que añadir que, en ciertas ocasiones, pueden llegar a conformarse con la concurrencia de dos o más numerales (a dos por tres). El presente trabajo no pretende ser exhaustivo, al contrario, abre camino a nuevas posibilidades de análisis referidas a los cuantificadores, sobre todo, desde un punto de vista semasiológico. Bibliografía Academia Argentina de Letras. 2003. Diccionario del habla de los argentinos. Buenos Aires: Espasa. Alarcos Llorach, Emilio. 1968. «Un», el número y los indefinidos. En Estudios de gramática funcional de español. 3ª ed.

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Word as a stratification of formats

Raffaele Simone Abstract The paper proposes to view word in terms of a stratification of formats of different nature, partially interacting with each other. A Format in general is an abstract layout of properties, characterizing not a single word but en-tire classes of words. The proposed formats include the Entry Format, the Morphological, Phonological, Seman-tic and Graphematic ones. Entry Format and Semantic Format are discussed in detail, with examples from vari-ous languages. The paper shows how the notion of format may be of use in descriptive as well as typological analysis and also as a solution to leftover problems, like the one of ‘impossible words’. KEYWORDS: word • parts of speech • lexicology • language format 1. Recurring problems in linguistics One of the core epistemological features of linguistics as a discipline is the fact that various of its prob-lems resurface every now and then, even when they seem to have arrived at a generally satisfying solu-tion. This is not a marginal detail since it derives from an inherent property of the discipline. In a pre-vious paper (Simone 2001) I suggested to explain it in terms of the fact that linguistics, in spite of its time-honoured aspiration to be ‘empirical’ and ‘scientific’, is properly a ‘philosophical’ matter (even if its practitioners are seldom philosophers stricto sensu) and it is bound accordingly to face with recurring problems over and over again -- exactly like philosophy. The aim of this paper, however, is not to raise this issue once again, but, more specifically, to resume one of such recurring problems and to propose one more interpretation for it. The problem is no small feat, however: it is about “What is a word?”, a question that has taken various forms and dec-linations over time and that, in spite of the appearances, seems not to have found an acceptably stable answer so far (Ramat 2005, 2016). The case for ‘word’ has been reopened, on the other hand, by the re-cent robust revival of interest towards lexicon, lexicology, and lexical information, and, as an unavoida-ble consequence, towards its core notion, namely word (a survey in Jezek 2016). In this paper I shall decline the answer to the above issue under a slightly different form. I shall not ask “What is a word?” or, to put it otherwise, “How can we define ‘word’?”, but rather “What is a word made of?” I shall claim that it consists of a stratification of ‘formats’ (the core notion of the pa-per) of various nature, interacting with each other in several ways. After presenting and articulating this interpretation I shall say something more in detail on two of such formats, i.e., the Entry Format and the Semantic Format. 2. Which formats stratify in a word The term format has to be understood in its general sense, as a layout of elements and categories that tend to occur together according to a certain pattern. A clear instantiation of such concepts is offered by morphology. The Arabic word, for instance, is typically formed by two discontinuous morphs, a vo-calic and a consonantal one, the former conveying the grammatical information, the latter the lexical one: both interlace according to specific formats. For instance, the meaning of NOUN OF AGENT has to meet the following constraints in order to get expression:

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(1) NOUN OF AGENT: C1- ā - C2 - i - C3 (1) reads: the meaning NOUN OF AGENT manifests itself as a sequence of the consonants (the Lexical consonantal morphs 1, 2 and 3) with the insertion, in the indicated positions, of the grammatical vowel morphs ā and i, in this order. This format cannot undergo any variation if one wants to get the meaning of NOUN OF AGENT. (2) instantiates such a format with an actual word:

(2) kātib ‘one who writes → writer’ The basic idea of this paper is that a set of formats of diverse nature concur to form a word, and, more in general, that any word results from a peculiar stratification of such formats. The list of such formats is supposed to include the following (the order of presentation is irrelevant; illustrations after some items):

(3) ENTRY FORMAT: it is the surface phrase structure of the lexical entry. It can be mono-word (as in cat) or multi-word (as in put down, to take for granted, etc., Fr. mise en marche, mettre en marche, etc., It. fare la fila, gatto a nove code, Sp. ama de casa, darse cuenta, etc.).

Entry Formats may be entirely or partially filled: see It. mettere a repentaglio ‘to jeopardize’ e messa in____ [moto, piega, marcia, etc.] ‘starting, blow-out, starting up’1 (Piunno forthcoming). In the former case, each component of the phrase is on site and well defined, and none can be modified. In the latter case, a portion of the format can be filled in by several alternative items and the entry filling in the empty case may undergo semantic constraints. Some of such formats are productive as the empty part may be filled in by further forms in addition to the known ones. In both cases, the multiword entry has a multiplicity of formats (Masini 2012)2:

(4) Some formats of Italian multiword entries a. N + N: porta finestra b. N di N: [lingua] [di gatto] c. N + SPrep: [gatto] [a nove code] d. AGG + AGGINTENS: stanco morto

(5) MORPHOLOGICAL FORMAT: the internal morphological structure of the word, be it

simple (i.e., composed by one element) or complex (more than one element):

a. SIMPLE: dog, cat, go, etc. b. COMPLEX: It. bell-ezz-a ‘beauty’

(6) PHONOLOGICAL FORMAT: the set of phonological properties of word (nature and suc-cession of phonemes, syllables, stress position, juncture features, etc.).

(7) SEMANTIC FORMAT: the matrix of features associated with a class of words, particularly

significant in major word classes (nouns, verbs, adjectives, adverbs: e.g., nouns of agent, nouns of result, meteorological verbs, psychological verbs, adjectives of relationship, etc.).

1 The English translation does not make clear the phrasal nature of the Italian examples: the first elements of them are messa in, a deverbal noun (from mettere ‘to put’) meaning more or less ‘putting into’; the final part is the variable noun discussed above. It is interesting to note that messa in that sense cannot occur in isolation. 2 The discussion of the following examples deliberately ignore the obvious differences they imply and omits any type of morphological detail.

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(8) GRAPHEMIC FORMAT: in written languages, the set of the privileges of occurrence of

each grapheme (whichever its nature, alphabetic or not) in relationship to the others.

For instance, in various alphabetic languages, <h> cannot occur in any position but only in some ones. In Italian, for instance, after <c>, <g>; in initial position, just before the vowel signs <a> (e.g., <ha, hanno>), <o> (<ho>). Final position is admitted just in exclamations and similar: <oh, ah, eh…>. Within the word, it can occur just in few isolated cases (e.g., toponyms like Rho). Linguistics has acknowledged the above formats according to the diverse traditions of investi-gation. Morphological format, for instance, is relatively well-known. From a certain point of view, in-deed, the morphological investigation carried out over the last decades concentrates exactly on the vari-ety and nature of the Morphological Formats admissible in languages.3 Likewise, Phonological Format is the sound pattern of words, a classical topic of phonology, whichever be its theoretical direction. Phonology, when investigating the phonological structure of the word, actually describes the possible vs. impossible word forms in those languages.4 3. Interaction of formats

It is also known that formats interact with each other and that the extent to which this interaction takes place may be of use as a typological criterion. A clear example of this is offered by those languages where the Morphological Format makes evident the Semantic Format to some extent, and, vice versa, those in which, given a certain Semantic Format, the Morphological Format encoding it can be inferred relatively easily. In Arabic, for instance, the Morphological Format is notoriously codified under a restricted number of ‘forms’ (the traditional term of Arabic grammar), each conveying a specific grammatical meaning, as mentioned above. The Morphological Format in (9)

(9) C1 – a - C2 - a - C3 - a (where vowels are constant while consonants are represented by the triliteral roots typical of this lan-guage) bears a stable grammatical meaning, namely, ‘3SING IMPERFECTIVE’. More expressively, the pat-tern

(10) ma - C1 - C2 – a - C3 - a encodes the Semantic Format PLACE/SITE WHERE THE PROCESS INDICATED BY C1-C2-C3 TAKES PLACE. Given for instance

(11) d-r-s ‘to learn, to apprehend’

ma-d-r-a-s-a will mean ‘PLACE WHERE learning TAKES PLACE, PLACE THAT HAS SOMETHING TO DO with learning → school’. In such cases the format of one type says something about that of another type, with a certain degree of bidirectionality. Accordingly, if one has to encode the Semantic Format PLACE WHERE____TAKES PLACE an already shaped Morphological Format is available in the language. The other way round, if one is exposed to a Morphological and Phonological format like madrasa one can plausibly infer that it refers to a PLACE where something having to do with d-r-s (namely, with learning) 3 Grossmann & Rainer (2004) is an excellent collection of studies, many of which about subjects close to, or coinciding with, the notion of Morphological Format. 4 For Italian see for instance Basbøll (1974), Bafile (2011). An overall survey in Hall (1999).

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may take place. It goes without saying that the correspondence between formats is by no means rigid, mechanical and univocal. It is indeed a fuzzy one. In other terms, the semantics conveyed by a certain Morphological Format only contains a generic reference to a determinate sphere of meaning. Moreover, the Morphological Format of a word cannot capture all the features of the Semantic Format, but it only selects some. For instance, if we decompose the concept of ‘library’ into its inten-sional features we get something like (12):

(12) a physical place1 (usually covered and closed) where books2 and manuscripts3 (even nu-merous) are orderly4 conserved5 and made accessible6 to people7 for reading8

The underlined and numbered features are supposedly likely to be picked out and encoded into ele-ments of the Morphological Format.5 Interestingly different languages select different elements out of this conceptual structure and encode them morphologically. The following examples show which fea-tures are selected in some languages to be morphologically encoded. Figures refer to the numbers of the features identified in (12):

(13) Ancient Greek: 2-5 biblio-thekē book-container

(14) Chinese: 4-2-1 tú-shū guǎn map-book house

(15) Arabic: 1-3 ma-kt-a-b-a LOC-writing (with the appropriate vowels a-a in the relevant positions)

In other terms, in Ancient Greek a ‘library’ is a ‘container for books’, in Chinese a ‘house for maps and books’, in Arabic ‘a place for writing’ or ‘a place for written things’. The fact that each of the above languages selects its own solutions eloquently shows that the correspondence between formats can float relatively freely from one item to the others. Interestingly, no language among the ones considered selects seemingly significant components like 5 (conservation), 6 (accessibility), 7 (readers), and 8 (reading). 4. Impossible words The notion of format seems to have some heuristic fertility also in connection with other issues. For instance, it seems to be able to give a response to the puzzling issue of ‘impossible words’, i.e. to ques-tions like “Is the word X possible in a language or not?”6 Fodor & Lepore (1999) raised it as a question of theoretical linguistics some years ago, but it is hardly a bare theoretical issue. Also the common speaker asks it frequently, above all when confronted with a word s/he never heard of before: “Is the word X possible in my language or not?” or, even more frequently: “Does the word X exist in my lan-guage?” One of the cases at issue was the following one: if English is a conversion language, how is that in (16) cow is possible as a noun whereas it is not as a verb (17)?

(16) A cow had a calf (17) *It cowed a calf

5 Various details of the argument are omitted here. For an ampler discussion, Simone (in prep.). 6 Much debated some years ago: in addition to the papers quoted in the text above, see Johnson (2004).

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As a result of the debate, the reason is supposed to be syntactic: A subject cannot incorporate into the verb that heads its predicate (Hale & Keyser 1999). For the same reason in Italian we can have (18) but not (19):

(18) La madre ha avuto un figlio ‘The mother had a son.’ (19) *Essa ha madrato un figlio ‘She *mothered a son.’

In our terms, a word is impossible in a language if it does not comply with all the formats stored in the system of that language. In (19) madrare complies with the Morphological and the Phonological For-mats of the language, but no Semantic Format is available to comply with. The latter statement has to be taken with caution, however. Even if madrare is neither available nor easily intelligible, that Semantic Format is quite active in other Italian words:

(20) il capo guida la rivolta → lui capeggia la rivolta ‘the head leads the uprising’ → ‘he heads the uprising’

(21) il capitano guida l’assalto → lui capitana l’assalto ‘the captain leads the assault’ → ‘he captains the assault’

As a consequence, madrare is not strictly impossible, but just unlikely in that language. Consider fur-thermore the following case, taken from a newspaper interview:

(22) Pensa al macchiamento della mia reputazione. think to_the staining of_the my reputation ‘Think of the sullying of my reputation.’

Here, macchiamento is an unusual word, recorded in no dictionary, sounding odd to speakers of Italian and likely not to be accepted by cultivated and linguistically discerning people. Nevertheless, it is easily comprehensible as a nominalization (from macchiare ‘to stain’) with a passive diathesis.7 Accordingly, it is interpreted in the following sense:

(23) macchiamento della mia reputazione = the fact that my reputation is stained [by someone]

The fact that it is not an actual item of Italian vocabulary does not prevent it from being possible and understandable. In fact, macchiamento is a possible word as it respects all the formats of Italian: phono-logically and morphologically in order, it also complies with the Semantic Format of NOUN OF PROCESS with an argumental structure as in:

(24) PROCESS BY WHICH X CHANGES THE STATE OF Y: il macchiamento di yOBJ da parte di xAGENT It is obvious that the compliance with the formats available in the language is a necessary but not suffi-cient criterion for describing a word as ‘possible’. Other features also are involved: for instance, what Tomasello (2003: 178ff.) calls entrenchment, i.e., the existence in the language of other words that comply with the same constraints and accordingly constitute a productive exemplar for further items. In the

7 On these aspects of nominalizations, see Simone (2000) and Simone & Insacco (submitted).

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case of smacchiamento, this item is more likely since numerous items in Italian vocabulary comply with the same formats:

(25) allontanamento, avvicinamento, prelevamento… ‘removal, approach, picking-up…’

This corroborates the old Sapir’s assumption to the effect that “there is not, as a rule, the slightest diffi-culty in bringing the word to consciousness as a psychological reality”8 (Sapir 1921: 33ff); or, in our terms, of the formats that stratify in a word. On the basis of the above argument, we can propose a gradatum of lexical items in terms of their possibility:

(26) A gradatum of words in terms of possibility

Status Conditions Examples

Real Words Comply with all the formats of the language and, in addition, are licensed by exemplars more or less richly instantiated

English cow ‘kind of mammal’

Possible Words

Though non recorded, comply with all the for-mats of the language and, in addition, are licensed by exemplars more or less richly instantiated

It. macchiamento

Probable Words

Non recorded, comply with some of the formats of the language but do not exist in the language or are unacceptable by speakers

English to cow

Impossible Words

Do not comply with several (or not one) formats of the language)

English *wco (whichever its meaning, it doesn’t meet the Phonological Formats of the language

5. Entry Format

Since Phonological and Morphological Formats are already acquired in linguistics, although with a dif-ferent dubbing, let’s say something more about the other notions, the Entry and the Semantic Format. It is well known that word cannot be identified as the mere sequence of segments between two blanks or something like this (Ramat 2005, 2016; Simone 2014). Actually there was no need for a Con-struction Grammar to unveil that plenty of words (if not most of them) are not formed by one item but by combinations, even complex, of a variable number of words. Suffice it to mention English phrasal verbs and their analogous in various languages9 to get instances of the fact that lexical entries may be formed by more-than-one-word and that the variety of Entry Formats in the lexicon of any language is vast. A repertoire of Entry Formats across languages could be a major tool for typological and lexi-cological research but, in spite of its obvious significance, neither typology nor lexicology seem to have been concerned with such a work so far. We can only rely on partial if not piecemeal explorations, while an overall picture is still needed.10 A promising step forward in this field is the research carried

8 Here is a more extended quotation: “Linguistic experience, both as expressed in standardized, written form and as tested in daily usage, indicates overwhelmingly that there is not, as a rule, the slightest difficulty in bringing the word to consciousness as a psychological reality” ( Sapir 1921: 33). As regards other forms of ‘psychological reality’, see Sapir (1933). 9 On phrasal verbs in various languages and dialects, see Cini (2008). A general perspective in Simone (1997, 2008). 10 Luque Durán (2005), even if concerned with more general issues, tries to give some responses to such typological ques-tions.

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out as the core part of a joint project focussed precisely on word combinations in Italian.11 This project has devised a specific methodology and computational tools to explore a large Italian corpus in search of a list of formats composed of combination of words as rich as possible (Simone & Piunno, forth-coming). The results we arrived at are promising and challenging as they show that the very notion of Lexical Entry we have used so far is terribly generic and unreliable. Omitting numerous technical details of our investigation, what is worthwhile in the present connection is that a plenty of unquestionably distinct Entry Formats came out that raise the problem of understanding which they are and what their components do say. The formats we found out include the following ones. I list them with some comments added. 5.2 Favourite word combinations This is how we call those combinations that do form neither collocations nor combinations proper, but tend to be mere highly frequent co-occurrences of elements in the corpus:

(27) attendere impazientemente, bella donna, momento opportuno, triste bilancio (di un in-

cidente) ‘to wait impatiently, beautiful woman, right time, tragic toll (of an accident)’

The elements of such combinations do not form lexical entries but are likely to cooccur in context. As a consequence the resulting combinations can be considered as chunks of the lexical competence by speakers. It is quaint, therefore, for them to be ignored in the studies on Italian and, as a consequence, to lack in Italian lexicography.12 5.3 Combinations forming lexical entries They form an ample subset as they include at least the following items, several of which demand an in-depth investigation:

(28) Verbs

a. multiword verbs, with various subclasses mandare in onda, credere opportuno, risultare facile ‘(to) air, consider as right/see fit, be easy’

b. phrasal verb buttare giù, tirare su, venire via ‘tear down, pull up, come away (/off)’ c. verbs with a prepositional phrase andare in bestia, dare alla luce, mandare in collera ‘send over the edge, give birth (to), put in a lather’ d. serial verbs, with various V1 fare sapere, fare avere, sentire dire, sapere fare

11 It was the PRIN (Research Project of National Interest) n. 20105B3HE8 financed by the Italian Ministry of Education and University, whose team was composed of three units (Roma Tre University: Raffaele Simone, Valentina Piunno, Lunella Mereu and Anna Pompei; University of Pisa: Alessandro Lenci and Gianluca Lebani; and University of Bologna: Francesca Masini and Sara Castagnoli). The general coordination was in charge of the present author. 12 On the contrary, their Spanish equivalents are the core of an authoritative word combination dictionary of Spanish (Bosque 2004).

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‘let know’, ‘make have’ > ‘provide’, ‘hear say’ > ‘hear’, ‘be able to do’

e. aspectual phrasal verbs andare a…, stare per…, finire di…, tentare di… ‘go to, be about to do, finish …-ing, attempt at’ f. support-verbs fare attenzione, fare benzina, mettere fretta, mettere pace ‘pay attention, get gas (refuel), put a rush, bring peace’

(29) Other word classes

a. phrasal nouns punto di vista, macchina da scrivere ‘point of view, machine-to-write’ > typewriter’ b. prepP adjectives a gas, in codice, all’ultima moda, in bianco e nero ‘gas-fired, in code, in fashion, (in) black and white’

(30) PrepP adverbs

a colpo sicuro, a portata di mano, in lungo e in largo, in tutto e per tutto, di punto in bianco ‘certainly, within reach, far and wide, in every way, out of the blue’

(31) PrepP prepositions per mezzo di, alla fine di, assieme a, prima di, intorno a, riguardo a, rispetto a ‘by means of, at the end of, together with, before, around, as regards, concerning’ (32) Verbal and nominal entries containing a compulsory initial negation, i.e., where the non

negated form does not exist non pensarci più, non chiedere di meglio, non poterne più (di) ‘get over it, do not ask for more, cannot stand’

(33) More: intensifiers

stanco morto, cretino integrale, innamorato pazzo, emerito sciocco ‘dead tired, stupid integral’ > ‘dork, madly in love, complete fool’

Obviously each of the above formats is in need of a detailed description. A full analysis would give sur-prising results as one would find out that what we store in our mind as the lexicon of our language con-tains less individual words than Entry Formats and that the latter constitute a really huge and variegated list. I don’t have the space to go into details about all the types listed above. I’ll just underline the interest of partially filled formats. They include one or more empty positions. For instance, a frequent format13 has the form:

(34) colpo di [_____]

13 What follows concerning partially filled formats is substantively tributary of Piunno (forthcoming).

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where N1 (in this case colpo “hit”) is compulsory whereas the second element (the one to be inserted between brackets) has to be selected within a restricted repertoire of nouns, each meaning some type of event:

(35) a. colpo di fortuna ‘stroke of luck’ b. colpo di tosse ‘fit of coughing’

The resulting phrase is a typical Light Noun-phrase (Simone & Masini 2014): N1 has just a grammatical function as it indicates the abruptive character of the process referred to by N2. 5.4 Entry Format and word formation It is obvious that word formation tends to comply with the Entry Formats available in the language. Some examples will be sufficient to show this fact. Chinese has numerous typical Entry Formats. Among them, a typical dvandva is formed by two hyponymic words and refers to their hyperonym (Ramat 2016: 112; Arcodia, Grandi & Wälchli 2010):

(36) dāo-chiāng sword-spear

‘weapons’

(37) xī-dōng east-west ‘things coming from everywhere’ > ‘things of various nature’

Another typical Entry Format is reduplication, with a rich variety of patterns.14 One is the sheer repeti-tion, with a ‘reductive’ meaning:

(38) tǎolùn → tǎolùn tǎolùn

‘to argue’ → ‘to argue a little’

In another markedly Chinese Entry Format the elements of the dvandva refer to “the extreme poles of the scale” involved and have an abstract meaning (Arcodia, Grandi & Wälchli 2010: 186).

(39) cháng-duǎn

long-short ‘length’

(40) duō-shǎo plus-minus ‘quantity’

This mechanism is also at work for the creation of innovative Entry Formats. The relevant phenomena here are numerous. In the so-called ‘nonce-words’, i.e., created on an individual occasion and bound to fade out after, the Morphological Format is adopted in order to get the Semantic Format QUALITY OR STATE OF BEING X. Such is the case of doghood, soulhood (Gaeta & Ricca 2015). Analogously, the English

14 See Paris (2007) and in general Michaud & Morgenstern (2007).

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suffix -gate, from Watergate, has become autonomous and combines with various roots with the arbitrary novel meaning of “scandal, dirty affair (having to do with the reference of the first part)” (Ramat 2016: 110). This is also the case for the Italian -poli, which can combine with a plenty of words and roots for the same meaning: affittopoli, tangentopoli, sanitopoli ‘scandals having to do with the renting [affitto] of pub-lic buildings, bribes [tangente], public health services [sanità]’.

6. Semantic Formats

Semantic Format is an abstract layout of lexical information, or, more in particular, a predefinite matrix of features of various kinds (including meta-features) that as a whole lexicalize the semantics of a lan-guage. Some properties are relevant here. (a) Any exponent of a (major) Word Class15 is associated to some Semantic Format.

(b) The other way round, it is not true that any Semantic Format is associated with a Word Class.

Some Semantic Formats may be conceptually representable but are not associated with any: in other terms, some Semantic Format can be “thought of” but do not have a linguistic counter-part.

(c) Semantic Formats are relatively indifferent to which Word Class they associate with. As we will see shortly, a given Semantic Format can get a variety of linguistic counterparts.

(d) Some Semantic Formats have a determinate Word Class as ‘best candidate’ counterpart, howev-er: for instance, a Semantic Format as in (41) is better, although not exclusively, lexicalized as a Noun.

(41) AGENT [A human X that performs the activity Y]

(e) A Word Class may admit more than one Semantic Format and switch from one to the other

through the mechanism of co-composition (Pustejovsky 1995). A Noun like letter, for instance, may work both as in (42) and (43):

(42) I burnt this letter (letter [ARTEFACT]) (43) I read this letter (letter [MESSAGE, INFORMATION])16

(f) It is possible to apply operations to Semantic Formats.

(g) The switching of an item from a Semantic Format to others takes place according to a princi-

pled cycle and not by hazard.

(h) Cross-linguistically Semantic Formats form a closed set, possibly partially universal. It may be useful to note that a certain insight into something similar to SF pops up time and again over the history of linguistic analysis. Among the foundations of various grammatical traditions, indeed, something reminiscent of Semantic Formats recurs. In the conceptual equipment of medieval theory of grammar, for instance, there are notions as nomen rei, nomen actionis, nomen rei actae, nomen agentis etc., each 15 It has to be signalled that when speaking of Word Classes the reference will be just to the major ones (Nouns, Verbs, Adjectives) given the relatively greater simplicity of their description. 16 Examples from Pustejovsky (1995).

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of which describes a kind of Semantic Format. Although each of such notions is lexicalized as a Noun, each subclass conveys a semantics of its own and has accordingly specific syntactic properties. Arabic medieval grammar, analogously, worked out a sophisticated classification of words on semantic principles. Nouns, for instance, are distinguished on the strength of notions akin to Semantic Format: such are for instance the ‘nouns of once’ (ismu al-marrati), the masdar, the ‘nouns of units’ (ism al-wahda) and others.17 Recognizable for a specific morphological pattern, Nouns of Once denote a dot-like process, i.e. one having such an insignificant duration as to be taken as timeless:

(44) faraba ‘to hit’ → farab-at ‘(an individual) hit’ Masdar ‘source’, on the other hand, is a noun denoting an indefinite process, i.e. one which takes time and is not concluded:

(45) ‛arafa ‘to know’ → m‛arifat ‘(the process of) knowing’ (46) fakkara ‘to laugh’ → tafkīr ‘(the process of) laughing’

Theoretical constructs that have been more recently worked out – as ‘mass noun’, ‘result noun’, ‘stative verb’, ‘verb of change’, ‘psychological verb’, ‘verb of movement’, etc. – also respond to the need to cap-ture the Semantic Format underlying superficial form. Moreover, various approaches to semantics and grammar postulate different types of Nouns, Verbs, etc., distinguished on semantic principles. So are Lyons’ (1977) well-known distinction among ‘orders’ of nouniness, Dixon’s (1991) notion of ‘semantic types’ applied to Nouns, Verbs and Adjectives, and other perspectives. The constraints on Semantic Formats may be language-sensitive. The Semantic Format AGENT is prototypically lexicalized as a noun. Moreover this Semantic Format can be split into two sub-Formats, one for Agents who perform a certain action regularly or permanently (as a profession or an ac-tivity, for instance; some call it Aoristic Agent), the other for Agents who perform it just in the moment of utterance (then occasionally; some call it Descriptive Agent). It is interesting to note that some languages mark this distinction superficially; others do not. Ancient Greek belongs to the first type (Lazzeroni 1997, 2010). Here Occasional Agents are marked by the suffix –tēr (thērē-tēr “someone who chases in this specific moment”) whereas -tōr marks Permanent Agent (thērē-tōr “chaser, someone who chases as a job”):

(47) OCCASIONAL AGENT thērētēr ~ PERMANENT AGENT thērētor

Another well-known example is Jespersen’s (1924: 91; quoted by Lehmann 2013):

(48) he moved astonishingly fast (49) he astonished us by the rapidity of his movements

(48) and (49) code the same notion, with the difference that they are projected in each case onto a dif-ferent Word Class: the Semantic Format MOVING surfaces as a verb in (48) and as a noun in (49), the Semantic Format ASTONISHING as an adverb and as a verb respectively, and so on:

As for the final point, the SF KIN is encoded as a Noun in a variety of languages:

(50) Carlo è il padre di Tommaso Carlo is the father of Tommaso ‘Carlo is Tommaso’s father’

17 For details, Fleisch (1957).

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In other languages, however, the same information is lexicalized as a verb, so giving place to a structure meaning approximately “Carlo fathers Tommaso”. A known example of this kind is Dyirbal where “al-most all nouns are CONCRETE [in our terms, the SF CONCRETE lexicalizes mostly as a Noun]. Dyirbal has an ample supply of words dealing with states, properties, activities and speech acts, but they all be-long to the Verb and Adjective classes” (Dixon 1991: 77). 7. Conclusions

It is not possible here to go more in details regarding the ways how formats interact and the heuristic fecundity of the very notion Format. For the time being it will be sufficient to have illustrated this con-cept and shown with examples some capital facts. In particular the notion Format seems to be able (a) to shed some light on the issue of ‛impossible’ words, suggesting that speakers do have a certain aware-ness of them as abstract mental exemplars controlling the shape of words; (b) to make clear the inter-linking of morphological and semantic information; (c) to contribute to explain the formation of new words. Furthermore Entry and Semantic Formats prove to be useful tools for describing lexical infor-mation and its semantic counterparts. References Arcodia, Giorgio & Grandi, Nicola & Wälchli, Bernhard. 2010. Coordination in compounding. In Scalise, Sergio

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On the polysemy of Italian spatial prepositions

Francesco Alessio Ursini

Abstract

The goal of this paper is to offer an account of the polysemy of Italian spatial prepositions (e.g. a, di fronte, verso). It is shown that the several possible senses of these lexical items can be disambiguated in a phrasal context, a fact crucially hinging on the properties of prepositions as denoting sets of distinct but relations over locations. The account also suggests that an architecture of grammar in which morpho-syntactic structures inform other com-ponents of language (here, semantics) such as Distributed Morphology is better suited to handle polysemy data than syntax-free frameworks (e.g. Cognitive Linguistics). KEYWORDS: prepositions • polysemy • Distributed Morphology • Italian

1. Introduction Theories of language differ considerably with respect to how they analyse polysemy, defined as the prop-erty of a lexical item to have several distinct but related senses in a syntactic context (Riemer 2005, 2010: ch. 5). Polysemy, in turn, is conceptually contiguous to underspecification, defined as the property of an item also including a general sense in a syntactic context (cf. Pustejovsky 1998; Kearns 2006).1 Theo-ries differ on how they delimit and account for the patterns corresponding to these properties. Polyse-my is often tested via the so-called ‘definitional test’, which works as follows. If a lexical item α is poly-semous, then a set A of senses/glosses will be necessary to account for the meanings attested in a cor-pus of sentences and the syntactic contexts they offer. Works within Metaphor theory, Corpus Linguis-tics, Cognitive Linguistics and formal semantics use this test for testing polysemy (respectively Brug-mann 1988; Geeraerts 1993; Evans 2009; Pustejovsky 2013). Polysemy has been studied in lexical categories (nouns, verbs, adjectives), but studies on Spatial Prepositions (henceforth SPs) present a still incomplete picture. The status of this category as a lexical or functional category is controversial (cf. Svenonius 2010: 169-170). However, the polysemy of SPs is cross-linguistically well-attested (cf. English: Brugmann 1988; Dutch: Zwarts 2004; French: Vandeloise 2010). Interestingly, the polysemy of Italian SPs (henceforth ISPs) is still understudied, except for a few works based on the definitional test (e.g. Luraghi 2009, 2011). However, a problem with the definitional test is that it can be used to test both polysemy and underspecification, since it only individuates dis-tinct senses. The existence of a general sense is not easily detected, and may be erroneously included among those detected via this test (Kearns 2006: 561-562). A set of related tests generally falling under the ‘logical test’ rubric provide more accurate evi-dence for polysemy. In this paper, we concentrate on one sub-type known as the so-called ‘coordina-tion test’. When a lexical item is part of a coordinated phrase and it can receive two distinct senses, one for each conjunct, then it is polysemous. For instance, play the piano and football involves the polysemy of the verb play denoting two distinct types of actions (Kearns 2006: 562-563). Similarly, playing darts but not playing Hamlet involves two tokens of play with two distinct senses. Crucially, the two readings need to be zeugmatic: no general or single reading can be assigned to the lexical item, lest the sentence be unin-terpretable. Since play is arguably associated to two distinct, non-overlapping senses when combining with each argument, it is polysemous in these syntactic contexts. In order to explain how this and the definitional test apply to ISPs, consider (1)–(3):

1Vagueness is a semantic dimension orthogonal to polysemy and underspecification (cf. Kearns 2006: 561; Kennedy 2007), defined when a lexical item denotes a context-sensitive property (e.g. the adjective expensive). We do not discuss its role for ISPs for reasons of space. See Zwarts & Winter (2000: 174) for discussion on SPs and vagueness, and see Ursini & Giannel-la (2016) for a more through discussion on these notions.

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(1) Marco si siede/va a-l tavolo Marco SELF sits/goes A-the/to-the table ‘Marco sits at the table’ (2) Marco si siede di fronte a-l tavolo Marco SELF sits DI front A-the table ‘Marco sits in front of the table’ (3) I bambini vanno a-llo spiazzo ed a-l rifugio The children go A-the esplanade and A-the refuge ‘The children go to the esplanade and into the refuge’

Before we discuss the examples, we make precise three notions. First, the complement DP2 of an ISP denotes the landmark object or ground of the spatial relation that the ISP denotes. The DP denoting the located entity is known as the figure, instead (Talmy 2000: ch. 1). Second, we define a reading as the com-positional sense of a phrase, after it combines with its arguments (Evans 2009; Ursini 2015b, 2016). SPs have senses, SPPs have readings. Third, we gloss each polysemous ISP by using capital letters (e.g. ‘A’ for a) for its (alleged) multiple senses.3 Consider now (1). The ISP a can combine with either a locative verb (siede ‘sits’), denoting the lo-cation of a non-moving figure, or with directional va ‘goes’. Locative/static verbs select a locative reading in the ISPP they combine with, while directional/dynamic verbs select a directional reading (Zwarts 2005). Thus, siede selects the locative sense of a; va ‘goes’ its directional sense. The same holds for di fronte a in (2). The status of ISPs as being ‘ambiguous’ with respect to this alternation is well-known, as Italian has been suggested to be a ‘verb-framed’ language (cf. Talmy 2000: ch. 4; Folli 2002). Even if based on the definitional test, these examples show that distinct ISPs (a, di fronte a) involve one pattern of polysemy. A general sense for ‘direction’ and ‘motion’, given their antonym-like nature, cannot be defined, so underspecification is ruled out. Consider now (3). The two coordinated ISPPs, allo spiazzo and al rifugio, seem to have two par-tially distinct senses. The sentence describes a scenario in which some children reach an esplanade near a (mountain) refuge. They go inside the refuge, and outside the esplanade, since the esplanade (i.e. an open, unbounded place) cannot act as a location ‘including’ the children Thus, a in (3) has two partially distinct senses, one for each conjunct. Since a cannot have a general sense including internal and exter-nal locations, it displays a second, ‘spatial’ layer of polysemy. A precis on our use of this test is necessary, before we continue. The coordination test applies to heads that can also take conjoined arguments. One example would be I bambini siedono ai tavoli e banconi ‘the children sit at the tables and bars’. However, some works on polysemy consider the use of struc-tures such as (3), involving two tokens of the same item, not to be crucial proof for polysemy. This is the case, since the two distinct senses do not surface within the span of a single phrase, in this case a single ISPP (cf. Riemer 2010: ch. 5 for discussion). However, this and other related works do not study the syntactic structures involved in polysemy patterns, nor they assess the relation between polysemy and underspecification. Thus, the status of SPs as polysemous lexical items is still debatable, with ISPs providing a particularly neglected set of data, as (1)–(3) show. The goal of this paper is to solve this problem by offering a syntactic analysis of ISP(P)s in co-ordinated phrases, thus capturing the scope and coordination of their distinct readings. The paper is thus organized as follows. Section 2 offers a broader overview of the data and previous accounts. Sec-tion 3 offers a syntactic analysis based on a Distributed Morphology architecture, and a Type-Logical Syntax derivational account. Section 4 offers a semantic analysis based on Situation Semantics with a rich type system (Kratzer 2007; Asher 2011). Section 5 concludes. 2 We use the label ‘DP’ for mere expository reasons, since our examples include ground NPs. 3 Note that a also fuses with the definite article il to form the preposizione articolata al (Rizzi 1988: 496–497)

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2. The Data 2.1 The Data: an Overview of the Polysemy of ISPs ISPs can be divided into simple and complex ISPs. Simple ISPs or preposizioni primarie ‘primary preposi-tions’ are usually described as mono-morphemic syntactic heads that must take a complement DP to form an ISPP (Rizzi 1988: 498). Complex ISPs or preposizioni avverbiali ‘adverbial prepositions’ (Rizzi 1988: 498) involve the combination of two or more morphemes into a single lexical unit, and can un-dergo ellipsis of the complement DP (argument demotion: Merchant 2001: ch. 2). Simple ISPs can be part of complex ISPs (e.g. a in (2)). They also include ‘Axial’ nouns in a prepositional context, labelled Ax-part Ps (e.g. fronte in (2): Pantcheva 2008). Simple ISPs, either as heads or ‘segments’ of complex ISPs, conflate with the definite article of a ground DP when present, except for tra/fra and per.4 Consider (4) – (6):

(4) Mario è a-l bancone Mario is A-the counter ‘Mario is at the counter’ (5) *Mario è a(-l bancone) Mario is A(-the counter) ‘Mario is at the counter’ (6) Luigi va di fronte al bancone. Mario va dietro (al bancone) Luigi goes of front A-the counter. Mario goes behind (A-the counter) ‘Luigi is in front of the counter. Mario is behind’

(4) – (5) show that simple ISPs require a ground DP, otherwise a sentence is ungrammatical. Complex ISPs, though, undergo demotion, viz. (6). The ‘rightward’ simple ISP is elided with the ground DP, leaving an Axpart P and the ‘leftward’ simple ISP to form an elided ISPP. A list of simple and complex ISPs is offered in (7)–(8), respectively:

(7) Simple ISPs={a ‘at/to’, da ‘from’, di ‘of’, in ‘in/into’, per ‘through, within’, tra/fra

‘between’, su ‘on/to’} (8) Complex ISPs={accanto ‘beside’, davanti ‘ahead of’, attraverso ‘through’, dentro ‘inside’, dietro

‘behind’, verso ‘towards’, di fronte a ‘in front of’, a destra di ‘to he right of’, sopra (a) ‘above’, in cima a ‘on top of’, nel mezzo di ‘in the middle of’…}

The list in (7) does not include lexical items su and giú (contra Rizzi 1988). This is the case, as these ISPs seem to have a distribution closer to particles (e.g. up, down in English, cf. Svenonius 2010), since they be part of phraseological verbs. Evidence for this fact is that they can undergo ellipsis (e.g. Mario mette giú (la racchetta) ‘Mario puts down the racket’). Furthermore, the list in (8) does not include all the lexical items that belong to this category. The list includes complex ISPs that must distribute with a as its rightward simple ISP (accanto, davanti), but also ISPs that can optionally do so (e.g. attraverso (a), dentro (di), dietro (a)). The list includes verso, which cannot combine with simple ISPs, and ‘multi-morphemic’ ISPs, which can include distinct pairs of simple ISPs within their structure (e.g. di and a in di fronte a, nel and di in nel mezzo di).

4 In these syntactic contexts, Raddoppiamento Sintattico ‘syntactic doubling’ occurs, since the consonant of the right-branching constituent is lengthened (Napoli & Nevins 1987; Rizzi 1988: 497–498). Although this phenomenon suggests that P and D heads form a single unit, its role in our discussion is not crucial. See Ursini (2015a) for discussion.

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At first glance, this may appear a heterogeneous set. However, the unifying trait is that these complex ISP sub-types do combine with simple ISPs when the ground DP is a pronoun (e.g. Mario va verso di lui ‘Mario goes towards him’). This fact suggests that complex ISPs may involve silent exponents in their structure when they occur in certain syntactic contexts, as discussed in Ursini (2015a). There-fore, and for the treatment of polysemy we offer in this chapter, these three sub-types can receive the same underlying morpho-syntactic analysis. Let us now discuss the semantics of this category. Simple ISPs involve two polysemy patterns, as suggested in the introduction. The first pattern involves the locative/directional alternation (Rizzi 1988; Folli 2002; Ursini 2015a). The second pattern involves their ability to denote distinct but related locations, and is mostly unexplored, with the notable exception of Luraghi's (2009, 2011) analysis of da. The polysemy of ISPs can be discussed by focusing on simple ISPs, since complex ISPs ‘inherit’ their polysemy from simple ISPs, as it will become clear via our discussion. Since (1)–(3) offer evidence re-garding the polysemy of a, we begin our discussion from the second ISP in the list in (7), da. As Luraghi (2009, 2011) suggests, da in its spatial interpretations can describe relations involv-ing the origin of a static or moving figure. If the ground DP denotes an object conceived as having an internal part, then da can also cover the sense of English ‘out of’. However, when da takes a ground DP denoting an animate referent, it can also denote the goal or position of a figure. These patterns are shown in (9)–(12):

(9) Mario arriva da Roma/ da-lla caverna Mario arrives DA Rome/ DA-the cavern ‘Mario arrives from Rome/gets out of the cavern’ (10) I bambini arrivano da-lla grotta e da-lla spiaggia The children arrive DA-the cave and DA-the beach ‘The children arrive from the cave and from the beach’ (11) Mario è/va da Luigi Mario is/goes DA Luigi ‘Mario is at/goes to Luigi’ (12) #Mario va da Luigi e da Roma Mario goes DA Luigi and DA Rome ‘Mario goes to Luigi and from Rome’

The ground DP alternation in (9) shows that the sense of da can include movement from an internal location (i.e. the ‘inside’ of a cave), especially with verbs such as uscire ‘exit’. This holds in (10) as well: the children can be described as getting out of the cave and coming from the beach. In (11), we under-stand that Mario goes to Luigi, or rather Luigi’s location. When the ground DP denotes an ‘animate lo-cation’, the ‘goal’ sense translated via English ‘to’ is accessed. These opposite senses can be combined into a more general sense, as (12) shows (‘#’ stands for uninterpretability). Mario cannot be understood to move ‘to’ Luigi and ‘away from’ Rome. Overall, da features both layers of polysemy, as (9)–(12) show. Consider now di: as a segment in complex ISPs, it can convey spatial relations, determined by the Axpart P that distributes with this head. Furthermore, di can distribute with a DP, and without an Axpart P, when the ground DP is an indexical, viz. (13)–(16):

(13) Mario è/va di fronte a-lla macchina Mario is/goes DI front A-the car ‘Mario is/goes in front of the car’

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(14) Marco si siede/va a destra de-l tavolo Marco SELF sits/goes A right DI-the table ‘Marco sits to the right of the table’ (15) I bambini siedono di fronte a-l tavolo ed a destra The children sit DI front A-the table and A right de-l divano DI-the sofa ‘The children sit in front of the table and to the right of the sofa (16) Mario è/passa di qui Mario is/passes DI here ‘Mario is from/passes through here’

(13)–(14) show that di can head complex ISPs denoting distinct spatial relations (e.g. a figure in front or to the right of the ground). Either a locative or directional reading can emerge, depending on the verb they combine with (e.g. va ‘goes’ vs. siede ’sits’). Coordinated phrases can include distinct complex ISP(P)s that conjoin these relations, as di fronte al tavolo ed a destra del divano in (15) shows. If di distributes with indexical qui ‘here’, as in (16), then two distinct senses are accessible, based on the verb it com-bines with. With locative verbs, (e.g. è ‘is’) the origin sense is accessed. With directional verbs (e.g. passa ‘passes’) a sense akin to English ‘through’ is instead accessed. Thus, (13)–(16) confirm that di is polyse-mous. We move to in. First this ISP can alternate between a directional and a locative sense. Second, it can be used to convey inclusion relations, but also part-of relations between cities and countries’ loca-tions (cf. Rizzi 1988: 523–524). Third, in can be part of complex ISPs, one example being in cima a ‘on top of’ and nel mezzo di ‘in the middle of’. In these cases, it can be said that in contributes different sens-es from inclusion, to the respective complex ISPs. These three properties are illustrated in (17)–(19), respectively:

(17) a. I bambini dormono/vanno ne-lla caverna The children sleep/go IN-the cave b. ‘The children sleep in/go into-the cave’ c. ‘The children sleep inside/go inside-the cave’ (18) Roma è in Italia Rome is IN Italy ‘Rome is in Italy’ (19) I bambini siedono in cima a-lla collina e ne-l mezzo The children sit IN top A-the hill and IN-the middle de-l parco DI-the park ‘The children sit on top of the hill and in the middle of the park’

Note that the second, spatial polysemy pattern is also attested for in as simple ISP, viz. (17b–c). The children may go into the cave, conceived as a single location, or they may go in one part of the cave. Overall, in also displays the locative/directional alternation and a wealth of other related senses also in coordinated phrases, qua a genuinely polysemous ISP.

The next ISP is per, which can be glossed as ‘through’, since it captures a directional sense in-volving a figure traversing a ground, or moving within its ‘internal’ space. Differently from the other simple ISPs, its locative sense is limited in distribution, and involves figures distributed ‘along’ one or more grounds. These patterns are shown in (20)–(22):

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(20) Le macchine passano per la vallata The car pass PER the valley ‘The cars pass through the valley’

(21) I turisti passeggiano per la città The tourists stroll PER the city ‘The tourists stroll through the city’ (22) Le macchine sono parcheggiate per la strada The cars are parked PER the street ‘The cars are parked along the street’

Thus, per involves a weak form of polysemy, since only the directional/locative alternation, or first layer of polysemy, can be attested. Consider now the two allomorphs tra/fra, which can be glossed as ‘between’, ‘across’, ‘among/between’ or ‘within’. For simplicity, we only use fra in our examples in (23)–(25):

(23) Mario si siede/cammina fra i due gruppi di persone Mario SELF sits/walks FRA the two groups DI people ’Mario sits/walks between the two groups of people’ (24) Mario cammina fra i campi Mario walks FRA the fields ‘Mario walks across the fields’ (25) Mario cammina fra i campi e fra le macchine Mario walks FRA the fields and FRA the cars ‘Mario walks across the fields and amongst the cars’

In (23), fra/tra can be interpreted as denoting Mario’s position or trajectory between two distinct groups of people. In (24), his trajectory involves crossing certain fields, hence covering a different type of trajectory than the one described in (25). As these examples show, then, tra/fra is polysemous, since it can denote distinct but related ‘shapes’ of locations or trajectories that a figure can occupy, with re-spect to a ground.5 We move to su, the last simple ISP in (7). Su can participate in the directional/locative alterna-tion, and can capture distinct ‘vertical’ or ‘support’ senses, overlapping in distribution with sopra ‘over/above’. Hence, su acts as a ‘general’ vertical term, as shown in (26)–(27):

(26) Mario siede/va su-l palco Mario sits/goes SU-the stage ‘Mario sits on/goes onto the stage’ (27) I bambini siedono su-l palco e su-lla collina The children sit SU-the stage and SU-the hill ‘The children sit on the stage and on top of the hill’

The polysemy of su also confirms that simple ISPs can display the directional/locative alternation and several distinct senses associated to each ISP.

5 Note that per and tra/fra seem to partially share their directional senses, since they both involve movement of a figure ‘traversing’ a ground. The role of the ground DPs and their senses plays a role in these patterns, but we lack the space for discussing this pattern in detail.

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We can now discuss the polysemy of complex ISPs, although in compact manner. Complex ISPs display the locative/directional alternation, like simple ISPs, and can display a limited form of ‘spatial’ polysemy. Complex ISPs usually involve an Axpart P, and include an underlying direction or ‘axis’ in their sense, specified with a so-called ‘reference system’ (Zwarts & Winter 2000; Svenonius 2010: 172–174). We make these notions precise via (28):

(28) I bambini vanno a destra de-lle macchine e The children go A right DI-the cars and a destra de-i trattori A right DI-the tractors ‘The children go in front of the cars and to the right of the tractors’

In (28), a destra delle macchine and a destra dei trattori can have two distinct senses. To see why this is the case, consider a situation in which cars and tractors are oriented with opposing engines. If the children are located to the right of the cars, then they can be to the left of the tractors. However, this would count as ‘right’ to an observer (respectively intrinsic to the ground; relative to the speaker). The reverse configuration can also hold, thereby licensing the co-existence of distinct uses of this complex ISP. At the same time, both complex ISPs have a directional reading because of vanno’s sense, and include di and a in symmetric positions (‘left’ and ‘right’ of the Axpart P). Simple ISPs as part of complex ISPs seem to also work as lexical items denoting the distinct but related locations partaking in a spatial rela-tion. Overall, the possibility that complex ISPs can also be used to describe locations with respect to distinct reference systems suggests that these ISPs are polysemous. Let us take stock. ISPs display two polysemy patterns: the locative/directional alternation, and the ability to denote distinct ‘types’ of locations. Simple ISPs seem richly polysemous, even though the combinations of senses are distinct from one lexical item to another (cf. in vs. tra/fra). Complex ISPs display a reduced but important spatial polysemy pattern. They must be interpreted with respect to a reference system: relative, intrinsic (and absolute, for ISPs such as a nord di ‘to the north of’). Note that the emergence of distinct senses, related to zeugmatic readings, is not strictly necessary (cf. (20)–(22), (28)); even as a possibility, though, it confirms the polysemy of ISPs. Also, the morphological and syn-tactic structures underpinning both types of ISPs seem to play a crucial role in the emergence of poly-semy. An open question, then, is whether previous accounts of ISPs can offer a platform on which to build a polysemy account. 2.2 Previous Analyses of ISPs ISPs have been a neglected category. Recent works (e.g. Tortora 2006; 2008; Folli 2008) have investi-gated the syntactic structure and aspectual properties of few complex ISPs such as sotto. These feature an optional simple a (e.g. sotto vs. sotto a), with a claimed to denote ‘bounded’ locations. This alternation is shown in (29):

(29) Mario è sotto a-l/il bancone Mario is below A-the/(P) the counter ‘Mario is under the counter’

According to their analysis, the alternation between sotto al and sotto il can be understood as an alterna-tion between an ‘unbounded’ relation of vertical subjacency, and a bounded one. While in the first case Mario can be at any point under the counter, in the second case he is at a specific point under the coun-ter. These facts are accounted for by assuming that ISPs include one position, called ASP(ect), at which (un)boundedness is computed. Overt movement produces the linear order observed in ISPs, viz. (30a–b) (cf. Tortora 2008: 283-284). The analysis proposed in Folli (2008), as shown in (31b), includes the standard heads ‘Path’ and ‘Place’ as the two positions that make up an ISP (Jackendoff 1983, 1990;

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Kracht 2002). Depending on which lexical item appears (i.e. silent ‘P’ or a), an unbounded or bounded reading emerges. As shown in (31b), Folli (2008) generalises by having a relational head ‘R’ to take a ground DP as its argument, in turn forming the RP complement of a P (here, sotto):

(30) a. [CP (P) [AspP a [FP (P) [Place sotto [DP il bancone ]]]]] (before movement) b. [CP (P) [AspP[ sotto ]j a [FP (P) [Place tj [DP il bancone ]]]]] (after movement) (31) a. [Path sotto [Place (P) [DP il bancone ]]] b. [PP sotto [RP (R) [DP il bancone ]]]

As discussed in Ursini (2013, 2014, 2015a, b), these analyses are problematic, if extended to the broader set of data discussed so far. If each simple ISP is an expression of a specific position (e.g. a of a Asp head, di of a Place head), then two complex ISPs such as di fronte a and a destra di would present sym-metric sequences of heads. A complex analysis involving movement and ad hoc stipulations would be necessary. Furthermore, the alternation involving simple ISP a covers the specificity or uniqueness of a figure’s position with respect to the ground. That is, the figure occupies one location defined as sotto ‘under’, which may nevertheless occupy one vaguely defined (‘unbounded’) space. Lexical aspect is not the semantic dimension at stake, in ISPs. If syntactic matters seem partly understudied, then the polysemy of ISPs is a particularly ne-glected topic. For instance, Luraghi (2009, 2011) only discuss the polysemy of da and di, but only by discussing definitional test-based examples. Syntactic matters, and more accurate diagnostics such as the coordination test, are glossed over. A similar problem arises in Ursini (2015a), which offers a more thorough analysis of the syntax and semantics of ISPs, but explicitly leaves a treatment of their polyse-my aside. As matters stand, an account of the polysemy of ISPs is still outstanding. Sections 3–4 then, aim to provide such an account. 3. The Analysis: Syntax 3.1 Syntactic Assumptions We start by outlining the theoretical framework for our analysis. For the architecture, we choose one variant of the Minimalist program, Distributed Morphology (DM, e.g. Halle & Marantz 1993; Harbour 2007; Harley 2012). Other theoretical analyses are certainly possible, but we leave a discussion of this topic aside, for reasons of space. Our choice is based on two of DM’s core assumptions, which are germane to our goals. First, one operation, merge, recursively combines morphemes and generate larger structures (words, phrases, sentences). Second, the semantic and phonological components cyclically receive the outputs of morphology/syntax, in turn generating semantic (meanings) and phonological (utterances) outputs. To make derivations formally explicit, we use Type Logical Syntax (TLS: Moortgat 2010; Morryll 2011) as a formal apparatus. In TLS, the merge of lexical items into larger units is captured by assigning types to items, which can either be incomplete types (e.g. s\np) or complete types (e.g. s, np). Incomplete types must merge with a (matching) input type, to form a complete type. For instance, an intransitive verb such as sleeps is assigned the type s\np. This reads: if sleeps merges with an NP (type np, e.g. Har-lock), then a sentence of type s is derived. If two lexical items have non-matching types, they cannot be merged. Thus, *runs sleeps is ungrammatical, as both verbs are assigned type s\np, which cannot be merged. The notion of merge is thus made formally precise via the use of the connectives ‘/’ (right divi-sion), ‘•‘ (product) and ‘⊢’ (‘proves’). Division is a binary, associative, idempotent connective, while product is only binary and associative. Division allows us to capture the fact that some lexical items (e.g. affixes) must combine with other items to form ‘complete’ items. Instead, product allows us to represent mor-phemes as the product of more basic morphological features. We then define merge as a ternary and asso-ciative operation. Merge takes two lexical units and ‘proves’ a third syntactic unit (e.g. a phrase), in which

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either constituent may determine the type of the larger constituent (associativity). Constituents are merged in a hierarchical (‘top-down’), incremental manner: Harlock is merged with sleeps on its ‘right’ side. We now turn our attention to types. Differently from standard TLS approaches (e.g. Moortgat 2010), we do not use ‘naïve’ types such as s, np and similar others. DM research on lexical categories has shed light on how categories can be conceived as derived from the combination of more basic features and structural configurations (e.g. Harbour 2007; Acquaviva 2014). Our discussion of ISPs suggests that their structures involving basic features merged recursively. We thus define p as a general type for phrases, whether they be lexical items or complex structures. Types and connectives are defined in (32):

(32) 1. Given a Lexicon L, p∈L is a morphological type (Lexical type) 2. If x is a type and y is a type, then x/y is a type (Type formation: division) 3. If x is a type and y is a type, then x•y is a type (Type formation: product) 4. If x/y is a type and y is a type, then (x/y)•y⊢x, y•(x/y)⊢x (Merge: forward application) 5. Nothing else is a type; (Closure property)

Given a basic type p (rule 1), complex types can be defined as the division or product of more basic types (rule 2, 3). When two complex types are merged, the result is a type, in which matching infor-mation is discarded (rule 4). No other rules are employed (rule 5). These rules allow us to define a min-imal type set TYPE={p, p/p, p•p/p/p•p, p•p} for our analysis. For feature sub-types, we use minimalist accounts of features and feature percolation (Adger 2010), representing sub-types as indexes. There-fore, we introduce type ps, with s a spatial feature that can carry a polysemous interpretation.6 Its pre-cise use will become clear in the next section. Before we move to the analysis, we introduce an Index Set I for the distinct steps in a derivation, with I={t,t+t,t+2,...,t+n}. The symbol ‘+’ represents addition, an operation that derives progressive in-tervals of time in sentence production. In each derivation, the operation Lexical Selection (LS) represents the selection of a lexical item as an active unit in the derivation, while Merge Introduction (MI) represents the merge of two input constituents, and the resulting output constituent. 3.2 The Analysis: Derivations We begin by outlining the types of structures that we assume for ISPs, ISPPs and sentences, as the out-put of the derivational rules introduced in the previous section. For reasons of space, we leave aside a discussion on the complex debate regarding the structure of SPs (but see Cinque & Rizzi 2010: ch. 1 for discussion). Here we opt to analyse ISPs according to the ‘P-within-P hypothesis’ (Hale & Keyser 2002: ch. 3-4). In this account, SPs involve a possibly silent SP head that takes a ground DP as its com-plement, and another SP as its specifier. This extension of this analysis to simple and complex ISPs is shown in (33a-b):

(33) a. [SPP[SPP a ] (P)-laSPP [DP macchina ]] b. [SPP[SPP [SPP di [NP fronte ]] a-llaSP [DP macchina ]]

The structures in (33) read as follows. First, we do not analyse how the ‘SP’ and ‘D’ heads are merged. Second, the SPs a in (33a) and di fronte in (33b) are treated as specifiers of the head SP, respectively ‘(P)-la’ and alla. Second, the ‘internal’ SPP di fronte is formed when the axial noun fronte (an NP) is re-assigned prepositional status as the complement of the 1-place (I)SP di (cf. Pantcheva 2008; for a simi-lar proposal). Note that we consider fused preposition and article, silent or not (e.g. (P)-la and alla), as forming a single head. Since this account assumes that functional heads can have flexible valence, it in-

6 Psycholinguistic evidence on sentence production also supports a merge right account (Levelt 1989; Phillips 2006), a point that we also take to be in favour of our proposal, though not a crucial one.

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directly predicts the structures in (33) as possible structures for ISPs, with ISPs displaying distribution as 0-, 1- or 2-place heads (e.g. a, di). This account can also be extended to coordinated SPPs without supplementary assumptions, since e ‘and’ and other Boolean connectives are coordinating prepositions (e.g. Winter 2001; Romeu 2014: ch. 5). Given that Boolean connectives are syncagorematic, the resulting phrases with ISPPs as arguments have the properties of ISPPs, as shown in (34):

(34) [ISPP [ISPP sul palco ] e P [ISPP sulla collina ]] Crucially, a fuller argument for a ‘P-within-P’ analysis can be given once demotion data are addressed. Before we do so, however, we must motivate a type assignment for ISPs, which allows us to prove how ISPPs and other structures, as well as the scope of polysemous readings, are derived. Consider the assi-gnment in (35):

(35) a. pn≔ {I bambini, Mario,…}; ps≔ {a, in, parco, fra, di fronte, al tavolo, nel parco,…}; b. ps/pn/ps≔ {(P), a, di, da, e,…}; p/ps/pn≔ {siede, va, è, è andato,…};

The assignment reads as follows. The type pn is assigned to figure DPs, qua phrases carrying nominal features. Type ps is assigned to ground DPs, simple ISPs and ISPPs, qua phrases carrying spatial fea-tures. The asymmetry between figure and ground DP is justified by the fact that ground DPs denote grounds qua locations, and in the case of toponyms/place names (e.g. London), they explicitly carry the-se features (Ursini 2016a, b, for details). The type assignment in (35b) assigns the type ps/ps/ps to ISP heads, including the silent P head, those simple ISPs that can act as heads of complex ISPs (e.g. a, di), and syncagorematic e. The structural relation that connects this assignment for a to the one in (35a) can be captured via the residual rule (Moortgat 2010 §2.1; Morryll 2011: ch. 2). The residual rule formally represents Hale & Keyser (2002)’s approach to flexible valence. It shows that type polymorphism/valence change patterns are highly con-strained. A lexical item carrying certain features (e.g. ps•pn) can become an affix to phrases carrying these features (e.g. ps/pn: we have ps•ps⊢ps/ps). An affix, in turn, can become a head merging with phrases with given features as its arguments (ps•ps/ps⊢ps/ps/ps). In other words, there is a tight relation between sim-ple ISPs as arguments of silent P heads and simple ISPs as affixes or heads in complex ISPs. This part of the type assignment also shows that verbs and prepositions differ in the type and order of arguments they take. Verbs such as siede ‘sits’ and va ‘goes’ take a complement of type ps, (i.e. an ISPP). ISPs and conjunction e ‘and’, qua spatial prepositions and heads, take a specifier and comple-ment of type ps instead. Although finer-grained analyses of syncagorematic heads can be offered (viz. Partee & Rooth 1983; Winter 2001), this restricted assignment allows us to straightforwardly account the derivation of our data. We can now start our analysis by showing how ISPPs are derived. The derivations include al tavolo and di fronte al bancone, from (1)–(2) and (7) respectively. The definite article is directly merged with each ISP; we defer the reader to (Ursini 2015a), for a simple but long discussion on how to derive preposizioni articolate. Consider (36)–(37):

(36) t. [ aps] (LS) t+1. [ (P)ps/ps/ps] (LS) t+2. [ aps]•[ (P)-lps/ps/ps]⊢[ps/ps[ aps] (P)-lps/ps/ps] (MI) t+3. [ tavolops] (LS) t+4. [ps/pn[ aps] (P)-lps/ps/ps]]•[ tavolopn]⊢[ps[ aps] (P)-lps/ps/ps [ tavolops]] (MI) (37) t. [ps/pn di ] (LS) t+1. [pn fronte ] (LS) t+2. [ps/pn di ]•[pn fronte ]⊢[ps di fronte ] (MI)

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t+3. [ alps/ps/ps] (LS) t+4. [ps di fronte ]•[ alps/p/ps]⊢[ps/ps[ps di fronte] alps/ps/ps]] (MI) t+5. [ banconeps ] (LS) t+6. [ps/ps[ps di fronte ] alps/ps/ps]]•[ banconeps]⊢[ps[psdi fronte ] alps/ps/ps[ps bancone ]] (MI)

In (36), a as a specifier ISP merges with a silent head P plus the definite article –l (steps t to t+2), and the result merges with the DP tavolo (steps t+3 to t+4). The result is the ISPP al tavolo, also of type ps like a. The intuition behind the ‘P-within-P’ label is now made formally precise, and so is the structural relation between simple and complex ISPs. The type ps represents the spatial features of ISPs that li-cense a spatial polysemous reading. In (37), a supplementary step involves the derivation of di fronte as an Axpart P (cf. Pantcheva 2008; Ursini 2013, 2014). Since di can become an affixal element via the re-sidual rule, it can also act as a ‘spatial marker’. That is, this simple ISP acts as an affix assigning a new category to fronte to form this type of SP (steps t to t+2). We now concentrate on ISPPs in coordinated phrases, thus deriving I bambini vanno allo spiazzo ed al rifugio ‘to the esplanade and into the refuge’ from (3) in (38):

(38) k. [ps allo spiazzo ] (MI) k+1. [ eps/ps/ps] (LS) k+2. [[ps allo spiazzo ]]•[ eps/ps/ps]⊢[ps/ps[ps allo spiazzo ][ eps/ps/ps]] (MI) k+3. [ps al rifugio ] (LS) k+4. [ps/ps[ps allo spiazzo ][ eps/ps/ps]]•[ps al rifugio ]⊢[ps[ps allo spiazzo ] eps/ps/ps[ps al]] (MI)

This derivation has been compressed, since the conjunct ISPPs allo spiazzo ed al rifugio are directly merged as typed phrases. The result, nevertheless, is a phrase of type ps, which can then involve the computation of a corresponding spatial, polysemous reading. We can now offer derivations of full sentences. Consider (39)–(40), the derivations of (1) and its alternations with respect to the verbs:

(39) t. [ Marcopn] (LS) t+1. [ siedep/ps/pn] (LS) t+2. [ Marcopn]•[ siedep/ps/pn ]⊢[p/ps[ Marcopn] siedep/ps/pn] (MI) t+k. [ps al tavolo ] (MI) k+1. [p/ps[ Marcopn] siedep/ps/pn]•[ps al tavolo ]⊢[p[ Marcopn] siedep/ps/pn[ps al tavolo ]] (MI) (40) t. [ Marcopn] (LS) t+1. [ vap/ps/pn] (LS) t+2. [ Marcopn]•[ vap/ps/pn]⊢[p/p[ Marcopn] vap/ps/pn] (MI) t+k. [ps al tavolo ] (MI) k+1. [p/ps[ Marcopn] vap/ps/pn]•[ps al tavolo ]⊢[p[ Marcopn] vap/ps/pn[ps al tavolo ]] (MI)

These compressed derivations show that when the ISPP al tavolo merges with va or siede, the directional sense of this ISPP is selected (step k+1). Once the ‘skeletal’ VP is formed, either the locative or direc-tional readings for the ISPP are selected, as shown in (38)–(39). As (36)–(40) show, the scopes of the two polysemy patterns are slightly different (VP vs. ISPP), but they are tightly connected to the merge of ISPs and their spatial features with other items. We can now offer an account of the argument demotion data, which motivated the P-within-P approach. Consider the derivations in (38), which repeat the patterns in (4)-(6):

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(41) a. k. [p/ps[ Marcopn] siedep/ps/pn]•[ps di fronte ]⊢[p/[ Marcopn] siedep/pn/ps[ps di fronte] (MI) b. k. [p/ps[ Marcopn] siedep/ps/pn]•[ps/ps[ps a ] (P)-lps/ps/ps]]⊢* (MI: derivation halts) c. k. [p/ps[ Marcopn] siedep/ps/pn]•[ps/ps[ps di fronte ] alps/p/ps]]⊢* (MI: derivation halts)

The derivation in (41a) shows that an Axpart P, di fronte ‘in front’ can be merged with a verb to form a minimal VP, since it has type ps The derivations in (38b–c) show that the simple ISP al and the ‘partial’ complex ISP di fronte al lack a DP as a type to form an ISPP, thereby halting the derivation: no com-plete, interpretable sentence is formed. We can conclude this section by offering a compressed derivation of a sentence including a co-ordinated phrase. Consider (42)–(43), based on (3) and (28) respectively:

(42) k. [p/ps[pn I bambini ] vannop/ps/pn]•[ps allo spiazzo ed al rifugio ]⊢ [p/[pn I bambini ] vannop/ps/pn[ps allo spiazzo ed al rifugio ]] (MI) (43) k. [p/ps[pn I bambini ] vannop/ps/pn]• [ps a destra delle macchine ed a destra dei trattori ]⊢ [p/[pn I bambini ] vannop/ps/pn[ps a destra delle macchine ed a destra dei trattori ]] (MI)

Since coordinated phrases are assigned the same type of their conjuncts, they can merge with verbs of motion (here, vanno ‘(they) go’). If each conjunct contributes a distinct sense for a in (38), and di and a in (39), then their coordination and merge with vanno selects a directional reading. Thus, while these ISPP conjuncts can have one part of their readings to be identical (the directional reading) at a senten-tial level, they denote distinct locations qua arguments within the scope of a coordinated phrase, as per predictions. Overall, these derivations show that ISPPs and coordinated ISPPs, as phrases of type ps, involve fea-tures that affect how polysemous readings are accessed. At the level of ISPPs, whether they involve one or two coordinated phrases, the polysemy layer involving locations is computed; the distinct senses of conjuncts are computed within this scope. Since coordinated phrases nevertheless involve (coordinat-ed) ISPPs, they count as defining the scope of an ISP as a polysemous ISP (contra e.g. Riemer 2010: ch. 5). The directional/locative alternation, as the ‘first’ polysemy layer, is computed when an ISPP merges with a verb, within the scope of a VP. Thus, the two distinct layers of polysemy are shown to have dis-tinct but connected scopes. These data are accounted for in the next section. 4. The Semantics 4.1 The Tools We begin by introducing our simplified variant of Situation Semantics. Situations can be seen ‘bits of information’ that lexical items can carry. More specific types of situations such as individuals, locations or events can be defined, as senses of specific parts of speech. The domain of situations is a partially ordered set S. The part-of relation holds: s≤s' holds if s∩s'=s and s∪s'=s'. If a situation is part of another situation, then their intersection is the sub-set situation, and their union is the super-set situation. Situa-tions include sub- and super-types, with situations s being the universal type, d and l the sub-types of individuals and locations, respectively. Qua distinct types, their intersection forms the empty set (i.e. we have d∩l=∅), and their union a more general type (here, events: we have e=l∪d). The resulting struc-ture is *S=<S={d,l,s},∩, ∪,≤>, a Boolean algebra: a partially ordered set (Landman 1991: 65-69; Szabolcsi 1997, 2010: ch. 1). The recursive definition of types is in (44):

(44) 1. Given S a type set, s∈S is a type (Lexical type) 2. If a is a type and b is a type, then a→b is a type (Functional type)

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3. If a is a type and b is a type, then a×b is a type (Compound type) 4. If a→b is a type and b is a type, then (a→b×a⊨b (Function application) 5. Nothing else is a type (Closure property)

Given a basic type of atomic situations (rule 1), a complex set of types can be defined by combining situations either via functional or compound type formation (rules 2, 3). Function application can then be defined as a rule for type reduction (rule 4), together with a closure principle (rule 5). The smallest type set that we can define via this definition is the set TYPE’={s,s→s,s→(s→s),s×s}, which closely mirrors the syntactic type set. Product types can be used to represent sub-types: we can have sσ, a situation be-longing to a sub-type σ. The definition of a mirror set of rules for the syntax and semantics of ISPs stems from the use of TLS as a derivational system. We offer this mapping in (45):

(45) MORPHOLOGY⇒SEMANTICS⇒INTERPRETATION p/p/p ⇒s→(s→s) ⇒λx.λy.s:(x≤y)s→(s→s)

pp ⇒s ⇒ss, ss:(a≤b) In the mapping, we employ a standard form of λ-calculus. Heads denote relations, which are defined as situations in which a part-of relation between other situations holds (i.e. we have λx.λy.s:(x≤y)s→(s→s)). Phrases, instead, denote either situations belonging to a given sub-type (e.g. l for location, as in the case of Axpart Ps), or situations corresponding to saturated relations. An ISPP such as al tavolo ‘at the table’, in this analysis, denotes a location sub-type of situation in which a (spatial) relation between a table and other locations holds. Before we further present our analysis, however, we introduce our account of polysemy. Our account consists of two assumptions, adapted from recent developments in type composi-tion logic and GL (Asher 2011; Pustejovsky 2013; respectively). First, we also model locations as forming a Boolean algebra *L=<L,∩,∪,≤> (cf. Asher & Sa-blayrolles 1995; Nam 1995): a set of locations L includes sum locations (i.e. ∪l), and is ordered via the part-of relation ‘≤’. Sum locations are defined as unions of more basic locations: l=a∪b is the location l that includes the union of locations a and b. Apart from sum locations, atomic locations play a key role. We assume that our algebra has 12 atomic locations (hence, 210=1024 sum locations), which corre-spond to edges of opposing semi-axes (e.g. ‘front’, ‘back’, ‘in’, ‘out’ locations). SPs can denote these idealized locations or sums thereof, thus partitioning this (mental) model of space (Zwarts & Winter 2000; Levinson & Meira 2003; Ursini & Giannella 2016). Second, we model polysemous ISPs as denoting sum locations. Consequently, their senses can identify any of the locations making up a sum. Given our discussion in section 2, the sense of a corre-sponds to the sum of the sense of di fronte ‘in front’, dietro ‘behind’, in ‘in’, fuori ‘out’, and so on. Thus, the sense of a corresponds to the identify function I(al)=al, the function that identifies this specific sum lo-cation (cf. Landman 1991: 62-64; Asher 2011: 60-70). Via distributivity, we have the identity I(a)l=I(fr)l∪I(bh)l∪I(in)l∪I(out)l∪…. (cf. Landman 1991: 65-69; Szabolcsi 1997, 2010: ch. 1). Hence, a can have several related senses, one per location in its denotation: I(fr)l for the frontal location, I(bh)l for a posterior location, I(in) for the internal location, and so on. Overall, we reconstruct the treatment of polysemous items as involving ‘networks’ of senses found in cognitive linguistics frameworks (e.g. Evans 2009), but from the model-theoretic perspective of type composition logic/GL and situation semantics. Note that, in our account, polysemy and under-specification are defined as distinct properties. Polysemy involves lexical items forming a set of senses belonging to the same type (e.g. I(αs)=I(∪{α,b,…}s)). Underspecification would also involve a general sense as part of the sense of an item, related to the other sense (e.g. I(∪ls)⊆I(αs)). Thus, the account of the data in the next section also shows why our data involve polysemy, and not underspecification.

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4.2 The Semantic Analysis We start our analysis by offering a semantic type assignment to our constituents. Since we have made a distinction between nominal and spatial phrases, this distinction is mirrored in the semantics by having these types to respectively denote individuals d and locations l, in (46a). Thus, figure DPs and Axial nouns are assigned type d, and ground DPs, simple ISPs and Axpart Ps are assigned type l. Note that, in our derivations, we directly use sub-types for arguments (i.e. d, l) rather than sub-scripts, as in (47). In (47), we offer a fragment of the interpretations for the lexical items in derivations. As always, ‘[[.]]’ stands for the interpretation function:

(46) a. sd≔ {Mario,i bambini,…}; ps≔ {a, in, tavolo, parco, di fronte, al tavolo, nel parco,…}; b. sl→(sl→sl)≔ {(P), a, di, da,e,…}; s→(sl→sd)≔ {siede, va, è,…}; (47) a. [[ a ]]⊨al; [[ in ]]⊨inl; [[ di fronte ]]⊨frl, [[ bancone ]]⊨bd; [[ tavolo ]]⊨td,; b. [[ (P) ]]⊨λx.λ y.s:(x≤y)l\→(l→l); [[ al ]]⊨λx.λy.l:(x≤y)l\→(l→l); [[ e ]]⊨λx.λy.s:(x∩y)l\→(l→l)

We do not address the locative/directional alternation before addressing the examples, thereby offering slightly simplified senses. The senses of simple ISPs acting as arguments, viz. a and in, minimally differ in the locations that they include in their denotation (e.g. a vs. in as sum locations). While a covers the sense of other ISPs, as a ‘general’ preposition, in excludes the possibility that a figure is located outside of a ground (i.e. I(in)l lacks the outl location). Simple ISPs, in virtue of being polysemous, can also cover or include the senses of Axpart Ps in their domain. Di fronte denotes a location fr, but a can also individ-uate this location as part of its sense. This point will become clear as we discuss the data, in any case. The senses of heads (here, silent P, al as in di fronte al, and e) correspond to situations in which relations between locations hold, hence being interpreted as ‘spatial’ situations. In the case of e, the cor-responding situation is the conjunction of two distinct spatial relations that two conjuncts denote. Our fragment does not cover all lexical items in our derivations, as the interpretation of some items (e.g. verbs) is better discussed via derivations. Let us turn to the examples. We begin by offering the interpretation of (36) in (48):

(48) t. [[ aps]]⊨al (Int) t+1. [[ (P)ps/ps/ps]]⊨λx.λ y.s:(x≤y)l\→(l→l) (Int) t+2. [[ aps]]×[[ (P)-lps/ps/ps]]⊨(al)×λx.λ y.s:(x≤y)=λ y.s:(a≤y)l→l (FA) t+3. [[ tavolops]]⊨tl (Int) t+4. [[ps/ps[ aps] (P)-lps/ps/ps]]×[[ tavolops]]⊨λ y.s:(a≤y)l→l×(tl)=s:(a≤t)l= s:(fr≤t)l∪s’:(int≤t)l∪s’’:(out≤t)l∪s:(fr≤t)∪s’’’:(bh≤t)∪… (FA, Distributivity)

The derivation shows that a silent P head takes a as an argument, interpreted as a sum of possible loca-tions related to the ground (steps t to t+2). Once the ground DP is merged, the range of possible read-ings for this ISPP is computed via distributivity (steps t+3, t+4). This ISPP denotes a relation in which a figure can occupy the part corresponding to the external location of a table (i.e. out), its internal (i.e. int), or frontal (i.e. fr), or posterior (i.e. bh) location, and so on. Each of these corresponding possible relations, and the situations they represent (e.g. s, s’, s’’) are possible senses of alla tavola in this syntactic context. The connective ‘∪’ representing sum locations doubles as a connective linking ‘alternative’ lo-cations of the figure, with respect to the table (i.e. in or out a ground). This is possible because in Bool-ean algebrae, sum and disjunction reduce to the same operation/connective (Szabolcsi 1997; Winter 2001). Let us now turn to our first complex ISP. We drop syntactic sub-scripts, for simple reasons of space. Consider (49), the interpretation of (37):

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(49) t. [[ di ]]⊨λx.(x)d→l (Int) t+1. [[ fronte ]]⊨frd (Int) t+2. [[ di ]]×[[ fronte ]]⊨λx.(x)d→l×(frd)=frl (FA) t+3. [[ al ]]⊨λx.λy.a:(x≤y)l\→(l→l) (Int) t+4. [[ di fronte ]]×[[ al ]]⊨(frl)×λx.λy.a:(x≤y)l\→(l→l)=λy.a:(fr≤y)l→l (FA) t+5. [[ bancone ]]⊨bl (Int) t+4. [[ di fronte al ]]×[[ bancone ]]⊨λy.a:(fr≤y)l→l×(bl)=a:(fr≤b)l= a:(fr≤b)l∪ a’:(fr≤b)l∪… (FA; Distributivity)

The derivation in (49) says that a in di fronte a(l) denotes a polysemous relation: a relation that involves distinct locations defined as ‘fronts’ of the ground. The use of x.λy.a:(x≤y)l\→(l→l) in step t+2 marks this polysemy, since a corresponds to a sum of locations (i.e. we have a=∪{int,out,…}). This relation is ob-tained once fronte is assigned the type l of locations, via the contribution of di as a spatial marker (steps t to t+2). In turn, di can be interpreted as a spatial marker (i.e. a 1-place function: λx.(x)d→l) via the resid-ual rule, which connects this interpretation to its relational (2-place) interpretation. This holds for a as well, since its argument and head interpretation are similarly connected. Thus, in step t+4, at least two possible readings can be accessed, here represented as a and a’. The relation is defined with respect to the intrinsic front of the ground, or relative with respect to the figure’s position. In our analysis, this restricted type of polysemy for complex ISPs is connected to the semantic contribution of simple ISPs. If these elements can have distinct but related senses, complex ISPs will ‘inherit’ part of these senses, once the interpretation of Axpart Ps is factored in. The reduced polysemy of complex ISPs corresponds to their ability to identify distinct but related locations being ‘fronts’, ‘backs’ and so on, with respect to different referent systems. We now turn to the interpretation of coordinated ISPPs. Recall that a can identify internal and external locations, as in the case of allo spiazzo ed al rifugio ’to the esplanade and into the refuge’. Its in-terpretation is shown in (50):

(50) k. [[ allo spiazzo ]]⊨sl:(a≤p)= sl:(out≤p) (Int, Distributivity) k+1. [[ e ]]⊨λx.λy.s’’:(x∩y)l→(l→l) (Int) k+2. [[ allo spiazzo ]]×[[ e ]]⊨ (sl:(out≤p))×λx.λy.s’’:(x∩y) l→(l→l)=λy.s’’:(sl:(out≤p)∩y)l→l (Int) k+3. [[ al rifugio ]]⊨s’l:(in≤gl)=s’l:(int≤r)l→l (Int, Dist.) k+4. [[ allo spiazzo e ]]×[[ al rifugio ]]⊨λy.s’’:(sl:(out≤p)∩y)×(s’l:(int≤r))= sl’’:(sl:(out≤p)∩s’l:(int≤r)) (FA)

The distinct senses of allo/al are computed when the two grounds spiazzo and rifugio (denoted as the lo-cations pl, rl respectively) are merged with the two tokens of this ISP. In each conjunct, a distinct read-ing is computed via distributivity, as in the case of (49)–(50). This because an ISPP represents the scope for the disambiguation of a polysemous ISP, or token thereof. Thus, the two distinct but related senses of a are first computed, and then conjoined. Note, then, that if the first conjunct would receive the same reading of the second conjunct (i.e. out≤pr), then a paradoxical reading would be licensed: the boys would be ‘in’ the esplanade. We reconstruct the coordination test as a constraint on the coordina-tion of senses of a lexical item. Note here that the two computed senses partially ‘overlap’, since they both carry a directional reading, not explicitly represented in this derivation. One could see this as evidence for an underspecifi-cation approach. For instance, the ‘complete’ readings of these conjuncts can be represented as a=∪{dir,out} and b=∪{dir,int}, since both conjuncts have a directional reading, via the contribution of

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vanno (here omitted). By definition, we would have the relations a=∪{dir,out}Ëdir and a=∪{dir,int}Ëdir to hold, however: no general reading can include both readings, so a is not underspecified, in this con-text. Underspecification would hold if the general sense of a in this context would be the union of the two conjoined senses (i.e. a=∪{{dir,out},{dir,int}}) rather than their conjunction, contrary to the standard sense of e ‘and’ as a Boolean connective (cf. Winter 2001: ch. 2 for discussion). Thus, polysemy and un-derspecification are distinct phenomena, and require distinct accounts. We can now capture how the other polysemy pattern, the alternation between directional and locative readings, is resolved. For this purpose, we enrich the senses of ISPs as involving the identifying function ±dir(s), which individuates a situation in which a spatial relation can involve directed move-ment. We also introduce this function as a restriction on the semantic type of complements that a verb can take (cf. Hale & Keyser 2002 on s-selection; Asher 2011: ch. 4 on argument type selection). This simplified treatment is nevertheless consistent with the proposals on semantics of directional readings (cf. Zwarts & Winter 2000; Zwarts 2005; among others). Consider now (51), the interpretation of (39):

(51) t. [[ Marco ]]⊨md (Int) t+1. [[ siede ]]⊨λ x.λy.s:sit’(x,y) (Int) t+2. [[ Marco ]]×[[ siede ]]⊨(md)×λ x.λy.s:sit’(x,y) =λy.s:sit’(m,-dir(y)) (FA) t+k. [[ al tavolo ]]⊨±dir(a)l:(a≤t) (Int) k+1. [[ Marco siede ]]×[[ al tavolo ]]⊨λy.s:sit’(m,-dir(y))×(al:(a≤t))= s:sit’(m,+dir(±dir(a)l:(a≤t)))=s:sit’(m,-dir(s’l:(out≤t)))∪s:sit’ (m,-dir(s’’l:out≤t)))∪… (FA, D.)

The derivation in (51) says that a locative verb such as siede can take an ISPP denoting a spatial relation as its argument, but restricts its interpretation to a locative reading (i.e. -dir(y)). When al tavolo is com-posed with this verb, only the -dir value for the spatial relation it denotes (i.e. -dir(al)) produces an inter-pretable sentence, which can have distinct locative readings (cf. step k+1). If va ‘goes’ is inserted in place of siede, a corresponding directional reading is selected. Thus, one polysemous level can be re-solved at a sentential level, while the spatial reading can remain ambiguous, but at the ISPP level: no specific sense is computed, in context. The semantic side of the argument demotion data can be now captured, too. We show when and how demotion can produce interpretable sentences in (52):

(52) a. k. [[ Marco siede ]]×[[ di fronte ]]⊨ sl:sit’(m,fr) (FA) b. k. [[ Marco siede ]]×[[ a (P)-l ]]⊨sl:sit’(m,λx.sl’:(fr≤x))l→l (FA: Derivation halts) c. k. [[ Marco siede ]]×[[ di fronte al ]]⊨sl:sit’(m,λx.sl’:(fr≤x))l→l (FA: Derivation halts)

In (52a), the interpretation of (41a), we have an Axpart P to act as the argument of the verb siede, thus denoting the location in which Mario, the figure, sits. Although it is possible in a discourse context to retrieve the ground whose front Mario occupies, our simplified interpretation aims to show that a well-formed and interpretable location is derived, in this case. Since in (52b–c) no argument is fed to the re-lation that al and di fronte al denote, the derivation is halted, and no fully interpretable sentence can be formed. We can now offer a sentential interpretation of coordinated phrases. We can also show how coordinated phrases receive the same reading with respect to the directional/locative alternation. Con-sider (53)–(54), the interpretations of (42)–(43):

(53) k. [[ I bambini vanno ]]×[[ allo spiazzo ed al rifugio ]]⊨ s:go’(*b,(+dir(s’’l:(sl:(out≤p)∩s’l:(int≤r)))) (FA, Distributivity)

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(54) k. [[ I bambini vanno ]]×[[ di fronte alle macchine e a destra dei carri ]]⊨ s:go’(*b,(+dir(s’’l:(al:(fr≤*m)∩s’l:(rt≤cr)))) (FA, Distributivity)

The compressed derivation in (53) says that allo spiazzo ed al rifugio have a shared directional reading but distinct spatial readings, as per discussion of (50). In (54), the two complex ISPs di fronte alle ‘in front of’ and a destra dei ‘to the right of’ can identify the intrinsic or relative positions of the children (denoted as the plurality *b: Winter 2001) with respect to the park and the carriages, respectively. Crucially, di and a play two distinct semantic functions in each ISP. A is the head introducing both distinct senses for di fronte in the first conjunct, while di has this function in the second conjunct. Both simple ISPs have ‘marking’ functions as well, thereby assigning type l to their corresponding Axial nouns (fronte, destra). Distinct but related senses (and sense types) are composed into these examples, as per predictions of the model. Let us take stock. Our account can capture the polysemy patterns attested in ISPs when they occur in coordinated phrases, an instance of the coordination test. This is crucial evidence that ISPs are polysemous, as discussed in previous literature (cf. Kearns 2006). Previous accounts of polysemy can-not directly handle these data, whether they are couched in a cognitive linguistics (e.g. Evans 2009), formal semantics (e.g. Pustejovsky 2013) or other frameworks. By lacking a theory of syntax to under-pin their analysis, these accounts would simply lack the tools to pin-point the scope of these polysemy patterns (e.g. Luraghi 2009, 2011). Arguably, a key improvement of our account over previous accounts is precisely the ability to compute distinct polysemy scopes. It is likely not the case that they rely on the definitional test, thus incurring in the problem of blurring polysemy and underspecification. An account of polysemy that builds on a precise analysis of ISPs and their syntax, as in the case of our DM-based account, seems to easily account the data, reaching our goal. 5. Conclusions This paper has offered an account of the polysemy of Italian Spatial Prepositions (ISPs), focusing on so-called simple ISPs: a, in, di, and da. The central claim is that these ISPs can carry several senses in vir-tue of their ability to denote sums of possible locations that a figure occupies, with respect to a ground. Furthermore, the specific interpretation of these ISPs is computed within the scope of an ISP phrase, once an ISP merges with a head and the ground argument. Thus, if the sense of a can identify several locations that a figure can occupy, al tavolo may identify a specific location, via the distributivity proper-ty. Since the polysemy of complex ISPs is a consequence of the polysemy of simple ISPs, this account can be extended to this type, too (e.g. di fronte al tavolo). Overall, our account is a preliminary step for a broader analysis of the syntax and semantics of ISPs, which can be possibly extended to other Ro-mance languages and dialects. However, we leave such a goal to future research. References Acquaviva, Paolo. 2014. Roots, Concepts, and Word Structure: on the Atoms of Lexical Semantics. In Rainer,

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Bagnomaria nel Vocabolario storico della cucina italiana postunitaria (VoSCIP)

Ugo Vignuzzi • Patrizia Bertini Malgarini

Abstract The paper presents a ‘pilot item’ of Vocabolario storico della cucina italiana postunitaria (VoSCIP – Historical Diction-ary of Italian cuisine language after the Unity), a dictionary that aims to reconstruct the pathway through which the current standardization of the ‘special’ language of Italian gastronomy was reached. With Bagnomaria we pro-pose a ‘case’ of gastronomic terminology that does not designate a food or a recipe but rather a cooking tech-nique or the concerned tool. In consideration of this, the item was divided into two entries. The item is present-ed following the formal setting foreseen for VoSCIP, and it is based on a representative corpus of texts, under construction, in which of course a prominent role is played by Scienza in cucina: a corpus which is expected to in-clude about a hundred texts; for reasons of practical feasibility, it was agreed to get to the Second World War. Occurrences are grouped first by their meaning, then according to the forms recorded; quotations follow each other usually in chronological order. KEYWORDS: Italian • Gastronomy • Historical Lexicology • Vocabulary • Nineteenth century • Twentieth century • Pellegrino Artusi 1. Il VoSCIP Ci piace offrire all’amica Maria la ‘voce-pilota’ Bagnomaria del VoSCIP, il Vocabolario storico della lingua del-la cucina italiana postunitaria cui stiamo lavorando con l’Accademia della Crusca: si tratta di un vocabola-rio che mira a ricostruire il percorso attraverso il quale si è pervenuti alla standardizzazione attuale della lingua ‘speciale’ della gastronomia italiana. Abbiamo già avuto modo di presentare l’iniziativa e alcune primissime voci di prova a Milano, in occasione della Piazza delle lingue, L'Italiano del cibo (Milano, 30 set-tembre - 2 ottobre 2015: Bertini Malgarini, Caria & Vignuzzi (in stampa); e cfr. pure Bertini Malgarini & Vignuzzi (in stampa)), e ci permettiamo quindi di rinviare a quel contributo per la descrizione del pro-getto, le indicazioni metodologiche e le relative scelte lessicografiche, fornendo qui soltanto alcuni ele-menti necessari per la lettura della voce.1 Come appena detto, il VoSCIP nasce con lo scopo di documentare il costituirsi e il fissarsi di una cultura e di una lingua unitaria della gastronomia nell’Italia dopo l’Unità. Si tratta di un’esigenza ben pre-sente a tutti gli addetti ai lavori (linguisti, storici dell’alimentazione, sociologi ecc.), e che nello specifico ha preso le mosse da una precisa prospettiva di ricerca, quella di esaminare le vie e i modi dell'affermarsi di un italiano gastronomico ‘comune’, a partire da Pellegrino Artusi e dal modello archetipico del suo fortunatissimo La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene (apparso per la prima volta nel 1891). Con questo obiettivo abbiamo avviato una serie di spogli di manuali, ricettari, riviste di cucina, menù ecc., avvalen-doci in primo luogo del ricchissimo fondo bibliografico conservato nella biblioteca dell’Academia Barilla (in gran parte digitalizzato e fruibile in rete). Però, per poter utilizzare questi testi (e altri che man mano si aggiungevano) ai fini d’una indagine linguistico-lessicografica sistematica, si rendeva necessario mar-carli e renderli interrogabili: ha preso così forma il progetto L’Italiano in cucina. Per un Vocabolario storico della lingua italiana della gastronomia che l’Accademia della Crusca ha inserito tra le sue iniziative. Il nostro progetto si è potuto poi coniugare con un’altra importante intrapresa dell’Accademia, quella del Vocabo-

1 La voce ‘pilota’ che qui presentiamo è stata redatta con la collaborazione di Marzia Caria.

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lario Italiano postunitario, e con i PRIN 2012 e 2015 a esso collegati, coordinati dall’attuale presidente dell’Accademia della Crusca, Claudio Marazzini. Per il VoSCIP abbiamo proceduto preliminarmente a fissare un corpus rappresentativo di testi, nel quale naturalmente un ruolo di primo piano spetta alla Scienza in cucina: corpus che, per motivi di fat-tibilità pratica, si è deciso di far arrivare alla Seconda guerra mondiale, nell’auspicabile prospettiva di po-ter in tempi successivi spostare il terminus ad quem alla contemporaneità (con l’inclusione, oltre che dei testi a stampa posteriori al ’45, delle diverse produzioni scritte legate al ‘trasmesso’ nelle sue varie for-me, dai blog ai social media ecc.). Il corpus principale di riferimento comprende al momento circa un centinaio di volumi apparsi tra la fine del Settecento (torneremo più avanti sulle ragioni della scelta di arretrare il terminus post quem) e il 19452: i testi sono stati selezionati utilizzando le principali bibliografie sulla produzione gastronomica italiana del periodo considerato (preziosa in primo luogo quella di Al-berto Capatti che correda la edizione del 2010 della Scienza artusiana della Rizzoli). Necessariamente si è dovuto tener conto pure di fattori pratici quali in primo luogo la reperibilità delle opere e soprattutto la loro disponibilità e/o acquisibilità da parte dell’Academia Barilla, con la quale è stata a tali scopi stipula-ta una convenzione da parte dall’Accademia della Crusca. Imprescindibile in questo ambito lessicale è pure la dimensione diatopica per la quale il nostro Vocabolario potrà utilizzare gli importanti risultati delle indagini geolinguistiche del Novecento, e in primis dagli atlanti linguistici, l’AIS e l’ALI, ma anche l’ASLEF, l’ALEPO, l’ALT, l’ALLI, sino agli importantissimi materiali in corso di pubblicazione per l’ALS (si pensi agli studi di Giovanni Ruffino e della sua scuola). Completata questa prima fase, si provvederà all’elaborazione di concordanze e di un lemmario come base di partenza del vocabolario. Si passerà a questo punto alla redazione vera e propria delle sin-gole voci, con particolare attenzione agli aspetti tecnici lessicografici informatici, nella prospettiva di una consultabilità in rete che permetta al VoSCIP di sfruttare tutte le possibilità offerte dalle tecnologie multimediali; e in primo luogo di accedere dalla voce ai testi e viceversa; abbiamo già realizzato alcune voci-pilota su termini ‘bandiera’ della cucina italiana, quali Tagliatella, Agnolotto, Anolino, Cappelletto. Ciascuna voce è costruita secondo il modello che segue: LEMMA + categoria grammaticale 0.1. Forme attestate nel corpus dei testi (con tutte le varianti)

La forma lemmatizzata per la voce principale è quella più diffusa nell’uso odierno: ci si serve del GRADIT, Grande dizionario italiano dell’uso, di Tullio De Mauro, con i relativi aggiornamenti.

0.2. Nota etimologica essenziale. 0.3. Prima attestazione nel corpus.

0.3.1. Indicazione numerica della frequenza (per ciascuna forma; nell’indicazione delle occorren-ze, la seconda cifra, preceduta dal segno +, si riferisce alle forme presenti in eventuali indici).3

0.4. Distribuzione geografica delle varianti. Per ora si forniscono i dati relativi ai soli AIS e ALI. Aggiungiamo in nota il riscontro con le for-me registrate da Touring Club Italiano 1931.

0.5. Note linguistiche/merceologiche (forestierismi; italianismi in altre lingue). La bibliografia per ora si riferisce solo alle ‘Note linguistiche’, e, per quanto riguarda gli italianismi in altre lingue, al DIFIT (consultabile in versione elettronica in http://www.italianismi.org/difit-elettronico).

0.6. Riepilogo dei significati.4 0.7. Locuzioni polirematiche e proprie (con la prima attestazione nel corpus). 0.8. Rinvii (sono previsti soprattutto ‘iperlemmi’, o, se si preferisce voci ‘generali’, di raccordo).5

2 L'elaborazione e la definizione del corpus sono state realizzate da un gruppo di lavoro cui ha dato un contributo fonda-mentale Giovanna Frosini. 3 Il corpus di riferimento è in costruzione: cfr. infra la n. 7. 4 Il ‘Riepilogo dei significati’ è ovviamente elaborato dal Redattore (quando si ha un unico significato, la definizione coincide con quella del punto 1). 5 Cfr. infra la n. 12.

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0.9. Corrispondenze lessicografiche (= riscontri nei dizionari e nei corpora lessicografici in rete): si di-stinguono i vocabolari etimologici (compreso il LEI) da quelli descrittivi (in ordine cronologico, a parti-re dal Tommaseo-Bellini). 1. Prima definizione

Contesti 1.1. Definizione subordinata

Contesti 1.2. Definizione subordinata

Contesti [...] 2. Seconda definizione

Contesti [...]. Gli spogli sono raggruppati prima per significato e poi in base alle forme registrate, presentate in ordine alfabetico; le citazioni si susseguono di norma in ordine cronologico. All’interno delle citazioni saranno messe in evidenza con il sottolineato doppio (oltre, naturalmente, alle occorrenze della variante consi-derata) tutte le determinazioni del lemma (espansioni sintagmatiche, polirematiche, locutions figées) che possano avere rilevanza ai fini ipertestuali. Per voci particolarmente complesse si prevede un “campo di sintesi” conclusivo. Le voci riporteranno la sigla del Redattore e la data di stesura. 2. La voce Bagnomaria Con la voce Bagnomaria proponiamo un ‘caso’ di terminologia gastronomica che non designa un cibo o una ricetta ma una tecnica di cottura o l’utensile relativo: in considerazione di ciò la voce sarà divisa in due ‘entrate’.6 BAGNOMARIA1 s. m.7 “tecnica di cottura (o di riscaldamento) che consiste nel mettere i cibi in un recipiente immerso in acqua che viene direttamente scaldata”. 0.1. [Forme attestate nel corpus dei testi]8 bagno maria, bagnomaria, bagno-maria.

6 La voce è presentata seguendo l’impostazione formale prevista per il VoSCIP; gli esempi sono riportati rispettandone al massimo la grafia e la paragrafematica originale e di conseguenza non seguono la formattazione generale di questo volume. Dal momento che le voci sono realizzate sulla base del corpus di testi e di vocabolari individuati, non vi appaiono usi in essi non documentati, quale, a es. per bagnomaria, il valore metaforico di tenere a bagnomaria, per cui cfr. almeno il Vocabolario del Fiorentino Contemporaneo (cons. in rete, http://www.vocabolariofiorentino.it/), col valore di ‘tenere qualcuno sulla corda, la-sciarlo in attesa di un evento, di una risposta [DQ]’ (ma cfr. pure “Marino sceglie di non scegliere e lascia ancora i romani a bagnomaria”, http://www.secoloditalia.it/2015/10). 7 Si noti che TB e RF indicano la voce come s. f., anche se nel primo gli esempi pertinenti sono tutti maschili, e il secondo non fornisce esempi utili. 8 Il corpus è in costruzione; per la voce qui presentata ci siamo basati sugli spogli dei seguenti testi: Artusi 1891 (= Artusi, Pellegrino. 1891. La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene. Manuale pratico per le famiglie. Firenze: Landi, 1a ed.); Artusi 1911 (= Artusi, Pellegrino. 1911. La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene. Manuale pratico per le famiglie. Firenze: Landi, 15a ed.); Boni 1927 (= Boni, Ada. 1927. Il talismano della felicità. Roma: Edizioni della Rivista “Preziosa”, 2a ed.); Borgarello 1904 (= Il ga-stronomo moderno. Vademecum ad uso degli albergatori, cuochi, segretari e personale d’albergo corredato da 250 menus originali e moderni e da un dizionario di cucina contenente oltre 4000 traduzioni ed annotazioni sul significato e l’etimologia dei termini più in uso nel gergo della cucina francese. Milano: Hoepli, 1904); Codice gastrologico 1841 (= Codice gastrologico economico per istruzione dei giovani che vogliono profes-sare l’arte della cucina. Firenze: Per i Tipi di G. Galletti, 1841); Giaquinto 1931 (= Giaquinto, Adolfo. 1931. Il mio libro: cucina di famiglia e pasticceria. Grottaferrata: Scuola Tip. Italo-Orientale «S. Nilo», 11a ed. [1a ed. 1899]); Giorgina 1941 (= Almanacco della cucina 1941. Compilato a cura di Giorgina. Contiene n. 650 ricette pratiche, economiche fra le più gustose. Milano: Sonzogno, 1940); Guerrini 1918 (= Guerrini, Olindo. 1918. L’arte di utilizzare gli avanzi della mensa raccolta da Olindo Guerrini. Roma: Formiggini); «La Cucina italiana» (= «La Cucina italiana», Società Anonima Notari, annate 1929, 1943); Lazzari Turco 1904 (= Lazzari-Turco Turcati, Giulia. 1904. Manuale pratico di cucina, pasticceria e credenza per l’uso di famiglia. Venezia. Tipografia Emiliana); Maestrelli 1866 (= Maestrelli, Domenico. 1866. Il vitto del soldato. Manuale di bromatologia pratica. Firenze: Collini); Prato 1901

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0.2 [Nota etimologica essenziale] (NDELI) Su bagnomaria [...] non resta che riprendere la ripetuta spie-gaz., secondo cui il n. deriverebbe dal n. della leggendaria alchimista Maria l'Ebrea, sorella di Aronne (Migl. NP 70, 104). (LEI) balneum/baneum colonna 952 […] Tra le forme dotte si distingue balneo Marie (II. 1), sintagma che risale al lat. mediev. alchimistico, cfr. balneum Mariae ‘fornax philosophicus’ (1300ca., DC). Già Ménage 1694 riferì il nome Maria all’unica sorella di Mosè, a cui si attribuirono ope-re alchimistiche in epoca alessandrina (BlWartburg). Probabilmente l’episodio risale all’Esodo 2, 3-4 dove si dice che la sorella di Mosè protesse il fanciullo esposto nel cestino; il bambino abbandonato in un cestino nel Nilo poteva ricordare agli alchimisti il loro bagno di Maria (Keller, FEW 6/I, 341b), in rapporto con Maria l’Ebrea, leggendaria alchimista, sorella di Aronne. Più tardi questa Maria venne con-fusa con la Vergine Maria quando gli alchimisti chiamarono la forza della pietra dei savi opus Virginis Mariae (Ménage 1694).9 0.3. [Prima attestazione nel corpus] Codice gastrologico 1841. 0.3.1. [Indicazione numerica della frequenza nel corpus (per ciascuna forma)] bagno maria [62]: Codice gastrologico 1841 [1]; Artusi 1891 [32+3];10 Prato 1901 [2]; Borgarello 1904 [1]; Lazzari Turco 1904 [1]; Guerrini 1918 [4]; Boni 1927 [6]; «Cucina italiana 1943» [12]; bagnomaria [309]: Maestrelli 1866 [1]; Via-lardi 1899 [8]; Prato 1901 [1]; Borgarello 1904 [16]; Lazzari Turco 1904 [180+15]; Artusi 1911 [2]; Tamburini 1913 [1]; Guerrini 1918 [1]; Boni 1927 [34+2]; Giaquinto 1931 [14]; Giorgina 1941 [23]; «Cucina italiana 1943» [11]; bagno-maria [322]: Codice gastrologico 1841 [8]; Maestrelli 1866 [8]; Vialardi 1899 [5]; Prato 1901 [137+10]; Borgarello 1904 [1]; Lazzari Turco 1904 [4]; Artusi 1911 [38+3]; Tam-burini 1913 [32]; Guerrini 1918 [37]; Boni 1927 [22]; Giaquinto 1931 [13+1]; «Cucina italiana 1943» [3]. 0.4. [Distribuzione geografica delle varianti]. 0.5. [Note linguistiche/merceologiche (forestierismi; italianismi in altre lingue)]11 B. Migliorini, Dal nome proprio al nome comune, Genève, L. S. Olschki, 1927, pp. 70, 104. 0.6. [Riepilogo dei significati] 1.Tecnica di cottura.12 0.7. [Locuzioni polirematiche vere e proprie (con la prima attestazione nel corpus)]. 0.8. [Rinvii]13 BAGNOMARIA2 s. m. “recipiente per il bagnomaria”. 0.9. [Corrispondenze lessicografiche (= riscontri nei dizionari e nei corpora in rete)]14 NDELI bagnomarìa s.m. ‘sistema indiretto di riscaldamento di un recipiente mediante un liquido, in ge-nere acqua, che viene direttamente scaldato’ (bagno marie: 1539, A. Piccolomini; bagno di Maria: av. 1557, P. Mattioli; bagnomaria: av. 1537, V. Biringuccio), ora relegato nella terminologia gastronomica con la loc. a bagnomaria (1772, D’Alb.). Su bagnomaria (balneo of Mary in ingl., 1471: Fennell) non resta che ri-prendere la ripetuta spiegaz., secondo cui il n. deriverebbe dal n. della leggendaria alchimista Maria l’Ebrea, sorella di Aronne (Migl. NP 70, 104). NOC bagnomaria s. m. [sec. XVI], comp. col nome di Ma-ria l’Ebrea, leggendaria alchimista, sorella di Aronne secondo una tradizione araba. LEI bal-neum/baneum II.1.It. (farsi bollire in) balneo marie ‘sistema indiretto di riscaldamento’ (1550, Ricetta-rioFior 80), fare … nel bagno di Maria (ante 1557, Mattioli, B), strugg[ersi] in bagnomarie (1567, Ricettario

(= Prato, Caterina. 1901. Manuale di cucina per principianti e per cuoche già pratiche, IV ed. italiana, riveduta ed accresciuta da Ottilia Visconti Aparnik. Graz: Libreria Styria editrice [1a ed. 1893]); Tamburini 1913 (= Ferraris Tamburini, Giulia. 1913. Come posso mangiar bene? Libro di cucina con oltre 300 precetti e 756 ricette di vivande comuni, facili ed economiche adatte agli stomachi sani e a quelli delicati. Milano, Hoepli [1a ed. 1900]); Vialardi 1899 (= Vialardi, Giovanni. 1899. Il piccolo Vialardi: cucina semplice ed eco-nomica per le famiglie. Torino: Roux Frassati e C.). 9 Alla n. 14 si precisa: «Cfr. il fr. medio baing-Marie m. ‘ustensile composé d’un double récipient, dont le premier contient l’eau, et le second la substance à chauffeur (t. de chimie)’ (1500ca., FEW 6/1, 340b). Keller (ib.) cita nella n 55 it. bagno-maria (sec. XV, BattistiAl). Il DEI confonde la prima edizione del Ricettario fior. (1499), dove non è attestato, con la seconda (1550), dove alla p. 80 si legge balneo marie; l’attestazione italiana rivela dunque chiaramente la sua origine dal lat. mediev. […]». 10 Come si è anticipato, nell’indicazione delle occorrenze, la seconda cifra, preceduta dal segno +, si riferisce alle forme pre-senti in eventuali indici. 11 La voce non è presente nel DIFIT. 12 Sono stati programmaticamente tralasciati gli esempi di pertinenza strettamente chimica. 13 Come ‘Rinvii’ sono previsti soprattutto ‘iperlemmi’ (voci “generali”) di raccordo (in questo caso qualcosa come “Metodi di cotture” per il significato 1, o “Utensili di cucina” per il 2), oltre che, naturalmente, rinvii incrociati fra voci analoghe. 14 Si distinguono i vocabolari etimologici (compreso il LEI) da quelli descrittivi (in ordine cronologico, a partire dal Tomma-seo-Bellini).

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fior., TB), bagnomaria (dal 1567, id., TB; Crusca 1866; B; Zing 1983), bagnomaria (Florio 1611; Zing 1970; ib. 1983), bagnomaria (Oudin 1640 – Veneroni 1681), bagno-maria (1826, StampaMilConcord; 1844, ib.), bagno Maria (dal 1970, Zing; ib. 1983), piem. bagn d’ maria Capello, bagn-maria Zalli 1815, bagnmaria Di-Sant’Albino, mil. Bagnmarìa Cherubini, vogher. báñ-mαríα Maragliano, emil.occ. (parm.) bagn-maria Mala-spina, bol. bagnmarì Coronedi, venez. bagnmarìa Boerio, bagnmarie ib., triest. bagnomarìa (Pinguentini; DET), corso bagnumaria Falcucci, roman. Bagnimarìa VaccaroBelli, molis. (Campodipietra) bbaññǝmarínǝ DAM, sic. vagnumarìa Traina. It. (farlo bollire) a bagno marie ‘a bagnomaria’ (1539, Piccolomini, B), (cuocere, scaldare, porre, ecc.) a bagnomarìa (ante 1597, Soderini, Acc 1941; dal 1868, Dossi, B; Lapucci 23; Zing 1983), a bagno maria (dal 1671, Redi, B; TB; Crusca 1866; Zing 1983), cuocere a bagno-Maria (1955, Gadda, B), moes. (Soazza) a bagnomaria (VSI 2,48b), lig.occ. (sanrem.) a bagnomaria Carli, pav. a bagnmaría Anno-vazzi, emil.occ. (parm.) a bagnmaria Malaspina, mant. (cösar) a bagnmaria Arrivabene, emil.or. (bol.) (cusr’) a bagn mari Coronedi, triest. (kuziná[r])a bañomaría DET, tosc. a bagno maria FanfaniUso, corso (cóce, scal-là) a bagnumaria Falcucci, molis. (Campodipietra) a bbaññǝmarínǝ DAM; […] bagnomarie D’AlbVill 1772, ‘acqua bollente in cui si metta alcun vaso per farvi cuocere carni o altro’ ib. TB bagnomarìa e bagnomarìe s. f. 2. ‘Scaldare, Tenere, o sim., checchessia a bagnomaria, vale Scaldarlo, Tenerlo, o sim., in vaso posto in altro vaso pieno d’acqua calda, o bollente’. CRUSCA V BAGNOMARIA, ed anco BAGNOMARIE e BAGNO DI MARIA. Sost. Masc. […] § A bagnomaria, posto avverbialm. coi verbi Stilla-re, Scaldare, Tenere e simili, vale In vaso posto dentro ad altro vaso pieno d’acqua più o meno calda. RF bagnomaría s. f. ‘Il mettere un vaso dove sia cosa o da stillarsi, o da struggersi, o da cuocersi, in un altro vaso con ac-qua mantenuta a bollore; ma usasi sempre nella maniera A bagnomaria: «Cuocere, Scaldare, Stillare ec. a bagnomaria». GDLI bagnomaria (ant. bagno di Marìa) s. m. ‘riscaldamento o cottura a calore uniforme, mediante l’immersione di un recipiente (che contiene la sostanza da scaldare o cuocere) nel liquido (o nel suo vapore) contenuto a sua volta in un altro recipiente, in modo da fare evitare al primo il contatto diretto col fuoco’; comp. da bagno e Maria, forse il nome di una sorella di Mosè a cui furono attribuite ricette di alchimia. TRECC bagnomaria s. m. (o bagno Marìa) [dal nome della leggendaria alchimista Maria l’ebrea, sorella di Mosè e d’Aronne]. 1. Nella locuz. avv. (cuocere, scaldare, cottura) a bagnomaria, modo di riscaldare o di cuocere cibi o altre sostanze che al calore diretto possono subire alterazioni, tenendoli in un recipiente messo dentro un altro recipiente più grande contenente acqua mantenuta a temperatura determinata, inferiore di solito a quella di ebollizione. DISC bagnomaria meno freq. bagno Maria, bagno maria, usato solo nella loc. a b., per indicare ‘il metodo di cottura o di intiepidimento dei cibi consistente nell’immergere il recipiente con le vivande in un altro in cui bolle l’acqua’: cuocere, mettere, riscaldare a b.; comp. di bagno e Maria, nome della sorella di Aronne, alchimista leggendaria, sec. XVI. GRADIT bagno-maria s. m. inv. [av. 1537; dalla loc. lat. mediev. balneu(m) Mariae “bagno di Maria” con riferimento alla leggendaria alchimista sorella di Mosè]; a bagnomaria loc. avv. ‘metodo di cottura che consiste nel porre le vivande in un recipiente immerso in acqua che bolle’. DEV-OLI bagnomaria s. m., invar. 1. ‘Riscalda-mento o cottura di vivande in un recipiente non a contatto diretto del fuoco, ma immerso in acqua mantenuta alla temperatura desiderata’; viene usato specialmente nella locuzione avverbiale a bagnomaria. [Comp. di bagno e del nome di Maria l’Ebrea, alchimista, sorella leggendaria di Mosè]. ZING Bagnomarìa o bàgnoMarìa, (raro), bàgnomarìa [comp. di bagno¹ e Maria l’Ebrea, sorella di Mosè, ritenuta popolarmente un’alchimista *av.1537] s. m. inv. sistema indiretto di riscaldamento di un recipiente che viene immerso in acqua direttamente scaldata.

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1 [Primo significato]15 bagno maria «Cucina italiana 1943, 2, febbraio»: 20 (III colonna): «Circa la limitazione dei gradi di calore si faccia uso del bagno maria in luogo del fuoco libero». a bagno maria Artusi 1891: 313: «Croccante a bagno maria»; «Cucina italiana 1943, 3, marzo»: 35 (II colonna): «Con-centrazione del succo di pomodoro per congelamento ed a bagno maria nel vuoto»; «Cucina italiana 1943, 4, aprile»: 55 (III colonna): «adottare il sistema a bagno maria che non spreca acqua di cottura»; «Cucina italiana 1943, 5, maggio»: 73 (I colonna): «sterilizzazioni a bagno maria»; “assodare a b. m.” Artusi 1891: 14, 202 («Ritirati dal fuoco, legateli con balsamella, uova e parmigiano e assodate il composto a bagno maria»); “cuocere a b. m.” Artusi 1891: 18, 19, 157, 158, 168 (Artusi 1891: 173: «Cuocetelo al fuoco o a bagno maria e servitelo caldo»), 174 bis, 175, 202, 296, 297, 299, 300, 313, 315, 322, 332; Prato 1901: 390; Borgarello 1904: 175: «Pain de gelinotte à la Skobelew, farsa di starna cotta in forma a bagno maria con gelatina, servita con tartufi e rognoni di pollo»; Guerrini 1918: 56: «cuocete a bagno maria» (e 313); Bo-ni 1927: 147, 205, 416; “fare ristringere a b. m.” Artusi 1891: 162; “liquefare, sciogliere, struggere il burro a b. m.” Artusi 1891: 240, 247: «il burro liquefatto a bagno ma-ria», 266 («il burro, sciolto a bagno maria»), 293 («Il burro, d’inverno, struggetelo a bagno maria»); “mettere a b. m.” Artusi 1891: 162; Lazzari Turco 1904: 30; Boni 1927: 186; (cfr. anche Artusi 1891: 326: «rimettetelo al fuoco a bagno»; “porre a b. m.” Codice gastrologico 1841: 27; «Cucina italiana 1943, 2, febbraio»: 20 (III colonna); “rammorbidire a b. m.” Artusi 1891: 262, 287, 288; “rapprendere a b. m.” «Cucina italiana 1943, 3, marzo»: 37 (I colonna); «Cucina italiana 1943, 4, aprile»: 54 (I colonna); “restringere a b. m.” Artusi 1891: 116: «restringendo il riso a bagno maria entro a uno stampo»; “ristringere a b. m.” cfr. “fare ristringere a b. m.”; “riscaldare a b. m.” Guerrini 1918: 11; “sciogliere a b. m.” Guerrini 1918: 92; “tenere a b. m.” Boni 1927: 105: «Si batte la stampa affinchè non restino vuoti e poi si tiene la stampa a bagno maria, in caldo».

dal bagnomaria “levare dal b. m.” Artusi 1891: 162; Prato 1901: 407: «Levato dal bagno maria il piatto o le chicchere contenenti la crema a vapore, questi si pongono, rasciugati che sieno, sopra un vassoio»; Boni 1927: 416. bagnomaria Boni 1927: 475: «C’è chi fa anche lo zabaione a fuoco nudo, lavorandolo direttamente sulla brace, ma il bagnomaria è preferibile». a bagnomaria Maestrelli 1866: 168; Lazzari Turco 1904: 216: «stampo a bagnomaria», 178 («Crema a bagnomaria fritta», nel titolo di una ricetta come a 191, 222, 537 ter, 543, 715), 225, 494 (e 504), 538, 570: «Procura-tevi mezzo litro di sugo con gr. 1000-1300 di frutta, spremendolo dall’apposito torchiello e lasciandolo chiarire o estraendolo naturalmente a bagnomaria» (cfr. 716: «Estraete il sugo delle cesarelle a bagnoma-ria come è accennato nella ricetta precedente»), 711: «Un’ebollizione di pochi minuti a bagnomaria con-tribuisce molto alla conservazione degli sciroppi»,16 716: «Come sopra, soltanto quando le more si tro-15 Come detto supra, gli spogli sono raggruppati prima per significato e poi in base alle forme registrate, presentate in ordine alfabetico; le citazioni si susseguono di norma in ordine cronologico. All’interno delle citazioni saranno messe in evidenza con il sottolineato doppio (oltre, naturalmente, le occorrenze della variante considerata) tutte le determinazioni del lemma (espansioni sintagmatiche, polirematiche, locutions figées) che possano avere rilevanza ai fini ipertestuali. Per voci particolar-mente complesse si prevede un ‘campo di sintesi’ conclusivo. Per questa, come per la voce successiva, l’analisi è tendenzial-mente esaustiva (fatta eccezione per i pochi casi banalmente ripetitivi). 16 Cfr. infra “far bollire a b.”.

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vano nella pentola, a bagnomaria, versate fuori il sugo di mano in mano che si va formando»; Boni 1927: 337: «Se invece desiderate di fare la cottura a bagnomaria, ciò che dà forse un risultato più fine, dovrete imburrare e infarinare la stampa, escludendo il pane pesto», 521 («La cottura dei budini al forno è un po’ più breve di quelli a bagnomaria»); «Cucina italiana 1943, 1, gennaio»: 4 (I colonna) bis: «prose-guendo la cottura possibilmente a bagnomaria», «Date la preferenza alla cottura a bagnomaria»; “asciugare a b.” Boni 1927: 518: «si asciuga questa polpa a bagnomaria per far perdere tutta l’umidità»; “bollire a b.” cfr. “far bollire a b.” e anche “far sobbollire a b.”;17 “collocare a b.”: Lazzari Turco 1904: 44 («collocate il pentolino a bagnomaria»), 301, 715: «raccoglietelo in una pentola nuova, collocate questa (coperta bensì ma non chiusa) a bagnomaria per mezz’ora», 759, 782 («collocandoli però in bottiglie bene tappate ma non piene con grande precauzione a bagnomaria»), 812; “conservare a b.”: Lazzari Turco 1904: 31: «senza più far bollire la salsa conservatela a bagnomaria», 446, 472, 830: «mettetela quindi in vasi di vetro e versatevi sopra il grasso tiepido che avrete conservato a bagnomaria»; «Cucina italiana 1943, 5, maggio»: 70 (III colonna): «conservatelo in caldo a bagnomaria fino al momento di mandare in tavola»; “cuocere a b.” Borgarello 1904: 28, 36, 46(«cotto in forma a bagnomaria», e 83, 138), 50, 51, 61, 96, 104 («cotti al sugo nel bagnomaria»), 119 bis, 126, 198 bis, 203; Lazzari Turco 1904: 56: «cuocete 2-3 ore o più a bagnomaria» (e 84, 85 bis), 172, 178(«Cuocete il composto a bagnomaria», e 191), 209 («Budini cotti nel tovagliolo a bagnomaria»), 215 ter, 216 ter, 217, 218 ter, 219bis, 220bis e 221 bis, 224 qua-ter, 225 quater, 225 («cotto a bagnomaria»), 245, 333 («Cuocete il composto a bagnomaria»), 333 (e 334, 337), 338: «Potete anche collocare la terrina in un recipiente con dell’acqua che la bagni fino alla metà, e così il composto si cuocerebbe nel forno bensì ma a bagnomaria», 504: «I budini più fini si cuociono tutti a bagnomaria», 511 bis, 512, 514, 515,516 («soltanto le albicocche devono crescere di numero ed essere cotte a bagnomaria»), 517 bis, 518, 531, 537, 538 bis, 540, 561, 754, 769, 772, 775, 776, 779, 812, 813 bis, 816 («cotte a bagnomaria nei vasi saldati per uno spazio di tempo proporzionato alla loro gran-dezza e a quella dei vasi»); Artusi 1911: 485: «Cuocetelo a bagnomaria»; Guerrini 1918: 14: «cuocerla a bagnomaria»; Boni 1927: 190, 273, 328, 337;18 Giaquinto 1931: 338: «conservare il tonno in iscatole sal-date e cotte a bagnomaria»; Giorgina 1941: 9 bis; «Cucina italiana 1943, 5, maggio»: 66 (II colonna): «Poi si mescolano con la besciamella e si cuociono nella forma da sformato, a bagnomaria»; cfr. “far cuocere a b.”, “lasciar cuocere a b.”, “mettere a cuocere a b.”; “estrarre a b.” Lazzari Turco 1904: 763: «Estraete il sugo dell’uva a bagnomaria»; “fare a b.” Lazzari Turco 1904: 59: «Fate una crema a bagnomaria», 567, 568, 569 (sempre con crema); “far bollire a b.” Tamburini 1913: 176: «Si mettono in bottiglie, o vasi di cristallo, che si riempiono di sciroppo freddo a 18° e si fanno bollire per alcuni minuti a bagno-maria», 810: «Potete anche coprirle d’una salamoia più leggera e farle poi bollire, in vasetti chiusi, alcuni minuti a bagnomaria»; Giaquinto 1931: 341: «far bollire il barattolo a bagnomaria»; cfr. “far sobbollire a b.”; “far cuocere a b.” Lazzari Turco 1904: 521: Amalgamate ogni cosa colle uova sbattute nel cognac e nel latte, mettete il composto in uno stampo e fatelo cuocere a bagnomaria non meno di 4 ore per servirlo poi freddo con una salsa di cognac»; Boni 1927: 57: «versateci il composto e fatelo cuocere a bagnomaria» (come a 349), 331: «Mettete il budino in una casseruola piuttosto grande con acqua calda, avvertendo che l’acqua giunga soltanto a un paio di dita sotto l’orlo della stampa e fate cuocere a bagnomaria per circa un’ora, per dar modo al budino di rassodarsi»; Giaquinto 1931: 298: «fatelo cuocere a bagnomaria, con un pochino di bragia sul coperchio», 375, 376, 377, 389; cfr. “cuocere a b.”, “lasciar cuocere a b.”; “far lessare a b.” Giorgina 1941: 13, 37, 46, 53, 107: «Fatevi dare dal macellaio un bel pezzo di fesa, te-nera, magra e compatta e fatela lessare per un paio d’ore a bagnomaria», 130, 154, 161, 164; “far sobbollire a b.” Lazzari Turco 1904: 776: «continuando a cuocerle e rimestarle, o facendole sobbol-lire a bagnomaria a intervalli per diversi giorni»; cfr. “far bollire a b.”; “fondere, liquefare, sciogliere, squagliare il burro a b.” Lazzari Turco 1904: 230: «Spalmate questi ret-tangoli con del burro fuso a bagnomaria», 257, 491: «Il burro per le crêpes si fonde a bagnomaria», 526: 17 Cfr. supra Lazzari Turco 1904: 711 («Un’ebollizione di pochi minuti a bagnomaria»). 18 Qui anche 337: «fare la cottura a bagnomaria» (cfr. supra anche per 521 «La cottura dei budini al forno è un po’ più breve di quelli a bagnomaria.» e per «Cucina italiana 1943, 1, gennaio»: 4 (I colonna) bis).

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«untate di burro sciolto a bagnomaria», 623 bis, 624, 627, 634, 636, 647 bis; Boni 1927: 542: «Anzichè fondere il burro su fuoco nudo, si può anche operare a bagnomaria»; Giaquinto 1931: 374: «Intanto squaglierete il burro (se è inverno) a bagnomaria», 452: «fate liquefare a bagnomaria 100 gr. di burro»; Giorgina 1941: 29: «40 gr. di burro sciolto a bagnomaria», 56: «Al momento di servire si aggiunge il bur-ro liquefatto a bagnomaria», 64: «amalgamateli in una casseruolina con l’olio e il burro fuso a bagnoma-ria»; “frullare a b.”: Lazzari Turco 1904: 27: «frullatelo a bagnomaria aggiungendovi qualche cucchiaio di buon consommé», 728, 527; “lasciar cuocere a b.”: Lazzari Turco 1904: 328: «Lasciate cuocere per una mezz’ora abbondante a ba-gnomaria, e quando il composto si sarà bene rassodato, rovesciatelo su un piatto, e completatelo con una piramide di pisellini al prosciutto»; cfr. “cuocere a b.”, “far cuocere a b.”; “lasciar rammollire a b.”: Lazzari Turco 1904: 716: «mettete i grappoletti in una pentola nuova e questa in un paiolo con dell’acqua fredda e lasciateli rammollire a bagnomaria finchè si possono comprimere per estrarne il sugo»; “lessare a b.” cfr. “far lessare a b.”; “liquefare il burro a b.” cfr. “fondere, liquefare, sciogliere, squagliare il burro a b.”; “mestare a b.” Lazzari Turco 1904: 64; “mescolare a b.” Lazzari Turco 1904: 72: «Mescolate (se in tempo d’inverno accanto al fuoco o a ba-gnomaria)»; “mettere a b.” Lazzari Turco 1904: 30, 41 («Mettete il pentolino a bagnomaria»), 41, 219, 222, 223 («Mettete il composto a bagnomaria in uno stampo a cilindro»), 534, 544 («mettendo 900 gr. di frutta sgranate in una pentola a bagnomaria»), 565 («Mettete in un recipiente, a bagnomaria»), 566 bis, 567, 570 bis, 575, 576, 717, 718, 720, 725 bis, 749, 773, 775, 778, 778 bis, 779, 780 bis, 793 («mettete la bot-tiglia a bagnomaria (nell’acqua fredda)»); qui anche 775 («rimetteteli sul fornello a bagnomaria e fate bollire l’acqua alcuni minuti»); Boni 1927: 478: «Fatto questo, mettete la stampa a bagnomaria in un re-cipiente grande contenente acqua quasi bollente», 479 («Mettete il budino a bagnomaria»); Giorgina 1941: 64: «mettete la casseruolina a bagnomaria»; “mettere a cuocere a b.” Boni 1927: 192 «Prendete ora una stampa da bordura della capacità di circa un litro, imburratela abbondantemente, versateci dentro il composto, pareggiatelo bene e poi mettete a cuocere il flan a bagnomaria per circa un’ora, fino a che si sarà ben rassodato», 245: «Mettete a cuocere il budino a bagnomaria, mettendo anche un po’ di brace sul coperchio»; cfr. “cuocere a b.”, “far cuoce-re a b.”, “lasciar cuocere a b.”; “ottenere a b.” Lazzari Turco 1904: 716: «versatevi il sugo ottenuto a bagnomaria», 756: «Questo sugo si deve ottenere a bagnomaria e colarlo da un sacchettino senza spremere»; “preparare a b.” Lazzari Turco 1904: 777: «Le marmellate per i gelati si preparano generalmente a ba-gnomaria»; “rammollire a b.” Lazzari Turco 1904: 487: «Rammollite 50 gr. di burro a bagnomaria», 497; “rapprendere a b.” Tamburini 1913: 228: «fatelo rapprendere a bagnomaria, con fuoco sotto e sopra»; Boni 1927: 57: «In linguaggio di cucina si chiama Royale un composto cremoso di uova rappreso a ba-gnomaria»; «Cucina italiana 1943, 2, febbraio»: 31 (III colonna): «fate rapprendere a bagnomaria tenen-do il recipiente coperto»; «Cucina italiana 1943, 5, maggio»: 70 (I colonna) bis; “rassodare a bagnomaria” Giorgina 1941: 13: «Frullate le uova con due cucchiai d’acqua e un po’ di sale, fateli rassodare a bagnomaria»; «Cucina italiana 1943, 4, aprile»: 52 (III colonna); “restringere a b.” Lazzari Turco 1904: 733: «lasciate restringere la cioccolata a bagnomaria rimestandola di tanto in tanto»; Artusi 1911: 191: «restringendo il riso a bagnomaria entro a uno stampo» (qui anche Lazzari Turco 1904: 808: «Continuate a ristringere il passato a bagnomaria finch’è denso»); “riscaldare a b.” Lazzari Turco 1904: 30, 301, 566 bis, 733, 811: «Quando i funghi v’occorrono aprite un vaso e riscaldateli un momento a bagnomaria»; Giorgina 1941: 43: «ricoprendole con questa salsa che avrete riscaldata a bagnomaria», 137; «Cucina italiana 1943, 5, maggio»: 69 (II colonna): «Procedimento migliore è quello per cui si riscalda il pomidoro a bagnomaria», «Cucina italiana 1943, 7, luglio»: 101 (I colonna);

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“sciogliere a b.” Lazzari Turco 1904: 3, 26, 30, 53, 69, 73, 125, 133, 258 («un pezzo di midollo di manzo appena sciolto a bagnomaria»), 290, 430, 568 bis, 823; Boni 1927: 458: «Si prende ora un pezzo di cioc-colato da «copertura» […] e si fa sciogliere in una piccola casseruola a bagnomaria», 461: «Sciogliete al-lora un po’ di gomma arabica in pochissima acqua, preferibilmente a bagnomaria», 513; Giorgina 1941: 150: «amalgamatevi il midollo sciolto a bagnomaria», 154; «Cucina italiana 1943, 5, maggio»: 67 (III co-lonna): «mettete a sciogliere a bagnomaria un quantitativo di miele sufficiente per indolcire il riso»; “sciogliere il burro a b.” cfr. “fondere, liquefare, sciogliere, squagliare il burro a b.”; “squagliare il burro a b.” cfr. “fondere, liquefare, sciogliere, squagliare il burro a b.”; “tenere a b.” Lazzari Turco 1904: 569: «sbattete il composto colla frusta tenendolo a bagnomaria senza lasciarlo bollire»; Giorgina 1941: 82: «tenete il recipiente in cui è il burro al caldo a bagnomaria) e il suc-co di un limone»; “tenere a b.” Giorgina 1941: 210: «In un recipiente tenuto al caldo a bagnomaria sbattete i tuorli delle uova con lo zucchero e un quarto di litro d’acqua»; “travasare a b.” Boni 1927: 518: «Si travasa allora nel recipiente a bagnomaria dove è la polpa delle me-le». al bagnomaria Vialardi 1899: 250; Boni 1927: 487: «Crema al bagnomaria e crema al caramello»; “far bollire al b.” cfr. “far bollire al b.”; “cuocere al b.” Vialardi 1899: 253, 254, 263; Prato 1901: 5: «Collo zucchero si spolverizza lo stampo per le paste dolci che vari cotte a vapore (al bagnomaria)»; Giaquinto 1931: 370, 372; “far bollire al b.” Giaquinto 1931: 532: «farle bollire al bagnomaria per 30 minuti»; “fare al b.” Giaquinto 1931: 389: «Questo focaccio, se fatto al bagnomaria può, dopo essere stato sfor-mato sul piatto, ricoprirsi con una salsa di fragole»; “far rapprendere al b.” Vialardi 1899: 269: «fatelo rapprendere in uno stampo al bagnomaria» («su lento fuoco al bagnomaria» 269), 270; “porre al b.” Vialardi 1899: 268: «ponetelo al bagnomaria cioè in un tegame con acqua bollente che giunga ai tre quarti dello stampo»; “rapprendere al b.” cfr. “fare rapprendere al b.”.

dal bagnomaria “levare dal b.” Boni 1927: 36: «levatela dal bagnomaria»; “togliere dal b.” Boni 1927: 479: «toglietelo dal bagnomaria»; Giorgina 1941: 61: «Si toglie per un mo-mento la piccola casseruola dal bagnomaria».

del bagnomaria Boni 1927: 26: «per la azione del bagnomaria», 57: «l’acqua del bagnomaria» (e 190, 215, 331, 484, 478, 487), 487: «la temperatura del bagnomaria». in bagnomaria “mettere in b.” Boni 1927: 484: «Mettete la stampa in bagnomaria, copritela con un coperchio e sul co-perchio mettete qualche po’ di brace». nel bagnomaria “raffreddare nel b.” Giaquinto 1931: 326: «Lasciate poi raffreddare le scatole nel bagnomaria»; “tenere nel b.” Boni 1927: 331: «tenendolo poi in caldo nel bagnomaria stesso, vicino al fuoco». bagno-maria19 Codice gastrologico 1841: 230: «B M – bagno-maria», 262: «BAGNO-MARIA – maniera di cuocere una pietanza nell’acqua che bolle, dentro in un secondo vaso»;20 Maestrelli 1866: 264, 330; Prato 1901: 11: «Riscaldare, tenere in caldo le pietanze riesce meglio in bagno-maria», 34: «Beef-tea. (Brodo concentrato a ba-

19 In alcuni casi, come Vialardi 1899: 67, 254, 269; Prato 1901: 122, 262, 303 ecc.; Borgarello 1904: 47; Lazzari Turco 1904: 220, 224, 225 ecc.; Artusi 1911: 57, 58, 305 ecc.; Tamburini 1913: 53; Guerrini 1918: 41, 155; Boni 1927: 278, 338; Giaquinto 1931: 221, 373, 377; Giorgina 1941: 43, 52, 99; «Cucina italiana 1943, 1, gennaio»: 5 (III colonna) ecc., nei quali la prima par-te (bagno) di bagno-maria compare a fine riga (e di conseguenza il trattino potrebbe segnalare l’a capo), ci si è basati sulla forma all’interno di riga. 20 Cfr. infra “cuocere a b.”.

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gno-maria)», 67 (nota 1): «Per evitare che lo zabaione o la crema si attacchino al fondo e prenda di ab-brucciato si mette la pentola in una più grande con acqua bollente (bagno-maria) e si pone tutto al fuo-co»; Tamburini 1913: 33: «Bagno-maria. Acqua bollente entro cui si pone un vaso nel quale si colloca quanto si vuol far cucinare o riscaldare. Nel dare il bagno-maria alle cibarie si faccia attenzione a che l’acqua nel bollire non abbia da allungare,o da guastare le pietanze»; Guerrini 1918: 22: «tirate fuori la cas-seruola sempre rimestando e aggiungete acqua fredda al bagno-maria»; Giaquinto 1931: 493: «altrimenti basta il bagno-maria ed un poco di cenere calda e di poca brace sul coperchio»; «Cucina italiana 1943, 6, giugno»: 92 (I colonna): «Circa alla cottura dei budini […] il miglior sistema per cuocerli sarebbe di met-terli in forno col loro bagno-maria, la cui acqua dovrebbe mantenersi per tutto il tempo quasi in ebolli-zione, ma senza bollire». Qui anche Giaquinto 1931: 415: «Crema semplice alla bagno-maria detta alla borghese». a bagno-maria Prato 1901: 261: «Salmi a bagno-maria», 385: «A bagno-maria» (anche 401 e 402); Artusi 1911: 490: «Croccante a bagno-maria» (e 576); Tamburini 1913: 220: «Le bottiglie così preparate si sottopongo-no ad una sola ebollizione a bagno-maria»; Boni 1927: 498: «È questa l’operazione più noiosa, poichè la cottura a bagno-maria è lenta e necessita quella pazienza alla quale abbiamo fatto appello»21, 499: «e quando anche lo zucchero sarà alla caramella, versatelo pian piano e sempre mescolando, nella grande casseruola a bagno-maria, dove già sono il miele e le chiare»22; “andare a b.” Tamburini 1913: 157: «I vasi vanno poi a bagno-maria, ma devono subire solamente cinque minuti di ebollizione»; “assodare a b.” Artusi 1911: 52: «versate il detto composto nella medesima per assodarlo a bagno-maria con fuoco sopra», 280, 317, 460, 473; “bollire a b.” cfr. “far bollire a b.”, “mettere a bollire a b.”; “collocare a b.” Lazzari Turco 1904: 717: «collocate la pentola a bagno-maria»; “concentrare a b.” Prato 1901: 34: «Beef-tea. (Brodo concentrato a bagno-maria)»; “cuocere a b.” Codice gastrologico 1841: 58: «Volendolo cuocere a bagno-maria vi metterete le Uova» (ancora un’altra occorrenza), 61, 62: «con questa composizione potrete pur fare dei Gattò cotti a bagno-maria al Forno», 108, 14223; Prato 1901: 34, 37 («L’indomani la si cuoce lentamente a bagno-maria»), 47 («Carne del petto di pollame cotto in stufato unitamente a del farcito cotto a bagno-maria»), 71 («nel frattempo si fa bollire con dello zucchero il succo di frutta cotte a bagno-maria»), 75 «Per arrostire o cuoce-re a bagno-maria», 169, 228, 230, 260, 261 ter ecc.24; Borgarello 1904: 47: «Pouding à la Cambacérès […] cotto in forma a bagno-maria»; Lazzari Turco 1904: 220, 225: «Cuocete a bagno-maria»; Artusi 1911: 57: «Mescolate bene e versate il composto in uno stampo liscio per cuocerlo a bagno-maria», 58, 253, 256, 279, 286: «Cuocetelo al fuoco o a bagno-maria e servitelo caldo», 287, 288 bis, 305, 317, 471, 472, 474, 475 ecc.; Tamburini 1913: 84: «Il composto si versa allora in uno stampo unto di burro e si cuoce come tutti i budini a bagno-maria» (qui un’altra occorrenza), 128, 172, 249; Guerrini 1918: 41, 42, 146, 155, 170, 190, 201, 209: «Versate in uno stampo unto di burro, cuocete a bagno-maria, senza che bolla e per un’ora», 238, 246, 276, 277, 278: «Gli sformati di verdure vanno cotti generalmente a bagno-maria» (qui anche un’altra occorrenza), 293, 294, 328: «Intanto i budini si cuociono sia al forno che a bagno-maria» (qui anche un’altra occorrenza), ecc.; Boni 1927: 187: «La schiuma deve cuocere a bagno-maria per un tempo che varia dai quaranta minuti a tre quarti d’ora», 278, 355 («cuocete il budino a bagno-maria per un’ora circa, fino a che sia ben rassodato»), 467, 482, 483, 484, 487, 498, 499: «Tenete pronto intanto lo zucchero, che cuocendosi a fuoco diretto e non a bagno-maria come il miele, arriva assai più presto di cottura», 500, 511: «fate saldare le scatole dallo stagnaio e cuocetele per un’ora a bagno-maria»,

21 “Cottura a b.” anche in «Cucina italiana 1943, 6, giugno»: 92 (I colonna): «Circa alla cottura dei budini a bagno-maria, il miglior sistema per cuocerli sarebbe […]»; cfr. infra “cuocere a b.”. 22 Cfr. infra per Prato 1901: 262. 23 Cfr. supra per Codice gastrologico 1841: 262: «BAGNO-MARIA – maniera di cuocere una pietanza nell’acqua che bolle, dentro in un secondo vaso». 24 Cfr. anche Prato 1901: 379 (nota 1): «Sotto il nome di coch (Koch) si comprendono le paste leggere generalmente zucche-rate, che si cuociono od al forno o con brage sotto e sopra come pure a bagno-maria (a vapore).», 388: «Con briciole, cotto nello stampo a bagno-maria.» (anche 396, 402, 566). Cfr. Prato 1901: 575 «cottura a bagno-maria».

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539; Giaquinto 1931: 491: «Cuocete a bagno-maria, coperto, oppure nel forno per 20 minuti»; cfr. “far cuocere a b.”, “lasciar cuocere a b.”, “mettere a cuocere a b.”, “porre a cuocere a b.”; “evaporare a b.” Maestrelli 1866: 230: «si pongono 25 cc. di vino da analizzare e se ne evapora il liquido a bagno-maria o nella stufa», 242, 316; “far bollire a b.” Prato 1901: 180, 335; Tamburini 1913: 157 ter, 176 «Si mettono in bottiglie, o vasi di cristallo, che si riempiono di sciroppo freddo a 18° e si fanno bollire per alcuni minuti a bagno-maria»; Guerrini 1918: 65; cfr. “mettere a bollire a b.”; “fare a b.” Giaquinto 1931: 383: «Se possedete una piccola frusta dovrete fare il zabaglione in un casse-ruolino […]; se avete un piccolo frullo di legno potete farlo a bagno-maria, od in una cioccolatiera, in-somma in recipiente più alto e più stretto della casseruola. Ad ogni modo la frusta ed un polzonetto so-no i preferiti»; “far cuocere a b.” Codice gastrologico 1841: 61: «fate cuocere il Budino dentro ad una Cazzeruola pa-nata al Forno, o a bagno-maria, e servitevene subito»; Prato 1901: 286 «s’intonaca lo stampo con carta, poi con code di gamberi e punte d’asparagi, e ricolmato di riso, si fa cuocere a bagno-maria», 301, 303, 374, 381, 383, 390, 391, 394, 402, 422, 557, 569 ecc.; Tamburini 1913: 128: «Si fa cuocere a bagno-maria», 172, 249; Guerrini 1918: 22, 42, 155: «Fate cuocere a bagno-maria e sformatelo», 190, 201, 238: «e si fa cuocere a bagno-maria badando bene che non bolla», 246, 314; Boni 1927: 278: « Nella stampa così preparata mettete il composto di fegato […] e fate cuocere a bagno-maria per un’ora», 467, 487; Giaquinto 1931: 300: «e fate cuocere a bagno-maria coperto con un pochino di bragia sul coperchio», 319: «si versa il composto nel piatto burraio e si fa cuocere a bagno-maria finchè sarà quagliato»; Gior-gina 1941: 52; cfr. “cuocere a b.”, “lasciar cuocere a b.”, “mettere a cuocere a b.”, “porre a cuocere a b.”; “far liquefare il burro a b.” Artusi 1911: 472: «Fate liquefare il burro a bagno-maria e nel medesimo ver-sate lo zucchero e la cioccolata»; cfr. “liquefare, rammorbidire, sciogliere struggere il burro a b.”; “far rapprendere a b.” Boni 1927: 31: «si liscia la superficie con una lama di coltello e si fa rapprendere la farcia a bagno-maria o in forno»; cfr. “porre a rapprendere a b.”; “far riscaldare a b.” Guerrini 1918: 247: «Versate questa salsa sui merluzzi e fate riscaldare a bagno-maria»; “far ristringere a b.” Artusi 1911: 260; “lasciar cuocere a b.” Prato 1901: 382: «Questa miscela si riempie in uno stampo spolverizzato collo zucchero, lasciandola cuocere 3/4 d’ora a bagno-maria» (e 557); Guerrini 1918: 277: «lasciate cuocere mezz’ora al forno o a bagno-maria»; cfr. “cuocere a b.”, “far cuocere a b.”, “mettere a cuocere a b.”, “porre a cuocere a b.”; “liquefare, rammorbidire, sciogliere, struggere il burro a b.” Artusi 1911: 384 «D’inverno sciogliete il burro a bagno-maria», 385 («versate il burro, sciolto d’inverno a bagno-maria»), 397: «poi vi si versa a poco per volta la farina, lavorandola ancora, e per ultimo il burro liquefatto a bagno-maria», 417: «D’inverno rammorbidite il burro a bagno-maria e lavoratelo colle uova», 422: «il burro sciolto a bagno-maria»), 454: «Lavorate prima il burro da solo con un mestolo, rammorbidendolo un poco d’inverno a bagno-maria», 455(«il burro […] rammorbidito d’inverno a bagno-maria»), 468: «Il burro, d’inverno, struggetelo a bagno-maria e lavoratelo con un mestolo»; cfr. “far liquefare il burro a b.”; “mettere a b.” Lazzari Turco 1904: 224: «Quando lo stampo è colmo fino a due dita dall’orlo mettetelo a bagno-maria», 260; Tamburini 1913: 130: «Mettete lo stampo a bagno-maria per tre quarti d’ora con fuoco sotto e sopra», 259, 406: «Mettete il piatto a bagno-maria sopra una casseruola colma d’acqua bol-lente»; Guerrini 1918: 21: «Però, se si vuol riscaldare, bisogna metterla a bagno-maria, se no addense-rebbe troppo», 222: «Passate al setaccio e mettete a bagno-maria fino a consistenza voluta», 258: «Met-tete il tutto a bagno-maria e a debol fuoco, perchè, se bolle, il piatto anderà a male», 298; Giaquinto 1931: 295: «si fa cuocere una cucchiaiata del composto mettendolo a bagno-maria in un piccolo reci-piente», 300: «e fate cuocere a bagno-maria coperto con un pochino di bragia sul coperchio», 319: «si versa il composto nel piatto burraio e si fa cuocere a bagno-maria finchè sarà quagliato», 377: «oppure mettendolo a bagno-maria nel forno»; Giorgina 1941: 43: «mettete la salsa a bagno-maria e frullate energicamente fino a quando essa abbia raggiunto la consistenza voluta»;

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“mettere a bollire a b.” Prato 1901: 285: «si mette a bollire per 1 ora a bagno-maria», 566: «forti vetri o bottiglie, che tappate e legate con doppia carta pergamena si mettono a bollire a bagno-maria»; cfr. “far bollire a b.”; “mettere a cuocere a b.” Prato 1901: 302 «si mette a cuocere con calore di sopra a bagno-maria in una forma unta di grasso», 302, 304, 380, 381 bis, 389, 391, 393, 395, 407, 548; Guerrini 1918: 170: «Mettete questo composto a cuocere a bagno-maria»; Boni 1927: 482: «Battete leggermente la stampa sulla tavo-la, affinchè non rimangano vuoti nell’interno e mettete a cuocere la mousseline a bagno-maria», 484; cfr. “cuocere a b.”, “far cuocere a b.”, “lasciar cuocere a b.”, “porre a cuocere a b.”; “montare a b.” Boni 1927: 444: «Continuate a montare così a bagno-maria, fino a che il composto sia tanto caldo da poterci tenere agevolmente un dito»; “porre a b.” Maestrelli 1866: 32: «si pone il tutto a bagno-maria»; “porre a cuocere a b.” Prato 1901: 34: «si chiude il vaso con carta pergamena, ponendolo a cuocere 3 ore a bagno-maria»; Giaquinto 1931: 221: «Si pone a cuocere in una casseruola ed a bagno-maria, te-nendola coperta e badando che l’acqua non abbia a bollire»; cfr. “cuocere a b.”, “far cuocere a b.”, “la-sciar cuocere a b.”, “mettere a cuocere a b.”; “porre a rapprendere a b.” «Cucina italiana 1943, 1, gennaio»: 5 (III colonna): «versatevi il composto dolce, e ponetelo a rapprendere a bagno-maria in un recipiente che lo contenga comodamente ed al co-perto»; cfr. “far rapprendere a b.”; “porre a scaldare a b.” Guerrini 1918: 21: «Per sette od otto persone mettete un rosso d’uovo crudo in una casseruola che porrete a scaldare a bagno-maria»; cfr. “scaldare a b.”; “prosciugare a b.” Maestrelli 1866: 101: «allo scopo di valutarne il potere nutritivo, bisogna prosciugarla a bagno-maria ad una temperatura che non sorpassi + 50° centig»; “rammorbidire il burro a b.” cfr. “liquefare, rammorbidire, sciogliere, struggere il burro a b.”; “rapprendere a b.” cfr. “far rapprendere a b.”, “porre a rapprendere a b.”; “restringere a b.” Artusi 1911: 256: «versate il composto in uno stampo liscio, che avrete unto con bur-ro diaccio e mettetelo al fuoco per restringerlo a bagno-maria»; Guerrini 1918: 248: «fate una balsamella saporita ed abbondante coll’aggiunta di qualche rosso d’uovo, restringendo a bagno-maria»; “ristringere a b.” cfr. “far ristringere a b.”; “rimettere al fuoco a b.” Artusi 1911: 505: «Versate il riso in questo stampo e rimettetelo al fuoco a ba-gno-maria che così assoda ancora e scioglie lo zucchero del fondo», “riporre a b.” Tamburini 1913: 301: «Si ripone al fuoco lento, o meglio a bagno-maria»; “riscaldare a b.” Guerrini 1918: 247: «Versate questa salsa sui merluzzi e fate riscaldare a bagno-maria»; Boni 1927: 481: «A parte si può far servire una salsiera con della panna di latte densa ma non montata, riscaldata a bagno-maria, addolcita con dello zucchero e finita con un nonnulla di vainiglina»; Giorgina 1941: 99: «Dovrete ottenere una salsa abbastanza densa che riscalderete a bagno-maria e verserete sulle costate cotte in graticola»; cfr. “far riscaldare a b.”; “scaldare a b.” Maestrelli 1866: 184: «dopo la sua evaporazione a secchezza operata in una capsula scal-data a + 100° C a bagno-maria»; Guerrini 1918: 99: «buttate giù la carne tagliata a dadi e scaldate a ba-gno-maria», 130, 134, 179, 249; Boni 1927: 386: «Mettete in una terrinetta due ettogrammi di burro — se fosse molto duro converrebbe prima scaldarlo un po’ in una piccola casseruola a bagno-maria — e con un cucchiaio di legno lavoratelo per circa un quarto d’ora in modo da averlo bianco e soffice»; cfr. “porre a scaldare a b.”; “sciogliere a b.” Tamburini 1913: 168: «mammella (tettina, alla milanese) di vitella […] che si trita finis-simamente a parte e si scioglie a bagno-maria»; Guerrini 1918: 138: «e rosolatelo con 50 o 60 gr. di mi-dolla di bue, sciolta a bagno-maria»; “sciogliere il burro a b.” cfr. “liquefare, rammorbidire, sciogliere, struggere il burro a b.”; “struggere il burro a b.” cfr. “liquefare, rammorbidire, sciogliere, struggere il burro a b.”. al bagno-maria25 “cuocere al b.” Prato 1901: 8 bis: «Cuocere al bagno-maria (a vapore)», «la pasta cotta in forno o al bagno-maria», 121 ter, 122, 126, 127, 128; Giaquinto 1931: 374: «Versate il composto in uno stampo unto di

25 Per alla bagno-maria cfr. supra.

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burro e spolverizzato di pan grattato, e cuocetelo al bagno-maria durante 35 minuti»; cfr. “mettere a cuocere al b.”; “far cuocere al b.” Vialardi 1899: 254: «Versate entro il preparato e fatelo cuocere al bagno-maria come s’è detto sopra N. 29», “far rappigliare al b.” Vialardi 1899: 269: «fatelo rappigliare al bagno-maria come s’è detto sopra e servi-telo»; “far rapprendere al b.” Vialardi 1899: 67: «Col suddetto preparato potete formare anche un bordo cir-colare versandolo in uno stampo di detta forma, unto di burro e facendolo rapprendere al bagno-maria»; “mettere a cuocere al b.” Prato 1901: 127 «si mette il tutto a cuocere al bagno-maria oppure in piccoli stampetti nel forno»; “porre al b.” Vialardi 1899: 72: «Ponete lo stampo al bagno-maria», 214: «Se volete cuocerle al vapore, pe-latele e lavatele; poste in una pentola chiudete questa e ponetela al bagno-maria»; Giaquinto 1931: 414: «Ponete poi lo stampo al bagno-maria bollente e copritelo con un coperchio», 475: «Fate bollire un chi-lo di miele e passatelo allo staccio, poi mettetelo dentro un polzonetto di rame stagnato, posto al ba-gno-maria, però l’acqua deve sempre bollire»; “rappigliare al b.” cfr. “far rappigliare al b.”; “rapprendere al b.” cfr. “far rapprendere al b.”. (per alla bagno-maria cfr. supra) dal bagno-maria “togliere dal b.” Boni 1927: 338: «Quando il budino si sarà rassodato toglietelo dal bagno-maria, fatelo riposare qualche minuto e poi capovolgetelo in un piatto», 444: «Togliete allora dal bagno-maria il pol-sonetto e continuate a montare fuori del fuoco, fino ad ottenere una meringa soffice, rigonfia e ben so-stenuta». in bagno-maria Tamburini 1913: 326: «2°, che quando il miscuglio ha alzato un bollore in bagno-maria, s’ha da ritirare dal fuoco»; “bollire in b.” cfr. “far bollire in b.”, “mettere a bollire in b.”; “cuocere in b.” Prato 1901: 35: «cuocere in bagno-maria aperto, nel forno poco caldo», 120; Giaquinto 1931: 301: «Cuocetelo in bagno-maria, servitelo caldo cosparso con un pò di sugo di carne»; cfr. “met-tere a cuocere in b.”, “rimettere a cuocere in b.”; “far bollire in b.” Tamburini 1913: 157 bis: «fateli sgocciolare e dopo bollire in bagno-maria per due ore», «si mettono in vasi e si fanno bollire in bagno-maria per una mezz’ora» (qui anche altre due occor-renze) “lasciare in b.” Prato 1901: 527: «lo si versa tosto nella caffettiera di porcellana prima scaldata nell’acqua calda, lasciandovelo in bagno-maria fino a terminata bollitura della panna»; “mettere in b.”Tamburini 1913: 84: «Si mette in bagno-maria, scoperto, per venti minuti», 144: «Mettete i vasi in bagno-maria e fate bollire per quattro minuti» (e 325, 350); “mettere a bollire in b.” Tamburini 1913: 294: «e si mette a bollire per tre minuti in bagno-maria», 318; cfr. “bollire in b.”; “mettere a cuocere in b.” Tamburini 1913: 84: «Manipolata la pasta si ripone in uno stampo spalmato di burro e di farina, che si mette a cuocere per mezz’ora al vapore, o in bagno-maria», 318; cfr. “cuocere in b.”, “rimettere a cuocere in b.”; “mettere in b.” Tamburini 1913: 87: «Si mette in bagno-maria, scoperto, per venti minuti»; 144, 325, 350; “porre in b.” Prato 1901: 11: «Per riscaldare la carne, […], si pone in bagno-maria»; Tamburini 1913: 53: «Chiuso il recipiente ermeticamente, si pone in bagno-maria e si lascia sobbollire per quattro o cinque minuti, quindi si ripone in credenza», 80: «Il recipiente si pone in bagno-maria nell’acqua bollente»; “rimettere a cuocere in b.” Tamburini 1913: 135: «e per dieci minuti si rimette a cuocere in bagno-maria»; “rimettere al fuoco in b.” Tamburini 1913: 172: «si rimette al fuoco in bagno-maria, nel quale ha da cuocere per quarantacinque minuti circa»;

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“riscaldare in b.” Tamburini 1913: 81: «Questo sugo si riscalda in bagno-maria; ma se alza il bollore.... si butti via!».26 BAGNOMARIA2 s. m. “recipiente per il bagnomaria”. 0.1. [Forme attestate nel corpus dei testi] bagno a maria, bagnomaria, bagno-maria. 0.2. [Nota etimologica essenziale] Cfr. la voce BAGNOMARIA1. 0.3. [Prima attestazione nel corpus] Maestrelli 1866. 0.3.1. [Indicazione numerica della frequenza nel corpus (per ciascuna forma)]: bagno a maria [2]: Codice gastrologico 1841 [2]; bagnomaria [2]: Boni 1927 [2]; bagno-maria [4]: Maestrelli 1866 [2], Boni 1927 [1], Giaquinto 1931 [1]. 0.4. [Distribuzione geografica delle varianti]. 0.5. [Note linguistiche / merceologiche (forestierismi; italianismi in altre lingue)] Si veda la voce BA-GNOMARIA1. 0.6. [Riepilogo dei significati] 1. Recipiente per il bagnomaria.27 0.7. [Locuzioni polirematiche vere e proprie (con la prima attestazione nel corpus)]. 0.8. [Rinvii]28 BAGNOMARIA1 s.m. “tecnica di cottura (o di riscaldamento) che consiste nel mettere i cibi in un recipiente immerso in acqua che viene direttamente scaldata”. 0.9. [Corrispondenze lessicografiche (= riscontri nei dizionari e nei corpora in rete)]29 NDELI bagnomaria s.m. ‘apparecchio contenente il liquido scaldato direttamente’ (1790, Cod. farm.: “Bel-fa*gor” XLV [1990] 243). Su bagnomaria (balneo of Mary in ingl., 1471: Fennell) non resta che riprendere la ripetuta spiegaz., secondo cui il n. deriverebbe dal n. della leggendaria alchimista Maria l’Ebrea, sorella di Aronne (Migl. NP 70, 104). NOC bagnomaria s.m. [sec. XVI], comp. col nome di Maria l’Ebrea, leg-gendaria alchimista, sorella di Aronne secondo una tradizione araba. LEI balneum/baneum II.1.It. (farsi bollire in) balneo marie ‘recipiente contenente un liquido scaldato direttamente; in cui si immerge un altro recipiente contenente la sostanza da scaldare indirettamente’ (1550, RicettarioFior 80), bagnoma-ria (dal 1567, id., TB; Crusca 1866; B; Zing 1983), bagnomaria (Florio 1611; Zing 1970; ib. 1983), bagno-maria (Oudin 1640 – Veneroni 1681), bagno-maria (1826, StampaMilConcord; 1844, ib.), bagno Maria (dal 1970, Zing; ib. 1983), piem. bagn d’ maria Capello, bagn-maria Zalli 1815, bagnmaria DiSant’Albino, mil. Bagnmarìa Cherubini, vogher. báñ-mαríα Maragliano, emil.occ. (parm.) bagn-maria Malaspina, bol. bagnma-rì Coronedi, venez. bagnmarìa Boerio, bagnmarie ib., triest. bagnomarìa (Pinguentini; DET), corso bagnuma-ria Falcucci, roman. Bagnimarìa VaccaroBelli, molis. (Campodipietra) bbaññǝmarínǝ DAM, sic. vagnumarìa Traina. […] It. bagnomaria m. ‘stufa umida per stillare’ (ante 1537, Biringuccio, TB; D’AlbVill 1772), ba-gnomarie D’AlbVill 1772. TB bagnomaria e bagnomarìe s. f. (Farm.) [Sel.] ‘Stufa umida per istillare’. Dovrebbesi però pronunciare come sdrucciolo, cioè coll’accento in Ma: Bagnomária. = Dal lat. Balneum maris, Bagno di mare. CRUSCA V bagnomaria ed anco bagnomaria e bagno di Maria. Sost. masc. ‘Vaso pieno d’acqua più o meno calda per uso di stillare o di riscaldare a calore uniforme, detto pure Stufa umida.’. FANF bagnomaría s. m. ‘Stufa umida per istilla-re’. TRECC bagnomaria s. m. (o bagno Marìa) [dal nome della leggendaria alchimista Maria l’ebrea, sorella di Mosè e d’Aronne]. 2. Recipiente adatto alla cottura a bagnomaria. GRADIT bagnomaria s. m. inv. [av. 1537; dalla loc. lat. mediev. balneu(m) Mariae “bagno di Maria” con riferimento alla leggendaria alchimi-sta sorella di Mosè] ‘recipiente per cuocere a bagnomaria’. Var. bagno maria, bagno Maria. DEV-OLI bagnomaria s. m., invar. 1. estens. ‘Il recipiente utilizzato per questo scopo’. [Comp. di bagno e del nome di Maria l’Ebrea, alchimista, sorella leggendaria di Mosè]. ZING Bagnomarìa o bàgnoMarìa, (ra-ro), bàgnomarìa [comp. di bagno¹ e Marial’Ebrea, sorella di Mosè, ritenuta popolarmente un’alchimista *av. 1537] s.m. inv. […] (est.) il recipiente stesso.

26 Cfr. anche Prato 1901: 11: «Riscaldare, tenere in caldo le pietanze riesce meglio in bagno-maria» per cui cfr. supra. 27 Cfr. supra la n. 11. 28Cfr. supra la n. 12. 29Cfr. supra la n. 13.

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1. [Primo significato]30 bagno a maria – bagno a maria: Codice gastrologico 1841: 274: «MARMITTA CON BAGNO A MARIA»31; –bagnomaria: Boni 1927: 36: «ci sono degli speciali utensili di rame stagnati dentro e fuori appositamente per salse, detti bagnomaria», 475; – bagno-maria: Maestrelli 1866: 129: «Accendendo questa ed elevandosi gradatamente la temperatura dell’apparecchio, che funziona come un bagno-maria, si arriverà alfine al grado di fusione del grasso, che sarà letto sul termometro», 328; Boni 1927: 130: «Può servire, ad esempio, un bagno-maria, o, più semplicemente, uno di quei secchietti di latta, comunemente adoperati per il latte o per la crema»; Giaquinto 1931: 493: «Se si dispone di un fornetto tiepido o di una stufa si possono cuocere in uno di questi, altrimenti basta il bagno-maria ed un poco di cenere calda e di poca brace sul coperchio». Poiché il corpus testuale utilizzato è ancora in fase di costruzione, non è al momento possibile fornire la sintesi conclusiva prevista per le voci più complesse. Abbreviazioni AIS = Jaberg, Karl & Jud, Jakob. 1928-1940. Sprach- und Sachatlas Italiens und der Südschweiz. Zofingen:

Ringier, 8 voll. (trad. it. 1987. AIS. Atlante linguistico ed etnografico dell’Italia e della Svizzera meridiona-le. Milano: Unicopli, 2 voll.).

ALI = Bartoli, Matteo G. (dir.). 1995-. Atlante linguistico italiano, a cura di U. Pellis e L. Massobrio. Ro-ma: Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, 7 voll.

CRUSCA V = Vocabolario degli Accademici della Crusca, quinta impressione. Firenze: Tip. Galileiana [poi Successo-ri Le Monnier], 1863-1926.

DEV-OLI = Devoto, Giacomo & Oli, Gian Carlo. 2000. Il Dizionario della lingua italiana, Edizione 2000-2001 con CD-ROM. Firenze: Le Monnier.

DIFIT = Stammerjohann, Harro (dir.). 2008. Dizionario di italianismi in francese, inglese, tedesco. Firenze: Acca-demia della Crusca.

DISC = Sabatini, Francesco & Coletti, Vittorio (eds.). 1997. Dizionario italiano Sabatini Coletti. Firenze: Giunti.

FANF = Fanfani, Pietro. 1895. Novissimo vocabolario della lingua italiana scritta e parlata, compilato sui Voca-bolari della Crusca, del Tramater, del Manuzzi, del Tommaseo, del De Stefano, del Fanfani e ri-veduto da Pietro Fanfani, dodicesima edizione, aggiuntovi in appendice un dizionario di geogra-fia moderna e un compendio di mitologia. Napoli: Antonio Morano.

GDLI = Bàrberi Squarotti, Giorgio (dir.). 1961-2002. Grande Dizionario della Lingua Italiana, fondato da Salvatore Battaglia. Torino: Utet, 21 voll.

GRADIT = De Mauro, Tullio (dir.). 1999-2000. Grande dizionario italiano dell’uso. Torino: Utet, 6 voll. LEI = Akademie der Wissenschaften und der Literatur – Mainz. 1979-. LEI. Lessico etimologico italiano.

Edito per incarico della Commissione per la Filologia Romanza da Max Pfister e Wolfgang Schweickard. Wiesbaden: Dr. Ludwig Reichert.

NDELI = Cortelazzo, Manlio & Cortelazzo, Michele A. 1999. Il Nuovo Etimologico. Dizionario etimologico della lingua italiana. Bologna: Zanichelli (2a ed.).

NOC = Nocentini, Alberto. 2010. L’Etimologico. Vocabolario della lingua italiana. Firenze: Le Monnier.

30Cfr. supra la n. 12. 31 Cfr. la relativa spiegazione: «Questa marmitta si può ancora fare di bandone stagnato con dentro il vaso del bagno a maria, e più ancora si fa internamente una contro marmitta traforata con manico movibile, che è molto utile per cuocere Macche-roni, che si scolano senza rompere» (274).

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384

RF = Rigutini, Giuseppe & Fanfani, Pietro. 1893. Vocabolario italiano della lingua parlata, novamente compilato da Giuseppe Rigutini e accresciuto di molte voci, maniere e significati. Firenze: G. Barbèra.

TB = Tommaseo, Nicolò & Bellini, Bernardo. 1858-1879. Dizionario della lingua italiana. Torino: Unio-ne Tipografico-Editrice.

TRECC = Duro, Aldo (dir.). 1986-1991. Vocabolario della lingua italiana. Roma: Istituto della Enciclopedia italiana, 4 voll.

ZING = Zingarelli, Nicola. 2014. lo Zingarelli 2015. Vocabolario della lingua italiana, di Nicola Zingarelli, a cura di Mario Cannella e di Beata Lazzarini. Bologna: Zanichelli.

Riferimenti bibliografici Bertini Malgarini, Patrizia & Caria, Marzia & Vignuzzi, Ugo. In stampa. Per un “Vocabolario storico della cucina

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Biffi, Marco & Cialdini, Francesca & Setti, Raffaella (eds.). In stampa. “Accio che ’l nostro dire sia ben chiaro”. Scritti per Nicoletta Maraschio. Firenze: Accademia della Crusca.

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Quando vaghezza e focus entrano in contatto: il caso di un att imo , anzi un att imino .

Miriam Voghera

Abstract In this article, we present a corpus-based study of the uses of un attimo ‘an instant’ and un attimino ‘an instant.DIM’ in spoken Italian. Starting from the original temporal function, un attimo developed multiple functions, which derive from a double path of functional expansion. Firstly, we can recognize a semantic and pragmatic path, which brings to the use of un attimo as vague quantifier and then as hedge. Secondly, there is a path towards textual uses, which exploits the possibility of using un attimo as alerter in some imperative constructions and then as focuser, mostly in the uses of un attimino. Interestingly, we found that, when using un attimino, the hedge and focuser functions can coexist, since they express different levels of meanings. By this way, the speaker can mitigate the content or the force of what s/he is saying, but simultaneously call the attention of the addressee on it. KEYWORDS: vagueness •hedge • alerter •spoken Italian •grammaticalization 1. I domini della vaghezza

Fin dal 1975 Crystal e Davy avevano notato che nella conversazione è comune usare termini vaghi (vague language), cioè approssimativi e poco specifici. L’etichetta vague language si è diffusa successivamente dagli anni Novanta, anche grazie al titolo del libro di Johanna Channell (1994), specificamente dedicato all’insieme dei procedimenti semantici e pragmatici utilizzati dai parlanti quando non possono o non vogliono essere precisi, ed è stata poi utilizzata da vari altri autori (Cutting 2007). Benché in Italia il termine linguaggio vago non sia molto diffuso, numerosi studi si sono trovati a convergere sui fenomeni che rientrano in questo argomento o argomenti vicini. Vi sono infatti lavori prodotti sia nell’ambito della tradizione più squisitamente pragmatica filosofica (Caffi 2007; Bazzanella 2011a; Machetti 2006) e più recentemente in ambito tipologico e costruzionista (Ghezzi 2013; Masini, Mauri & Pietrandrea 2012; Voghera 2012, 2013, 2014, in stampa). 1 Rientrano in questo ambito di studi l’analisi delle espressioni di vaghezza (EV), che possono essere rappresentate da costruzioni molto diverse tra loro, di cui dò una sintetica esemplificazione nella Tabella 1.

1 Come abbiamo già accennato, non esiste un’uniformità terminologica e, infatti, ciò che io chiamo vaghezza corrisponde sostanzialmente a ciò che Bazzanella (2011a) chiama indeterminacy e ciò che io definisco vaghezza di relazione è anche indicata come mitigazione (Caffi 2007) o atenuación (Albelda Marco & Briz Gómez 2010).

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TABELLA1.Esempidiespressionidivaghezzainitaliano.

Espressioni di vaghezza Esempi

Nomi generali, anche detti segnaposto

Cosa, roba, discorso, fatto, faccenda, affare, questione, problema, chissacosa, cosa diavolo

Approssimatori

Verso, circa, tipo, una specie…

Estensori generali

Eccetera, e così via, N del genere, e cose del genere, e tutte queste cose qua…

Quantificatori vaghi

Per un pelo, un sacco, un mucchio, un casino, un paio, un tocco, un’ombra, due o tre…

Espressioni di probabilità e frequenza

A volte, probabilmente, forse…

Numeri tondi

Guadagna 50.000 euro all’anno…

Marche intonative Toni non discendenti Modi verbali espressione di irrealtà

Vieni al cinema? Avrei un impegno

Usi di indefiniti Un tipo, uno, impersonali, plurali.

Queste espressioni occorrono quando i parlanti producono messaggi poco specificati per rispondere a specifici bisogni comunicativi; parliamo quindi in questi casi di vaghezza intenzionale o del parlante2, che può essere almeno di tre tipi (Caffi 2007; Channell 1994; Kaltenböck et al. 2010; Bazzanella 2011a; Overstreet 1999, 2011; Jucker et al. 2003; Ghezzi 2013):

a) vaghezza informativa, che ha come dominio il contenuto proposizionale, ed è determinata di norma

dalla mancanza di informazione, esempio (1); b) vaghezza relazionale, che ha come dominio la dimensione pragmatica dell’enunciato, ed è

determinata di norma dalla difficoltà o riluttanza ad instaurare un rapporto diretto con ciò che si dice o col proprio interlocutore, esempio (2);

c) vaghezza discorsiva, che ha come dominio la tessitura del testo3, ed è determinata di norma da difficoltà nel processo di programmazione in tempo reale nel parlato spontaneo o nello scritto non programmato, quali note, appunti ecc., esempio (3). 4

(1) e quindi fatto poi alla fine il conto una_ ventina forse anche una trentina di milioni ci

arrivano

2 Esiste naturalmente una tradizione filosofica che si occupa della vaghezza dal punto di vista della semantica formale, che rientra nella vaghezza che definisco sistemica, che non è cioè nel potere del parlante scegliere o rifiutare, come quella per esempio dei cosiddetti predicati vaghi: alto, basso ecc.; per una rassegna in questo ambito si veda Ronzitti (2011). 3 Ho altrove chiamato enunciativa o di produzione testuale questo terzo tipo di vaghezza. Penso tuttavia che il termine discorsiva sia più appropriato perché si applica immediatamente a testi in qualsiasi modalità: parlata, scritta ecc. 4 Se non altrimenti specificato, gli esempi sono tratti dal VoLIP, versione on line del corpus LIP (De Mauro et al. 1993). Nelle trascrizioni seguenti adottiamo queste convenzioni: il trattino basso _ indica allungamento del fono che lo precede; una barra obliqua / e due bare oblique // indicano confini prosodici ritmici o melodici, rispettivamente minori o maggiori; il segno # indica pausa e la sua ripetizione pause di maggiore lunghezza; sono poste tra parentesi uncinate le parti ricostruite dal trascrittore, ma non effettivamente realizzate; il punto interrogativo indica una o più parole inintelligibili.

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(2) certo certo ma infatti sai la Spagna sta avendo un momento di grandissimo fermento […] e ho potuto conoscere un po' quest'ambiente di di grande voglia di fare eccetera cosa che a noi forse un pochino adesso ci viene a mancare

(3) danno più importanza alla religione no come_ manifestazione tipo_ eh insomma delle

feste così L’esempio (1) è un caso di vaghezza di informazione perché il parlante effettivamente non sa quanti soldi arriveranno e quindi usa una quantificazione approssimata, una ventina, una trentina. L’esempio (2) è un caso di vaghezza di relazione perché il parlante usa un’espressione vaga per mitigare un giudizio sull’Italia meno positivo rispetto a quello che dà sulla Spagna. L’esempio (3) infine è un caso di vaghezza discorsiva perché le espressioni di vaghezza dipendono dalla difficoltà di costruire un enunciato immediatamente coeso e coerente.

I tre tipi di vaghezza sono spesso co-presenti e non sempre facilmente separabili perché la mancanza di informazione si associa spesso ad un’attenuazione della forza dell’atto illocutivo e quindi ad una certa diluizione del discorso, come chiarito da Caffi (2007) nella citazione seguente:

In other words, speakers can use referential vagueness to reduce both their commitment to the precision of denotation, hence of their reference act, and their epistemic endorsem*nt of the truth of the proposition. Further, this weakening of responsibility, this ‘deresponsibilization’, will in turn affect the contextual appropriateness of the utterance (Caffi 2007: 58).

Questo intreccio tra livello proposizionale, pragmatico e discorsivo si manifesta anche nel fatto che la maggior parte delle EV è polifunzionale. Come è stato notato in studi basati su corpora in italiano, inglese, francese, spagnolo e tedesco (Ghezzi 2013; Voghera 2014; Voghera (in stampa); Voghera & Collu (in stampa); Voghera & Borges (in stampa)), dal punto di vista diacronico, esiste una direttrice di sviluppo secondo la quale le espressioni originariamente usate per esprimere vaghezza informativa possono evolvere verso l’espressione della vaghezza di relazione pragmatica e successivamente verso l’espressione della vaghezza discorsiva. In altre parole, l’espressione della vaghezza di relazione e discorsiva avviene attraverso la rifunzionalizzazione di strumenti originariamente utilizzati per la vaghezza di informazione. Vale per le EV, dunque, il percorso diacronico, ben documentato per numerose altre strutture, che partendo dall’espressione di significati di tipo proposizionale arrivano col tempo ad esprimere significati di tipo pragmatico-discorsivo (Traugott 1982, 2003; Davidse, Vandelanotte & Cuyckens (eds.) 2010; Diewald 2011; Ghezzi & Molinelli (eds.) 2014):

Percorso di sviluppo potenziale delle EV VAGHEZZA INFORMATIVA → VAGHEZZA DI RELAZIONE → VAGHEZZA

DISCORSIVA

Un caso che illustra questo percorso è l’evoluzione degli usi approssimanti di tipo e numerosi altri nomi tassonomici5, che possono inizialmente modificare il contenuto proposizionale, esempi (4)-(5), ma assumono successivamente la capacità di modulare la relazione pragmatica, esempio (6), e infine divengono meri riempitivi di tempi di programmazione, esempio (7):

(4) È alto tipo uno e settanta uno e settantuno (MVS) 6

(5) Questa è una prova // tipo (MVS)

(6) se uno dei due tipo al cambio dell’ora scende e mette il nome? (MVS)

5 Per una sintesi della letteratura sugli usi non nominali dei nomi tassonomici, si veda Voghera (2017). 6 MVS indica un piccolo di corpus di conversazioni private raccolto da chi scrive.

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(7) tipo cioè uno che parte devono dirgli addio cioè sai quelle tipo sai tipo serie Berlinguer Come spesso accade anche nei processi di grammaticalizzazione, la nascita delle nuove costruzioni non comporta necessariamente la sparizione delle precedenti, cosicché e nuovi e vecchi usi convivono e, così come accade a tipo, la stragrande maggioranza delle EV diventa polifunzionale (Ghezzi 2013; Voghera & Collu in stampa). Se il passaggio da un significato prevalentemente proposizionale alla modificazione delle relazioni pragmatiche è un fenomeno ampiamente notato in letteratura (Traugott 1982, 2003), meno noto è un altro fenomeno che abbiamo verificato studiando le EV: la possibilità che alcune di esse esercitino una funzione focalizzante. Proprio lo studio di tipo ha fatto emergere l’apparente paradosso dell’esistenza di usi focalizzanti espressi da un elemento che normalmente viene usato per esprimere vaghezza e approssimazione. Negli esempi (8) e (9) tipo funziona da segnale discorsivo, tipicamente ad inizio di turno, che non esprime né vaghezza né approssimazione, ma al contrario focalizza l’attenzione del destinatario sull’informazione che segue.

(8) e tipo Marco lo chiamo cioè su dieci volte otto volte lo chiamo

(9) ma tipo se faccio un caffè? Questa funzione è uno sviluppo degli usi cataforici di tipo, in cui introduce un elemento esemplare, dopo la costruzione N del genere, che ha la funzione di generalizzare7:

(10) [...]pezzi grossi del genere tipo Peppe Servillo (Web) (11) Come fai a fare una cosa del genere tipo foto allo schermo? (Web)

Come già notato da Manzotti (1995), usare o introdurre un esempio vuol dire richiamare l’attenzione, più o meno esplicitamente, del destinatario su un elemento che è funzionalmente rilevante all’interno del testo. Poiché gli esempi sono comunicativamente preminenti, gli elementi che li introducono assumono un ruolo focalizzante (Voghera 2014). Ciò ha permesso che tipo fosse reinterpretato come un focuser non contrastivo. Lo sviluppo della funzione focalizzante è indipendente dalla funzione di tipo come EV, come dimostra il fatto che funzionare da focalizzatore non gli impedisce di coprire tutto l’arco delle funzioni della vaghezza, fino a diventare un puro segnale discorsivo di copertura dei tempi di programmazione:

(12) una serata brutta a casa di amici di Stefano e Isabella che tipo cioè uno che parte devono dirgli addio cioè sai quelle tipo sai tipo

Ciò che accade a tipo non è un caso isolato poiché esistono altri casi di EV che hanno funzioni focalizzanti: tra i casi più noti quello del suo traducente inglese like (Underhill 1988; Miller & Weinert 1995; Voghera & Borges in stampa). Questo spinge ad indagare quali possano essere i fattori che favoriscono gli usi focalizzanti delle EV. L’osservazione dei contesti d’uso di un attimo e un attimino che espongo in queste pagine è un contributo in questa direzione.

2. La vaghezza di quantità

Un’importante parte concettuale e linguistica dell’espressione della vaghezza è costituita dall’approssimazione quantitativa. Essa è un’operazione cognitiva diffusa perché la capacità di comparare e distinguere insiemi di grandezze diverse è acquisita dagli essere umani ben prima di 7 Per una trattazione più completa di questi usi rimando a Voghera (2014).

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quando sono in grado di padroneggiare il principio di cardinalità e l’uso dei numerali (Crump 1990; Dehaene 1997; Lemer et al. 2003). Approssimare e calcolare sono infatti operazioni cognitive diverse che si sviluppano in tempi diversi, poiché le abilità del calcolo sono connesse all’acquisizione di capacità simboliche avanzate. 8 Anche quando si impara a calcolare, tuttavia, non si smette di usare l’approssimazione quantitativa, che rimane un’operazione necessaria in numerose circostanze, in cui non è possibile o opportuno essere precisi. Anche nel caso delle espressioni di vaghezza quantitativa, esistono casi di passaggio da significati che incidono sul contenuto proposizionale dell’enunciato a significati più marcatamente pragmatici (Mihatsch 2010; Bazzanella 2011b; Voghera in stampa). In molti casi è meglio essere vaghi e indefiniti piuttosto che esprimere quantità esatte, a meno che il contesto non lo richieda esplicitamente; spesso infatti una quantità vaga mitiga l’enunciato e lo rende più accettabile per l’interlocutore, mentre l’uso di quantità definite lo renderebbe troppo assertivo (Voghera in stampa). Quindi anche i quantificatori possono acquisire un valore di vaghezza relazionale e incidere oltre che sul contenuto proposizionale, come in (13), sulla dimensione pragmatica dell’enunciato e servire a modulare la dimensione intersoggettiva della comunicazione, come in (14). Qui infatti, l’uso di un paio attenua la quantità dell’impegno che potrebbe portare ad un ritardo da parte di chi parla e quindi lo rende più accettabile; si pensi alla diversa resa relazionale che si avrebbe sostituendo un paio con un numero definito:

(13) perchè poi ti viene il nervoso dici sì ho cinque minuti per chiamare_ Tizio Caio ma (14) C: eh? le eh m<a> ma veramente si' forse È meglio alle dieci e un quarto perché ho un

paio di persone prima_ B: ah va bè C: puo' darsi pure che ritardi

I quantificatori approssimanti, quindi, come altre EV, possono evolvere in espressioni di vaghezza di relazione e avere la funzione di mediare, per dir così, tra contenuto proposizionale e relazione interpersonale, con effetti attenuativi. Un palese passaggio in questa direzione si ha in molti dei casi in cui si usano un attimo e un attimino. Un attimo e un attimino hanno attirato l’attenzione dei media soprattutto nella loro funzione di quantificatori: sono un attimo/attimino stanca. L’uso è già attestato negli anni Sessanta del Novecento (D’Achille 2012), ma è dagli anni Novanta che entrambe le costruzioni, e soprattutto quella con il diminutivo, si diffondono e con esse gli articoli di giornale ad esse dedicati. Un ottimo riassunto del dibattito intorno a questi usi è offerto da Raffaella Setti (2014), che, nella sua consulenza linguistica nell’omonima rubrica dell’Accademia della Crusca, passa in rassegna gli studi linguistici che se ne sono occupati e offre anche un’analisi del trattamento lessicografico riservato ad un attimino. Altri spunti interessanti e divertenti di carattere sociolinguistico sull’argomento si trovano nel saggio di Giuseppe Antonelli (2014), che discute di come e perché alcune strutture diventino nell’opinione dei parlanti il simbolo della decadenza linguistica e della mancata difesa della cultura nazionale. La maggior parte degli interventi su queste espressioni si occupa dei loro usi come quantificatori approssimanti, ma se si guarda con sistematicità ai contesti d’uso, emergono numerosi casi in cui un attimo, e ancor di più un attimino, possono essere usati, oltre che come espressioni temporali e come quantificatori approssimanti, come elementi focalizzanti. Un attimo e un attimino sono cioè un altro di quei casi in cui l’espressione di vaghezza si interseca con la capacità di assumere una funzione focalizzante. Per verificare quest’ipotesi, ho quindi analizzato i contesti d’uso di un attimo e un attimino, utilizzando la versione VoLIP (www.parlaritaliano.it/index.php/it/volip) del corpus LIP (De Mauro et al. 1993), che permette di interrogare sia le trascrizioni ortografiche sia i file audio del corpus (Voghera et al. 2014).

8 La differenza fra la rappresentazione della quantità e le abilità numeriche si manifesta anche nei pazienti affetti da acalculia, che presentano lesioni in zone cerebrali diverse, a seconda che abbiano disturbi relativi alla valutazione di quantità o alle operazioni di calcolo (Lemer et al. 2003).

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3. Un att imo e un att imino : i contesti d’uso e le costruzioni

Sia un attimo sia un attimino possono svolgere il ruolo di aggiunti temporali o come SN o come complementi di preposizione all’interno di un SP, anche se in tutto il corpus LIP abbiamo solo due occorrenze di quest’ultimo tipo (15) e (16):

(15) ora ti perfezioni in un attimo # poi gliela presentiamo

(16) ecco io fra un attimino mi sentirò ai telefoni (17) la guarderemo un attimo successivo (18) me lo segno un attimo così mo' lo devo richiamare aspetta

(19) ecco io la blocco un attimino perché mi dicono che c’è la pubblicità

In alcuni esempi attimo mantiene ancora le proprietà categoriali del nome, come si vede dall’accordo con l’aggettivo nell’esempio (17), in altri, (18) e (19) un attimo e un attimino funzionano piuttosto come espressioni agglutinate non modificabili da aggettivi pre- o postnominali. Dal punto di vista semantico, benché il significato lessicale di attimo sarebbe inerentemente perfettivo, abbiamo un’oscillazione tra un significato imperfettivo, parafrasabile con ‘subito, immediatamente’ e uno perfettivo più o meno corrispondente a ‘piccola porzione di tempo’. Questo secondo significato è favorito in alcuni frame semantico-sintattici, come i seguenti:

(20) un attimo di pazienza poi faremo un appello nominale

(21) ci ho avuto un attimo di panico

In questi casi un attimo può ragionevolmente significare sia ‘piccola porzione di tempo’ sia , attraverso un’interpretazione metonimica, ‘piccola quantità’ in generale. Questa seconda interpretazione diventa l’unica possibile se si cambia il frame semantico in cui occorre:

(22) va avanti un pezzettino dove trova via Larga gira un attimo a destra poi sulla sinistra in via Pantani9

(23) l'ho visto infatti gli ho detto scusa Antonio come mai scrivi eh mi sembra che fai le lettere al contrario lui m'ha detto al contrario ma no non è vero io gli ho detto va bè mi sembrava un attimo

(24) siccome vi ho scomodato un attimino voglio farvi dei regali

(25) è stata un'esperienza interessante perchè abbiamo fatto qualcosa di di un attimino diverso insomma

(26) siccome non siamo moltissimi per il momento speriamo in un’affluenza maggiore nel

corso della mattinata però si sa che poi le cose nelle assemblee occupate non so' così

9 Questo esempio è particolarmente interessante ed è stato oggetto di grande dibattito tra i numerosi parlanti a cui ne ho sottoposto l’interpretazione. È chiaro infatti che un attimo è qui ugualmente interpretabile sia come ‘subito’ sia come ‘un po’’ sia, più probabilmente, come ‘subito e un po’’

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precise come avvengono nei dibattiti nelle altre parti # un attimo di introduzione tecnica su come funziona la giornata […]

In questi esempi si è perso il valore puramente temporale di un attimo ed emerge una nuova costruzione, che può essere realizzata lessicalmente anche dal diminutivo attimino, e che etichetto ATTIMO[QUANT].

10 La sua funzione è quella di un quantificatore approssimato a tutti gli effetti, che può modificare un verbo, esempi (22)-(24), un aggettivo, esempio (25), o un nome, esempio (26). Benché non sia mia intenzione affrontare qui l’evoluzione diacronica di questi usi, è facile vedere che essi presentano alcune delle caratteristiche più comuni degli esiti dei processi di grammaticalizzazione (Hopper & Traugott 1993). In primo luogo, vi è un passaggio dal significato più specifico ‘piccola quantità di tempo’ a quello più generale di una ‘piccola quantità’ e infine ad un significato più propriamente grammaticale di quantificatore; parallelamente, attimo perde la proprietà categoriale della flessione nominale; infine, la sequenza [+det+N] non può essere separata da modificatori né avere modificatori postnominali. Rimangono vitali, come abbiamo già detto i casi in cui attimo continua a funzionare come nome di tempo e in questi casi, naturalmente, il SN può avere modificatori: un breve attimo, un attimo breve. Possiamo supporre che il passaggio all’uso come quantificatore sia stato favorito da contesti ponte (bridging context: Heine 2002), in cui un attimo si può legittimamente interpretare sia come sintagma nominale temporale, e quindi sostituibile da per un attimo, in un attimo, sia come quantificatore, e quindi sostituibile da un po’. Contesti di tal genere si trovano già nelle attestazioni dell’italiano antico, come quelle in (27) e (28), ricavate dall’ OVI11, e lungo tutto l’arco della storia di attimo:

(27) […] essere ripreso della oziosità e della negligenzia, si debbe studiare di non perdere mai uno attimo di tempo (Matteo Corsini, 1373)

(28) […] misericordia. In questa vita non è nessuno che tanto bene potesse fare che

meritasse uno attimo di vita etterna; e Dio la dà per uno solo lagrimare; […] (Sacchetti, Sposizioni Vangeli 1378-1381)

(29) […] il colosso cade, e al crollo spaventoso, neppure un attimo di sbalordimento

(Diacoris 1917)12

(30) Ci siamo ingannati, e il riconoscimento dell’inganno porta seco un attimo di dispiacere. (Diacoris 1902)

Questi usi hanno innescato un percorso simile a quello già studiato per altri modificatori complessi e di grado, originati dalla sequenza SN di SN in italiano, su cui la bibliografia è oramai abbondante (Traugott 2008; Masini 2012, 2016; Mihascht 2010, 2016; Giacalone Ramat 2015 Voghera 2013). In italiano si pensi a un sacco di, una marea di e vari altri. Questo tipo di strutture è interpretabile come costruzioni, ovvero schemi astratti di forma e significato (Goldberg 1995), che permettono la creazione di nuove formazioni.13 Il percorso di rianalisi che consente quindi il passaggio del SN iniziale a quantificatore è illustrato nella tabella 2.

TABELLA2.RianalisidellasequenzaunattimodiN

10 Uso il lessema ATTIMO per etichettare le costruzioni per comprendere sia la forma non alterata sia quella alterata al diminutivo. Segnalerò di volta in volta i casi in cui quest’ultima non è ammessa. 11 Opera del Vocabolario Italiano, è disponibile in rete all’indirizzo www.ovi.cnr.it/. 12 DiaCORIS, in rete http://corpora.dslo.unibo.it/DiaCORIS/. 13 Sempre rimanendo nell’ambito delle parole di tempo, il passaggio da sintagma temporale a quantificatore vale anche per un momento, un minuto, un secondo. Un attimo e un momento sembrano aver compiuto lo stesso percorso, e sono infatti usati entrambi anche come quantificatori generici, mentre minuto e secondo paiono aver mantenuto in modo più deciso il significato lessicale di ‘piccola porzione di tempo’. Uno dei revisori anonimi di questo contributo ha giustamente osservato che minuto sembra avere un valore scalare che un attimo non ha e per questo motivo non è veramente sostituibile ad esso.

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SN di SN Quantificatore Esempi [un attimo]SN di [SN] [[un attimo di] QUANT N]SN un attimo di introduzione [[un attimo] QUANT A]A un attimo diverso

[V[un attimo ] QUANT]V vi ho scomodato un attimo L’osservazione delle occorrenze di un ATTIMO[QUANT] suggerisce tuttavia che in alcuni casi questi usi esprimano un valore modale. Per cogliere questi valori, sempre difficili da verbalizzare, può essere utile mettere a confronto quattro enunciati con e senza un attimo.

(31) a. vieni Nino mettiti un attimo serio b. vieni Nino mettiti serio

(32) a. allora senta facciamo così allora eh per adesso io poi le confermo anche se me deve mandà il Mab perchè magari sento anche un attimo il posatore b. allora senta facciamo così allora eh per adesso io poi le confermo anche se me deve mandà il Mab perchè magari sento anche il posatore

(33) a.insomma adesso ci pensa un attimo e vede un pochino b. insomma adesso ci pensa e vede un pochino

(34) a. attenda un attimino b. attenda

Mi pare che il confronto faccia emergere in modo efficace che lo scopo di un attimo non è tanto esprimere una quantificazione, ma ridurre la portata della richiesta in (32) e la possibile delusione dell’interlocutore per il fatto che si stia rimandando una decisione in (33) e (34). La costruzione non ha quindi solo la funzione di approssimare la breve durata, ma esprime anche la maniera con cui si svolge l’azione o l’evento. Ciò è chiarissimo nell’esempio (35), in cui il parlante non vuole solo comunicare che l’attesa sarà breve, ma attenuarne e ridurne il peso. In questo caso dunque un attimo delimita i confini dello spazio interpretativo dell’enunciato, funziona cioè come vero e proprio hedge (Kaltenböck et al. eds. 2010). In questi casi la funzione di un attimo è duplice: da un lato, richiama la brevità della durata dell’evento cui si riferisce e, dall’altro, attraverso il concetto di piccolezza, diventa metafora di vaghezza relazionale. Come indicato da Ghezzi (2013), la piccolezza è uno dei corrispondenti metaforici delle EV, che nella funzione pragmatico-discorsiva si manifesta nella mitigazione della forza dell’atto illocutivo (Caffi 2007). Il valore mitigante dei diminutivi ben si vede nell’esempio (34), in cui non a caso abbiamo sia un attimo sia un pochino.14 Del resto, nelle espressioni di vaghezza troviamo spesso l’uso di diminutivi come marche di indefinitezza, per esempio nell’indicazione delle porzioni temporali: oretta, settimanella, mesetto, annetto (Caffi 2007; Merlini-Barbaresi 2015; Voghera in stampa). L’uso del diminutivo non implica necessariamente una durata più piccola di quella standard, ma marca piuttosto l’indefinitezza della durata, come si vede nell’esempio (36), in cui il parlante è indeciso tra un’oretta o due ore:

(35) B: fra quanto ritornate? A: e credo fra un'oretta due ore

Il valore attenuativo di ATTIMO[QUANT] può anche esprimere una vera e propria connotazione di maniera. Studiando le costruzioni di piccoli numeri che esprimono quantità approssimate, ho notato che alcune di esse quando diventano idiomatiche finiscono per diventare espressioni di maniera: fare due/quattro passi o fare due/quattro chiacchiere non indicano tanto la quantità o la durata dell’evento, ma la maniera, lo

14 Il ruolo attenuante dei diminutivi è ampiamente discusso da Caffi (2007) soprattutto per quel che riguarda l’attenuazione della forza illocutiva.

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stile rilassato e informale con cui si realizza un evento (Voghera in stampa). Lo stesso sembra accadere in alcuni contesti nell’uso di ATTIMO[HEDGE], come si vede negli esempi seguenti:

(36) eh niente c'è da allargarla un pochino ascolta quando sono da quelle parti passo un

attimo e te lo metto a posto sì

(37) in tarda mattinata e tutto il pomeriggio se mi puoi fare un colpo di telefono così ne parliamo un attimo

(38) tanto comunque ci vediamo un attimino stasera

In questi casi ATTIMO[QUANT] indica non solo che l’azione avrà una durata breve, ma segnala anche che si tratta di qualcosa di facile e poco impegnativo: l‘istantaneità, che è il tratto caratterizzante del significato lessicale di attimo, diventa metafora di leggerezza, poco peso, poca importanza. Abbiamo fin qui considerato alcune espansioni funzionali di un attimo che partendo da aggiunto temporale diventa quantificatore, hedge e in qualche misura espressione di maniera. Ma esistono altri contesti in cui un attimo assume funzioni diverse da quelle fin qui delineate, che sfruttano, per dir così, l’inerente perfettività del suo significato lessicale. Si osservino gli esempi seguenti:

(39) no no no un attimo voglio vedere chi è

(40) un attimo prego (41) B: Piero ho chiamato tutto il giorno nun se riesce mai a chiamare

A: sì? B: no volevo sapere quell'informazione per la gita di monte Amiata A: ah allora un attimino eh? un attimino un attimino

In questi esempi un attimo o un attimino funzionano come un’interiezione, poiché non sono sintatticamente integrati in un costituente maggiore e la loro principale funzione è quella di segnalare che il parlante ha ricevuto il messaggio: una sorta di ricevuta di ritorno. Si tratta infatti di costruzioni che sono sempre inserite in atti linguistici chiaramente diretti all’interlocutore, la cui funzione è quella di rendergli noto che il parlante è consapevole di dover prestare attenzione al proprio destinatario. Per questo motivo questi usi si combinano spesso con l’imperativo:

(42) allora aspetta un attimo che metto un po' di musica e cerco di risolvere il problema

(43) allora scusa un attimo Dal punto di vista discorsivo, si tratta di costruzioni che possono essere usate per indicare un cambio di soggetto o introdurre una contro-argomentazione (Blum-Kulka et al. 1989); ciò avviene nella stragrande maggioranza dei casi all’inizio di turno o più raramente all’interno di un turno quando il parlante vuole segnalare che il ragionamento fatto fino a quel momento va cambiato o presenta una falla.

(44) […] aspetta un attimo scusa c’è qualcosa che non torna aspetta fermo lì ah fermo ci sei

Lo scopo principale è allertare il destinatario e sollecitarne l’attenzione; l’aspetto semantico è del tutto secondario come dimostra il fatto che un attimo può occorrere da solo o combinarsi con verbi dai significati diversi, senza che la funzione sia alterata: aspetta, scusa, senti un attimo sono del tutto

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equivalenti, anche se il verbo aspettare copre il 50% di tutte le occorrenze di questa costruzione nel LIP.15 Come abbiamo detto, si tratta di una costruzione interiettiva, fortemente idiomatica, che qui indichiamo con l’etichetta ATTIMO[ALERT], in cui un attimo funziona da segnale discorsivo isolato o posposto al verbo e benché sia del tutto possibile sostituire attimo con il suo diminutivo, nel LIP non abbiamo occorrenze di questa costruzione con attimino.

(45) sì aspetta un attimo mi devi dire più chiaro l'aspetto culturale del fra le idee di Alessandro Magno

(46) non c'è male// senti un attimo io ho chiamato papà in ufficio ma era già andato via

ATTIMO[ALERT] si trova prevalentemente ad inizio di turno perché ha la funzione di segnalare l’apertura di nuovi sviluppi discorsivi e assume quindi una posizione cataforica che introduce elementi testualmente nuovi. La possibilità di introdurre nuovi elementi e di metterli a fuoco è presente anche in altri contesti:

(47) così leggiamo un attimo testualmente la legge

(48) era anche nostro intendimento questo pomeriggio eh andando all'allenamento eh della Fiorentina cercare di chiarire un attimo la vicenda

(49) benissimo giriamo la carta e vediamo un attimo quali itinerari proporreste (50) ma torniamo un attimo alla eh alla nostra eh così alla nostra serata di Radio Incontri

(51) questa era la parte che dovevate fare per oggi eh prima del questionario dobbiamo un

attimo fare questo quinto foglio In questi esempi un attimo precede esattamente ciò che si vuole mettere al centro del discorso, mettendolo a fuoco. D’altro canto, non sembra perdere del tutto il valore di hedge che in qualche misura limita e riduce la portata della predicazione dell’atto linguistico. Si osservi in particolare (47): da un lato, un attimo richiama ad una lettura testuale di una legge, che evoca precisione e completezza, dall’altro, suggerisce che non vada fatto con troppa pedanteria. Le parafrasi sono sempre ingannevoli, quando si tratta di spiegare una funzione pragmatica e testuale insieme, tuttavia se dovessimo provare a parafrasare questi usi di un attimo, si potrebbero dire qualcosa come ‘concentriamoci su ciò che segue, ma rapidamente e senza esagerare’. In altre parole, un attimo svolge una funzione su due livelli: a livello testuale mette a fuoco l’elemento che lo segue, con l’effetto di metterlo in rilievo, ma a livello pragmatico mitiga la forza dell’atto illocutivo e quindi consente al parlante di presentare ciò che dice come qualcosa di poco impegnativo. Ciò emerge ancora con maggiore chiarezza con l’uso di un attimino:

(52) vi volevo aggiornare un attimino su questo disegno di legge che è in discussione

(53) bene chi è che si sente in grado di proporre un attimino un viaggio? Riccardo perché questa agenzia Saetta mi sembra a me che è un po' fallimentare non sa proporre delle dei dei grossi giri turistici forza

15 Ai fini del ragionamento che si sta svolgendo è sufficiente esemplificare la costruzione usando sempre la II persona singolare dell’imperativo, ma naturalmente nel LIP si trovano occorrenze anche della I e II plurale e forme con pronomi cl*tici: scusami, scusatemi…

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Questo doppio livello di significazione produce talvolta un effetto simile a quello dell’ironia, cioè di un’opposizione voluta. L’effetto antifrastico è particolarmente accentuato quando l’elemento focalizzante è al diminutivo, un attimino, e quello focalizzato è un aggettivo, che viene di fatto interpretato come intensificato:

(54) assessore oggi a palazzo Valentini c’è aria un attimino tesa forse una crisi alle porte La Grammatica italiana Treccani (2012) si riferisce a questi usi di attimino come usi modali e li glossa come ‘un po’’, ‘davvero’ ‘veramente’.16 4. Osservazioni conclusive Le osservazioni fatte fin qui hanno evidenziato una realtà complessa, dal punto di vista semantico, pragmatico e funzionale. La Figura 1 rappresenta gli usi di un attimo e un attimino, che si addensano intorno a cinque diversi nuclei funzionali che non si dispongono lungo una direttrice lineare, ma costituiscono una rete. Esistono tuttavia dei rapporti di contiguità semantico-funzionale più marcati tra alcuni nodi, segnalati nella figura dalle linee continue, lungo le quali possono esistere punti intermedi. L’assenza di linee di collegamento tra alcuni nuclei marca il fatto che nel corpus fin qui analizzato non abbiamo riscontrato casi di continuità funzionali tra di essi.

FIGURA1.IcinquenucleifunzionaliincuisipossonoraggrupparegliusidiunattimoeunattiminonelcorpusLIP.

Il quadro che emerge è ricco e diversificato perché, come si vede abbiamo cinque diverse costruzioni, che si differenziano sul piano semantico e formale: ATTIMO[TEMP], [QUANT], [FOCUS], [HEDGE] e [ALERT], che possono essere realizzate lessicalmente sia da attimo sia da attimino. Dal punto di vista semantico, le costruzioni coprono un’ampia gamma di significati che va da quello temporale, che incide propriamente sul livello proposizionale, a quello di quantificatore, che è di tipo funzionale-grammaticale, a quello testuale di focalizzatore, fino ad arrivare a quelli più propriamente pragmatici di hedge e alert. Anche sul piano formale vi sono delle distinzioni chiare: mentre le costruzioni ATTIMO[TEMP],

[QUANT], [FOCUS] sono realizzate da costituenti sintattici che possono entrare in una struttura di dipendenza, le costruzioni ATTIMO[HEDGE] e [ALERT] sono realizzate da segnali discorsivi. Ciò sembra confermare l’idea che i significati più propriamente pragmatici siano formalmente connessi ad elementi che solitamente si trovano alla periferia dell’enunciato. Si è infatti trovata una correlazione tra periferia sinistra ed espressione di significati soggettivi e periferia destra e significati

16 In contesti simili troviamo anche filino e tantino, a conferma del ruolo decisivo che hanno i diminutivi nel poter approssimazione e focalizzare nello stesso tempo.

UNATTIMO[TEMP]SN/SPaggiunti

UNATTIMO[ALERT]

SEGNALEDISCORSIVO

UNATTIMO[FOCUS]

A/Avv

UNATTIMO[HEDGE]SEGNALEDISCORSIVO

UNATTIMO[QUANT]A/Avv

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intersoggettivi (Traugott 2010, 2012). Sebbene non abbia condotto un’indagine sistematica sulla posizione della costruzione, la correlazione tra posizione e funzione è confermata da ATTIMO[HEDGE], che si trova preferibilmente nella periferia destra ed ha certamente una funzione intersoggettiva perché ha il compito di guidare il destinatario verso il riconoscimento del punto di vista del parlante. D’altro canto, ATTIMO[ALERT] si trova sempre alla periferia sinistra ed è effettivamente l’espressione soggettiva del parlante, che si rivolge al destinatario per iniziare un discorso. Oltre a differenze funzionali e formali, esistono chiare differenze di frequenza d’uso. Le costruzioni con funzione testuale e pragmatica sono maggioritarie e tra esse ATTIMO[FOCUS] è la più frequente. La situazione è ancora più marcata se guardiamo alle stesse costruzioni realizzate con il diminutivo. In questo caso la costruzione focalizzante raggiunge il 70% di tutte le occorrenze, diventando di fatto quella più tipica e caratterizzante.

TABELLA3.FrequenzadeivariusidiunattimonelcorpusLIPATTIMO[TEMP] ATTIMO[QUANT] ATTIMO[HEDGE] ATTIMO[ALERT] ATTIMO[FOCUS] 23% 21% 10% 19% 27% 44% 56/%

TABELLA4.FrequenzadeivariusidiunattiminonelcorpusLIP

ATTIMINO[TEMP] ATTIMINO[QUANT] ATTIMINO[HEDGE] ATTIMINO[ALERT] ATTIMINO[FOCUS] 14% 10% 6% 0% 70% 24% 76%

L’insieme di questi dati ci permette di tornare alla questione da cui siamo partiti sulla possibilità di avere espressioni di vaghezza con la funzione di focalizzatori. L’indagine che abbiamo condotto conferma che attimo e attimino, come tipo, possono esprimere vaghezza e focus non contrastivo. Lo studio delle costruzioni e dei contesti ci hanno permesso di capire che esistono tre costruzioni che agiscono su piani diversi. In primo luogo, esistono una costruzione ATTIMO[QUANT], che esprime vaghezza informativa e una costruzione ATTIMO[HEDGE], che esprime vaghezza relazionale. La differenza tra le prime due è ben espressa dagli esempi (55) e (56), poiché è evidente che mentre in (55) un attimo agisce sul piano del significato proposizionale, in (56) indica un atteggiamento del parlante più che una quantificazione, seppure vaga:

(55) c’è la supplente ci rilassiamo un attimo (56) domani sento sento un attimo in giro che cosa se ne pensa su questa cosa

In secondo luogo, esiste la costruzione ATTIMO[FOCUS] che agisce su un altro piano ancora, quello testuale, perché mette in evidenza una parte dell’enunciato:

(57) vi volevo aggiornare un attimino su questo disegno di legge

Le tre costruzioni possono essere confuse, ma in realtà operano su piani diversi, ognuno dei quali è parzialmente autonomo rispetto agli altri, pur interagendo con essi. È questa pluridimensionalità della significazione che permette di conciliare la quantificazione del livello proposizionale, con la mitigazione del livello pragmatico con la focalizzazione, che si esprime a livello testuale. Ciò consente al parlante di focalizzare un punto del testo, ma di continuare a trasmettere un atteggiamento vago, con un basso grado di impegno da parte sua e quindi una certa informalità. Ma questa pluralità di piani significativi diventa in alcune occasioni espressione di ambiguità e falsa informalità, uso costruito e affettato; ed è questo, credo, che desta tanta insofferenza nei molti parlanti di cui Setti (2014) e Antonelli (2014) riportano l’opinione.

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VOLIP = Voce del LIP, in rete all'indirizzo http://www.parlaritaliano.it/index.php/it/volip

Di tutti i colori Studi linguistici per Maria Grossmann · (c) due galatei del primo dopo-guerra di Francesca Castellino: Le belle maniere. Nuovo galateo per le giovinette (1918) - [PDF Document] (2024)

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